La Fata Morgana ministro dell’Economia

Le linee di politica economica in Italia si alimentano di miti. E’ proprio vero che la concorrenza genera sempre un vantaggio per il consumatore? Davvero le imposte indirette sono meno penose di quelle dirette? E’ certo che l’occupazione si avvantaggia agendo solo dal lato dell’offerta?

In un mio libriccino di parecchi anni or sono - oggi introvabile, non per folla di lettori, ma per scarsissima tiratura - ho affrontato il problema dei cosiddetti "miti" economici. Il mito è una credenza non sempre (o quasi mai completamente) veritiera: che è però largamente diffusa e non di rado fornisce il supporto per così dire psicologico ai provvedimenti di politica economica. Il mito richiede un eroe eponimo (nel nostro caso un economista possibilmente defunto) e degli epigoni. Essi sono gli sciamani dell'epoca moderna, preferibilmente professori universitari con quel tocco "so british" che tanto impressiona l'opinione pubblica provincialotta del nostro Paese.

 

Nei fatali anni settanta imperversò il mito del salario come variabile indipendente, vessillo di rivendicazioni un po' confuse della cosiddetta "gauche au caviar": che attualmente ha forse cambiato dieta, ma non ha migliorato la logica formale. Attualmente vengono considerate come protopostulati indiscutibili due tesi che riscuotono non solo il plauso degli opinionisti, ma anche la fiduciosa attesa del popolo dei consumatori.

    

La prima è quella secondo la quale la concorrenza e, quindi, indirettamente le liberalizzazioni, provoca sempre e necessariamente un vantaggio per il consumatore; divenendo così un trampolino per lo sviluppo. La seconda - fondata su una valutazione psicologica più sottile - consiste nel ritenere che "spostando l'asse del peso tributario dall'imposizione diretta a quella indiretta" (mozione di diritto sulla politica fiscale del presidente del Consiglio) si allevia la penosità del carico impositivo: spianando così la strada ad un secondo trampolino sempre per l'ipotetico sviluppo.

 

La mitologia della libera concorrenza è collegata ad un modello di sviluppo nel quale si assumono implicitamente costi e ricavi costanti: i costi per unità di prodotto, cioè, non diminuiscono al crescere del volume della produzione e delle vendite. L'apertura del mercato consente l'afflusso di "new-comers" almeno sino al punto in cui i prezzi, scendendo, annullano il profitto degli imprenditori. Essi, dunque, dovranno accontentarsi, per così dire, del solo "salario manageriale".

    

Ma la realtà economica non solo nell'industria, ma anche nell'agricoltura e nei servizi, ci offre un panorama diverso. I costi tendono a scendere all'aumentare del volume di produzione delle singole aziende fino a che esse raggiungono la dimensione economica ottima, che può essere anche molto grande.

 

Esaminiamo ora il problema dal punto di vista del consumatore. In un mercato di libera concorrenza il prezzo che deve pagare non può essere inferiore al costo pieno delle imprese che, date le loro limitate dimensioni, è certamente più alto di quello che avrebbe un monopolista od un oligopolista. Quest'ultimo individuerà quel prezzo che, moltiplicato per le quantità vendute, gli garantisce il massimo profitto rispetto al capitale proprio. Se utilizza capitale di terzi (finanziamento bancario) gli interessi da corrispondere saranno inglobati nei costi. E' possibile - è anzi molto probabile - che il prezzo praticato, tenendo conto delle forti economie di scala, risulti sensibilmente inferiore a quello di una molteplicità di piccoli operatori, i quali non possono ovviamente scendere al di sotto del profitto zero.

    

Con l'approccio tipico di San Tommaso, la controprova empirica di questa tesi si trova chiedendo alla casalinga di Voghera di rispondere alla seguente domanda: quali sono i punti vendita dove i prezzi di una vasta gamma di prodotti sono minori? Vi risponderà: supermercati e discount. Non si verificano neppure le ipotesi della scuola nordamericana della "workable competition" (concorrenza tra numerose imprese di dimensioni ottimali) perchè attraverso incroci finanziari coperti da marchi diversi queste catene sono in realtà oligopolistiche a livello europeo.

    

Tali considerazioni consentono di confutare il mito delle liberalizzazioni come panacea automatica per il consumatore. Esso potrebbe concretizzarsi solo se accompagnato da una politica tesa a favorire, anche fiscalmente, il conseguimento delle dimensioni economiche ottime dei produttori, o individualmente o come partecipi di un sistema cosiddetto stellare: nel settore commerciale, tipo catene di acquisti o Conad.

