La fidanzata di Wolfowitz e le nuove rotte della globalizzazione

Le dimissioni del presidente della Banca mondiale possono servire da simbolo della profonda crisi delle istituzioni internazionali, travolte dagli errori della loro politica, e della fine della lieadership assoluta degli Usa sulla globalizzazione. Che continua ad espandersi, ma è diventata multipolare

Alla fine, Paul Wolfowitz ha dovuto arrendersi e abbandonare la presidenza della Banca mondiale. La stampa di tutto il mondo ha raccontato l’incidente di percorso che ha troncato la carriera del teorico e architetto dell’invasione dell’Iraq, promosso alla presidenza della Banca dal suo amico Bush. Per evitare un conflitto d’interessi, Wolfowitz  aveva fatto trasferire la sua “fidanzata” dalla Banca al Dipartimento di Stato con una maggiorazione dello stipendio di 60 mila dollari. Lo scandalo in altri tempi non avrebbe suscitato tanto scalpore. Ma ora le grandi istituzioni finanziarie internazionali sono sotto tiro. Non solo la Banca mondiale, ma la sua sorella maggiore e più potente, il Fondo monetario internazionale, così come l’Organizzazione mondiale del commercio, sono in crisi. Fino a qualche anno fa erano il cuore pulsante della globalizzazione. Oggi le cose sono cambiate. Le grandi cattedrali nelle quali venivano officiati i riti della globalizzazione, secondo il vangelo neoliberista americano, sono state profanate.

 

Vediamo distintamente di cosa si tratta. La crisi della Banca mondiale covava da molto tempo. I suoi prestiti ai paesi poveri destinati, almeno formalmente, a favorirne lo sviluppo si sono sempre più assottigliati. Nel 2006 il totale dei prestiti concessi dalla Banca ammontava a circa 23 miliardi di dollari. Ma la maggioranza è affluita verso paesi ad alta crescita come la Cina e l’India, mentre meno di dieci miliardi sono stati destinati ai paesi più poveri e più bisognosi di aiuto. I prestiti alla Cina sono per molti aspetti un non senso. La Cina dispone di un’incredibile montagna di riserve valutarie dell’ordine di 1200 miliardi di dollari, in gran parte in titoli del Tesoro americano. Non ha bisogno di prestiti. Semmai è in grado di farli, come dimostrano i 200 miliardi di dollari erogati ai paesi africani. Per non parlare degli investimenti nei grandi fondi privati azionari americani. Il non senso si spiega solo col fatto che la Banca ha bisogno di prestare danaro per raccogliere gli interessi  con i quali deve far fronte a circa un miliardo di dollari di spese per la struttura interna che comprende 13.000 funzionari.

 

Insomma, non c’è da stupirsi se da un numero crescente di paesi la Banca sia considerata una sorta di ente inutile. Animato, tuttavia, dall’ambizione di imporre ai paesi più poveri i propri “consigli” su come gestire l’economia, aprire i mercati, attuare politiche di austerità in paesi dove l’austerità si applica ai poveri, e significa riduzione della spesa sociale per l’istruzione e la sanità e, dove esistono, privatizzazione dei sistemi pensionistici. E’in questo quadro che l’“operazione fidanzata” è stata la scintilla che ha fatto esplodere lo scontento e la sfiducia che circonda la Banca, il cui presidente per una regola non scritta, ma sempre applicata, è nominato dal presidente degli Stati Uniti.

 

Ma la cacciata di Wolfowitz non è né la prima né l’unica profanazione dei templi della globalizzazione che si fronteggiano nella 19^ Strada di Washington sotto l’occhio vigile del ministero del Tesoro americano. La crisi era cominciata già prima, colpendo l’organizzazione più potente e temuta: il Fondo monetario internazionale.  Per entrare nel gioco della globalizzazione i paesi emergenti hanno avuto bisogno negli ultimi due decenni del lasciapassare del Fondo. I suoi funzionari compiono ogni anno una missione che controlla la politica economica degli Stati, la politica monetaria e del cambio, la politica fiscale, l’apertura dei mercati, le privatizzazioni, il livello della spesa sociale, i salari, il comportamento dei sindacati. Dalla loro valutazione dipende il rating della fiducia che i mercati assegnano al paese oggetto d'esame. I banchieri centrali e i ministri dell’economia attendono il voto con comprensibile ansia. Spesso è accaduto che i governi dei paesi sottoposti a giudizio abbiano chiesto al Fondo di suggerire la persona che deve governare la banca centrale o assumere le funzioni di ministro delle Finanze.

