La Consulta e l’Ichino furioso

Il giuslavorista ed ex senatore Pd se l’è presa con la Corte Costituzionale che ha demolito un altro pezzo del Jobs act renziano, che prevedeva il solo indennizzo in denaro nel caso di un licenziamento giudicato illegittimo: il lavoratore deve essere invece reintegrato nel posto. Per Ichino, invece, la possibilità di reintegrazione doveva essere cancellata del anche nel caso residuale in cui era rimasta

Forse non la più bella ma certamente la più realistica, tra le vignette di Forattini1, immortalava l’ex “boss” della Dc, Giulio Andreotti intento ad assolvere una delicata ma fondamentale funzione corporale. 

La didascalia era fulminante: “Una ne fa e cento ne pensa”!

L’opera del geniale vignettista mi tornava in mente appena qualche settimana fa, dopo aver letto l’ultima filippica di Pietro Ichino contro la Corte Costituzionale, rea - a suo parere - di avere inferto l’ennesimo “colpo” al Jobs act di renziana memoria.

Questa volta, oggetto della dura requisitoria del noto giuslavorista, era la sentenza del 1° aprile 2021, nr. 59, attraverso la quale la Consulta è intervenuta, ancora una volta, per sancire la incostituzionalità di quanto previsto in una parte dell’art. 18, comma7, della legge 20 maggio 1970, nr. 300 (come modificata dalla legge 28 giugno 2012, nr. 92).

Come ampiamente noto, l’ormai famigerata legge Fornero (non rimpianta Ministra del lavoro del governo Monti) aveva reso la cosiddetta “tutela reale” del reintegro nel posto di lavoro un’ipotesi residuale, quasi impossibile. In modo particolare per i licenziamenti individuali dettati da motivi oggettivo-economici.

Il tutto fondato su di una grande menzogna. Quella secondo la quale la “rigidità” rappresentata dalle tutele previste dall’ex art. 18 dello Statuto finiva, in effetti, con il penalizzare i lavoratori perché disincentivava i datori di lavoro alle assunzioni stabili, favorendo, di conseguenza, il lavoro precario.

Rispetto a questo tema, non è mia intenzione tornare, in questa sede, su questioni già molto note ed ampiamente discusse; mi limito, quindi, a rilevare che rispetto ai licenziamenti individuali le imprese, in realtà, non avevano le “mani legate” da un eccesso di tutele a favore dei lavoratori. Al contrario, anche in vigenza dell’ex art. 18, godevano di ampie facoltà di licenziare ove imposto da motivi economico-disciplinari o di qualunque altro genere; ciò che non era consentito era il licenziamento arbitrario.

Quindi, in realtà, lo stravolgimento dell’art. 18, attraverso le modifiche apportate dai governi Monti e Renzi, tendeva unicamente a modificare i rapporti di forza. Questo perché è sin troppo ovvio che la garanzia del proprio posto di lavoro rappresenta l’abc di tutti gli altri diritti. Diritti difficilmente esercitabili o comunque resi oggettivamente impraticabili quando il loro esercizio può produrre un licenziamento non censurabile dal giudice preposto.

Tornando all’ultimo provvedimento della Corte Costituzionale, è importante evidenziare che la stessa ha sancito il principio secondo il quale - così come previsto nel caso di insussistenza del fatto contestato a un lavoratore, nel caso di licenziamento per motivo soggettivo - anche nel caso di accertata assenza del motivo economico-organizzativo, il giudice “deve sempre disporre la reintegrazione2”.

Ciò perché è stata ritenuta incostituzionale quella parte della norma che prevedeva una disparità di trattamento - da una parte la reintegrazione e dall’altra la sola tutela indennitaria, da un minimo di 12 a un massimo di 14 mensilità - tra uninsussistente motivo di licenziamento soggettivo e un altrettantoinsussistente motivo oggettivo.

Ebbene, quello che ai più appare un concreto atto di civiltà giuridica, teso a impedire inammissibili discriminazioni ai danni dei lavoratori - troppo frequentemente dettate da arbitrarie decisioni unilaterali - e, quindi, a tutelare la parte “debole” nel rapporto, ha prodotto quella che, a mio parere, appare un’ingiustificata ed inammissibile requisitoria dell’ex Senatore Pd.

Eppure, proprio in virtù delle più recenti sentenze della Corte Costituzionale e in ossequio al doveroso rispetto delle stesse, tale incontenibile furia iconoclasta andrebbe adeguatamente contenuta.

Tra l’altro, non è la prima volta, e probabilmente non sarà l’ultima, che la Suprema Corte giudica incostituzionale una delle nuove norme relative ai licenziamenti tanto cari a Pietro Ichino.