 

Una seconda mitologia - che nasconde un'illusione finanziaria e cioè un inganno della classe politica nei confronti dei cittadini - è quella della minore penosità fiscale che risulterebbe, a parità di gettito, dallo spostamento del peso delle imposte da quelle dirette a quelle indirette. Osserviamo, per incidens, che nel caso italiano da qualche anno le seconde prevalgono già rispetto alle prime. E' vero che questo spostamento dà una sensazione di minore onere perché l'imposta diretta implica un obbligo, mentre quella indiretta, inglobata nel prezzo, ha un aspetto volontaristico: pago perché lo voglio, ma potrei astenermi dall'acquisto.

    

Occorre, in materia, una riflessione. Innanzi tutto le imposte indirette non sono tutte uguali. Le imposte suntuarie dell'antica Roma erano certamente progressive. Però è difficile graduare le aliquote verso l'alto se non nell'ambito di intervalli concordati a livello comunitario. Gli effetti inoltre sono diversi a seconda delle strutture di mercato. L'onere impositivo può incorporarsi nel prezzo al consumo (traslazione in avanti); ridurre i profitti dei produttori o degli intermediari o spingere ad accorciare la filiera (traslazione all'indietro); o propagarsi all'intero livello generale dei prezzi (diffusione).

    

Nel primo e nel terzo caso - i più probabili, secondo tutte le esperienze note - la manovra risulterà regressiva: inciderà cioè maggiormente sui ceti economici inferiori, mentre l'imposta diretta prevede aliquote più che proporzionali al crescere del reddito. Appare piuttosto improbabile il caso in cui vengano colpiti prevalentemente i produttori e/o gli intermediari (spesso piccole o piccolissime aziende); ma allora vedremmo le folle dei lobbisti nelle stanze della Camera dei deputati e del Senato.

 

Sempre nell'ottica della valutazione oggettiva di questi miti economici o Fate Morgane, occorre considerare, come abbiamo accennato in un precedente articolo, il dibattito sul mercato del lavoro che sta assumendo aspetti surreali. Si tratta infatti di una discussione bizantineggiante su di un oggetto che manca: appunto, il lavoro. Sembrerebbe che una migliore organizzazione del lavoro possa favorire la ripresa dello sviluppo. Condizione necessaria ma non sufficiente, ammette a denti stretti (e che denti!) il ministro Fornero. Sembra dubbio che questa riforma riduca il costo del lavoro per le imprese, a meno che non sia sottesa l'ipotesi di contratti alla Marchionne, dove la produttività aumenterebbe attraverso la riduzione delle pause per fare pipì. Sarebbe invece interessante riflettere sulla possibilità di utilizzare ai fini dello sviluppo la cospicua massa monetaria costituita dalla Cassa Integrazione in deroga. Questa opzione è stata ventilata dal ministro sotto il profilo giuridico: come può ricadere nel meccanismo proprio della Cassa Integrazione un sussidio a lavoratori le cui  imprese originarie sono defunte? Ancora una volta però si cercano soluzioni dal lato dell'offerta (riqualificazione professionale, salario minimo garantito, potenziamento delle agenzie per ricerca di lavoro).

    

Forse si potrebbero riesumare progetti dal lato della domanda, come investimenti pubblici nella manutenzione del territorio, contributi a settori ad alto tasso occupazionale, creazione di zone franche. La Cassa garantirebbe una copertura parziale, ma cospicua per quanto concerne il costo del lavoro. Probabilmente occorrerebbe un abile dribbling fra i paletti comunitari in materia di aiuti di Stato: se si trattasse prevalentemente di opere pubbliche, forse la soluzione si troverebbe.

    

Si risponderebbe così anche all'obiezione, da noi segnalata, secondo la quale è iniquo un sistema nel quale si affiancano due categorie di disoccupati: quelli privi di qualunque sussidio perché non riescono a entrare sul mercato del lavoro, e quelli che pur non lavorando ricevono un salario, anche se decurtato.

    

Si richiederebbe, dunque, il coraggio di adottare soluzioni innovative: ma - come sentenzia il Manzoni - se uno il coraggio non ce l'ha, non se lo può dare.

Giovedì, 8. Marzo 2012
 

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