 

Il giudizio della tecnocrazia del Fondo era la condizione per entrare a pieno titolo nel club della globalizzazione. Ma le cose cominciarono a cambiare con le crisi finanziarie della fine degli anni Novanta. Fu allora che un gruppo di paesi che, avendo seguito alla lettera le “raccomandazioni” del Fondo, si trovarono immersi nella crisi del sudest asiatico che, originata nel 1997 in Tailandia, coinvolse in un’inarrestabile sequenza la Malesia, l’Indonesia, le Filippine, Hong Kong, la  Corea del sud, lasciandosi alle spalle un lungo corteo di recessione, disoccupazione di massa e crescita della povertà. Fu l’inizio del discredito e della rivolta contro le politiche del Fondo. Alcuni tra i più accreditati economisti americani, come Paul Krugman e Joseph Stiglitz, denunciarono le responsabilità del Fondo sia per aver costruito le premesse della crisi, spingendo questi paesi verso un’immatura apertura dei mercati finanziari,  sia per il modo col quale aveva preteso di curarne gli effetti, rendendoli ancora più devastanti.

 

La crisi, percorrendo i sentieri carsici della finanza globale, investì nel 1998 la Russia, causandone la bancarotta, ed estese la sua minaccia al Brasile. Ma il colpo finale alla credibilità del Fondo monetario fu dato dalla crisi che portò nel 2001 alla bancarotta dell’Argentina: il paese che negli anni Novanta, sotto il governo di Carlos Menem,  devoto alle regole iperliberiste del Fondo, dopo aver equiparato al dollaro il peso, aveva dato l’esempio di come si può svendere l’economia nazionale (banche,energia, poste, gas, trasporti, telefoni, acqua), trasferendola nelle mani delle multinazionali e del capitale finanziario internazionale.

 

La misura era ormai colma. Il Fondo monetario internazionale, nato a Bretton Woods su iniziativa di John Maynard Keynes, per creare le basi di un mondo tendenzialmente aperto agli scambi, ma anche in grado di porre rimedio agli squilibri dei pagamenti internazionali, si era trasformato in una mostruosa fonte di crisi a danno dei paesi più poveri che cadevano nella rete del “Washington consensus”, vale a dire della soggezione alle regole del liberismo selvaggio imposto da Washington a beneficio delle multinazionali e della finanza internazionale.

 

Ma il cambiamento delle relazioni fra Stati nazionali e istituzioni internazionali era ormai maturo. Le crisi finanziarie che si erano susseguite fra il 1997 e il 2001 avevano impartito una lezione, dura ma salutare, che i paesi emergenti non avrebbero dimenticato. Dovevano liberarsi dalla tutela delle istituzioni finanziarie internazionali che agivano sotto l’egida del Tesoro americano. L’esempio più clamoroso di ripudio venne dal Brasile. Il nuovo presidente Lula da Silva aveva trovato il paese sull’orlo di una grave crisi finanziaria e aveva dovuto adottare dure politiche di rigore per bloccare l’inflazione e la fuga dei capitali e scongiurare il rischio di una bancarotta di tipo argentino. Avendo percorso con successo, sia pure con pesanti sacrifici, la strada del risanamento economico, decise alla fine del 2005, con una manovra che non aveva precedenti, di restituire in un sol colpo 15 miliardi di dollari al Fondo, azzerando l’intero debito contratto dal Brasile nei suoi confronti. L’esempio fu seguito immediatamente dopo dall’Argentina che, mentre lottava per superare le conseguenze della più grave crisi della sua storia, decise di liberarsi dal cappio del Fondo, ripagando in anticipo l’intero debito di dieci miliardi di dollari.

 

Queste decisioni ebbero per il Fondo non solo un dirompente valore politico e simbolico, ma anche imprevedibili conseguenze materiali. La restituzione di una quota così elevata di prestiti privò il Fondo delle entrate rappresentate dagli interessi. Ne derivò una crisi interna con conseguenze paradossali e piuttosto grottesche per un’istituzione che aveva sempre imposto rigorose norme di austerità ai paesi assoggettati al suo controllo. Quasi per una dantesca e crudele legge del contrappasso spetta ora al Fondo assumere dolorose scelte di austerità. Il Fondo dovrà o licenziare o ridurre gli stipendi ai propri funzionari o, come è stato suggerito da un recente panel di esperti, vendere un parte dell’oro accumulato nelle proprie riserve. Tramonta così, senza solennità e rimpianti, un’istituzione che tradendo i compiti per i quali era stata fondata, era diventata un’organizzazione di potere illimitato nei confronti dei paesi emergenti, a garanzia dell’oligarchia che governa i meccanismi della globalizzazione.

