La crisi Fiat e la ricetta Volkswagen

Come non si uccide - e anzi si rilancia - una grande impresa automobilistica.

Che cosa può accomunare Fiat e Volkswagen nell’autunno del 2002? Assolutamente nulla. La casa tedesca è il numero uno in Europa, la Fiat rischia la scomparsa. Ma le cose non sono state sempre così.


All’inizio degli anni ’90, la Volkswagen si trovò ad affrontare la crisi più grave della sua storia. Correva l’anno 1993, quando la VW gettò nel panico Wolksburg, la città della Bassa Sassonia dove sono insediate le sue fabbriche, e l’intera Germania, annunciando che il protrarsi della crisi aziendale (stava perdendo due miliardi di DM, pari oggi a oltre un miliardo di euro), la costringeva a licenziare trentamila lavoratori sui centomila che costituivano la sua forza lavoro in Germania.

La drammaticità dell’annuncio non metteva solo in discussione la più grande azienda automobilistica del paese, ma i rapporti sociali costruiti nel corso del dopo-guerra tra grande impresa e sindacati. Gli ambienti conservatori considerarono la crisi un’occasione buona per rompere con un modello di relazioni industriali basato sulla mitbestimmung (la cogestione) e un sistema di tutele che rendeva molto costosi, quando non improponibili, i licenziamenti collettivi. Finalmente, l’economia sociale di mercato costruita e difesa, senza grandi distinzioni, da democristiani e socialdemocratici, avrebbe dovuto cedere a una "trasparente economia di mercato" senza la contaminazione di una politica industriale e sociale onnipervasiva.

Se la Germania si fosse adeguata al modello inglese seguito da Margaret Thatcher negli anni ’80, il mercato avrebbe certamente vinto, sia pure al prezzo della frantumazione dell’industria nazionale dell’auto, e in ogni caso col “vantaggio” di liquidare un pezzo importante del sindacalismo tedesco, che ha il suo punto di forza nella IG Metall,il sindacato dei metalmeccanici.

Ma le cose andarono diversamente. Il governo della Bassa Sassonia, che controllava il 20 per cento delle azioni Volkswagen, non aveva alcuna intenzione di affidare al mercato un’incerta ristrutturazione che cominciava con il licenziamento di un terzo della forza lavoro. Bisognava bloccare i licenziamenti ed elaborare una politica aziendale di rilancio. Governo, banche, impresa, sindacati dovevano immaginare una via d’uscita diversa dai processi di ristrutturazione basati sul ridimensionamento aziendale e i licenziamenti di massa.

Oltre a tamponare la crisi finanziaria - ciò che implicava un forte intervento pubblico - bisognava mantenere al lavoro trentamila lavoratori considerati in esubero. La soluzione trovata fu per molti versi rivoluzionaria, e per i suoi critici destinata ad aggravare le crisi dell’azienda. Fu ridotto l’orario di lavoro del 20 per cento col passaggio da 36 a 28,8 ore settimanali medie, in pratica la riduzione della settimana lavorativa a quattro giorni; ma con un'ampia flessibilità nel corso dell'anno che consentiva di adeguare la produzione agli andamenti stagionali della domanda. Contemporaneamente fu profondamente mutata l'organizzazone del lavoro per aumentarne l'efficienza. In parallelo, furono concordati con i sindacati il rinvio degli aumenti contrattuali e la riduzione di una parte di benefici salariali corrispondenti al dieci per cento della retribuzione annua.

Alla direzione dell’impresa fu chiamato Ferdinand Piech, proveniente dalla Porsche. Il nuovo piano industriale fu basato sull'introduzione di nuovi modelli con decine di varianti, puntando a realizzare un prodotto di eccellenza. Nacquero la nuova Golf e i vari modelli che, aggiornati e continuamente migliorati, si sarebbero imposti sul mercato europeo e avrebbero conquistato una fetta importante del mercato americano.

Probabilmente senza l’intervento pubblico del Land, a lungo governato dall'attuale cancelliere, Gerhard Schroeder, e senza la partecipazione pubblica al capitale dell’azienda, il destino della VW sarebbe stato irrevocabilmente segnato. Le soluzioni del '93 furono considerate il residuo di una politica conservatrice, basata sulla protezione dell’industria nazionale strategica e sulla difesa di un modello sociale basato su alti salari (mediamente i salari nell’industria manifatturiera tedesca sono del 66 per cento più alti che in Italia e del 33 per cento più alti che in Francia) e sulla difesa del posto di lavoro.

Sono passati quasi dieci anni e i risultati di quella politica, considerata obsoleta e destinata al più misero dei fallimenti nell’epoca delle privatizzazioni e della globalizzazione, sono sotto gli occhi di tutti.

La VW è la prima azienda automobilistica in Europa. Fabbrica oltre cinque milioni di auto (il 50 per cento in più del 1993)con una gamma che comprende, oltre al proprio, marchi popolari come la Seat spagnola e la Skoda ceca, e marchi della fascia alta, dall’Audi fino alla Bentley e alla Lamborghini. Il suo successo è stato basato sull’immagine della qualità.

Dopo la crisi dell’ultimo anno, con l’economia europea stagnante e quella tedesca in sostanziale recessione, anche la VW accusa difficoltà. Nel senso che dovrà accontentarsi di profitti ridotti, rispetto ai quattro miliardi di euro di profitto realizzato nel 2001!

Questa è la storia di un’azienda automobilistica – probabilmente oggi la più efficiente del mondo – di cui non amano parlare gli apostoli del libero mercato. L'intervento dello Stato-regione della Bassa Sassonia fu decisivo per salvare e rilanciare la VW. E' come se in Italia si consorziassero le regioni interessate alla difesa dell' occupazione legata alla Fiat per partecipare alla ricapitalizzazione dell'azienda che, nelle attuali condizioni, rischia di essere svenduta alla General Motors senza alcuna reale garanzia per il suo futuro. Ed è come se un nuovo management e un nuovo piano industriale si proponessero di utilizzare l'immagine vincente della Ferrari, oggi il più prestigioso marchio a livello mondiale, e la buona affermazione dell'Alfa Romeo negli ultimi anni, per puntare a una produzione di eccellenza, in grado di riconquistare lo spazio perduto in Europa e, prima ancora, in Italia.

Il tutto non per rinnovare l'errore di uno splendido quanto letale isolamento, ma per puntare in condizioni di rilancio, a nuove alleanze con la General Motors, la cui opzione scade nel 2009, o con altre imprese automobilistiche. La crisi della VW del decennio passato si è risolta con l'affermazione di una strategia industriale di intervento pubblico e di collaborazione sociale che è diventato il "modello Volkswagen". La crisi della Fiat rischia di diventare l'ultima e irreparabile conferma del modello di crisi della grande industria italiana. Basta sapere che non si tratta di un destino ineluttabile, ma di scelte (o mancate scelte) di una classe dirigente ideologicamente confusa e politicamente inefficiente.

Lunedì, 14. Ottobre 2002
 

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