 

Non siamo di fronte alla crisi della globalizzazione che, anzi, accelera il passo e si allarga. Ma certamente siamo di fronte a un cambiamento di rotta. Non vi è più un solo paese alla guida del processo. L’unipolarismo cede il passo alle nuove potenze regionali. Per rappresentare questa nuova realtà è stato coniato un acronimo: i BRICS, vale a dire Brasile. Russia, India e Cina. La globalizzazione va avanti, ma non c’è più una “guida suprema”, in grado di imporre le sue regole e il suo credo.

 

In questo nuovo quadro, il multipolarismo sta facendo un’altra vittima illustre della vecchia governance globale. Il “Doha round” che avrebbe dovuto rimarginare le ferite inferte all’Organizzazione mondiale del commercio a Seattle, dove nel 1999 ebbe luogo la prima grande manifestazione a carattere globale contro la globalizzazione di stampo neoliberista, è ormai sull’orlo del fallimento. In mancanza di concessioni soddisfacenti in tema di politiche agricole e di limiti alla liberalizzazione dei servizi, Brasile e India, che rappresentano i paesi emergenti, hanno bloccato il negoziato, che appare ormai condannato, dal momento che a fine giugno  scade il mandato a trattare di cui dispone Bush, senza dover ricorrere all’improbabile ratifica del Congresso, passato nelle mani dei democratici.

 

La crisi delle grandi istituzioni internazionali è il segno più clamoroso del declino dell’egemonia americana sulla globalizzazione che avrebbe dovuto sostituire una forma di governance tecnocratica globale alla sovranità degli Stati nazionali, non importa se grandi o piccoli. Insieme con la caduta dei templi che erano le istituzioni della globalizzazione, sono in crisi i suoi sacerdoti e soprattutto il credo neoliberista fondato sul deperimento degli Stati e della politica e sulla pretesa inviolabilità della sovranità dei mercati.

 

Ma, se consideriamo gli Stati Uniti, l’aspetto più importante della nuova fase, non sta tanto o soltanto nel declino dell’egemonia esterna, quanto nella crisi interna alla società americana. Nel trionfale decennio di Clinton sembrava che la globalizzazione fosse la pozione magica per la crescita del benessere di tutti. La “New economy” coincideva con una fase di quasi pieno impiego e le rendite provenienti dal boom della Borsa alimentavano le speranze di un benessere largamente diffuso.  Oggi il quadro si presenta rovesciato. La diseguaglianza ha raggiunto livelli che non si vedevano dagli anni Venti, alla vigilia della grande crisi. La middle class,che è al centro della struttura sociale e del “sogno americano”, è sempre più impoverita e afflitta da una perdita di identità. I democratici che sono tornati in maggioranza nei due rami del Congresso cercano di rassicurare quelli che si considerano i losers, i perdenti, della globalizzazione, promettendo che non si faranno più accordi commerciali internazionali senza l’adozione delle “clausole sociali” da parte dei paesi emergenti. Il paradosso sta nel fatto che la libertà di associazione sindacale e di negoziazione, che sono al centro delle clausole che si cerca di imporre ai paesi poveri, non funzionano negli Stati Uniti, dove le regole per la costituzione dei sindacati sono in contrasto con la libertà di associazione, i sindacati non riescono più a entrare nelle imprese e la negoziazione collettiva copre meno del dieci per cento dei lavoratori del settore privato. Il cerchio sembra chiudersi. Quello che doveva essere il trionfo del neoliberismo globale è ripudiato all’esterno ed è causa di malessere e disgregazione sociale all’interno.

 

Certamente, le multinazionali, le banche, la grande finanza rimangono centrali nel processo di globalizzazione.  Ma la loro centralità non è più assoluta. Debbono misurarsi con i nuovi attori che sono emersi a livello regionale. Di questi attori si sarebbe supposto che avrebbe fatto parte l’Unione europea. Ma così non è stato. L’Unione europea vive una vita stentata. Ha il minor tasso di crescita a livello mondiale degli anni Duemila. E’ divisa al suo interno. Si dibatte nella crisi costituzionale. Ma questa è il sintomo di una crisi più profonda.

 
Intanto, il secolo americano sembra debba diventare il secolo cinese. Più probabilmente, sarà un secolo di grandi cambiamenti con nuovi attori su una scena mondiale sempre più articolata a livello di grandi aree regionali. La domanda a cui non si può sfuggire è: come si colloca l’Europa nel nuovo scenario della globalizzazione? E’ una quesito che rimane in ombra o, quando viene alla luce, riceve risposte generalmente vecchie o puramente retoriche. Eppure è una domanda tanto essenziale quanto complicata sulla quale converrà tornare in una prossima occasione.

Sabato, 26. Maggio 2007
 

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