Con la sentenza 8 novembre 2018, nr. 194, ad esempio, fu sancita l’incostituzionalità dell’art. 3 del decreto legislativo 4 marzo 2015, nr. 23, in materia di indennizzo del lavoratore a seguito di un licenziamento ritenuto non sufficientemente motivato.

All’epoca la Corte stabilì il principio secondo il quale al giudice dovesse essere attribuita ampia discrezionalità nella determinazione dell’indennizzo monetario - tra il minimo e il massimo previsto dalla legge - spettante al lavoratore, anche in base a parametri diversi dalla mera anzianità di servizio.

Già in quell’occasione, così come quando - in nome del superamento del cosiddetto “dualismo” esistente nel mercato del lavoro italiano e in ossequio all’esigenza di armonizzare il nostro diritto del lavoro a quello dei partner europei - proponeva, in sostanza, un adeguamento in pejus delle tutele, l’ex Senatore contestò il provvedimento ritenendo che la consulta peccasse di “provincialismo”.

Giudizio, quest’ultimo, ingeneroso ed evidentemente avventato perché - anche se ignorato e mai “registrato” dal prof. Ichino - platealmente smentito, nel febbraio 2020, dal Comitato europeo dei diritti sociali3”.

Infatti, in seguito a un ricorso della Cgil Nazionale, che denunciava l’ingiusta predeterminazione - attraverso una norma del cosiddetto “contratto a tutele crescenti4” - di un tetto massimo al risarcimento dovuto al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, il Comitato decise che, in sostanza, il sistema sanzionatorio previsto dal Jobs act finiva con l’incoraggiare, o quantomeno non dissuadere, il ricorso a quel tipo di provvedimento.

Al lavoratore vittima di un licenziamento illegittimo”, scrive Enzo Martino5 (in riferimento alla decisione del Comitato), “va assicurato il risarcimento integrale del danno subito, senza limiti di sorta: solo così il sistema sanzionatorio può essere considerato veramente dissuasivo per i datori di lavoro e coerente con la normativa europea”.

Si tratta, a ben vedere, di un principio potenzialmente in grado di minare le fondamenta del contratto a tutele crescenti e riportare alle luci della ribalta gran parte delle motivazioni addotte a difesa e sostegno dell’ex art. 18.

Tornando alla sentenza 59/2021, reputo rilevante e, ancora una volta - purtroppo - degna di nota, l’incontenibile furia iconoclasta cui ricorre l’ex Senatore Pd nel reiterare gli “assalti alla diligenza” che, metaforicamente, trasporta diritti e tutele ancora (parzialmente) garantiti dalla legge e dalla Carta costituzionale.

In definitiva, trovo assolutamente incomprensibile ed ingiustificata la vera e propria crociata anti-tutele che Pietro Ichino continua a condurre nei confronti dei lavoratori italiani.

Fino al punto di arrivare a ritenere preferibile che la corte Costituzionale - piuttosto che affermare il principio di cui alla sentenza 59/2021 - avesse riformato la legge Fornero “nel senso di estendere anche al licenziamento disciplinare (nel caso di insussistenza del fatto contestato, evidentemente) la stessa discrezionalità prevista per quello di natura economico-organizzativa (piuttosto che imporre l’obbligo della reintegrazione!).

Questo perché, a suo parere “Non sta scritto da nessuna parte che, nel caso in cui la consulta rilevi in una norma legislativa una disparità di trattamento irragionevole(!), la parificazione debba avvenire necessariamente nel senso della maggiore rigidità della norma (o, piuttosto, nel senso di un elementare principio di giustizia sociale?) e non nel senso inverso, o nel senso del ritorno al passato invece che dell’adeguamento del vecchio al nuovo”.

Certamente! Concluderei: soprattutto quando, rispetto alla controparte, si tratta di riportare indietro di almeno 50 anni le condizioni oggettive e soggettive dei lavoratori italiani.

 

 

NOTE

 

1)      Giorgio Forattini: capace di sintetizzare, attraverso la satira, più di quanto possa realizzare un approfondito servizio d’informazione giornalistica. Tra l’altro, fu più o meno questo l’effetto di una sua vignetta - relativa all’affare Mitrokhin - che indusse D’Alema a querelarlo e, in sostanza, ad interrompere la sua collaborazione ultradecennale con il quotidiano “La Repubblica”.

2)      La legge 92/2012 attribuiva invece al giudice la “facoltà” di disporre la reintegrazione.

3)      Le decisioni del Comitato, contrariamente a quelle della Corte di giustizia, non sono immediatamente esecutive nei confronti degli Stati membri. Tuttavia hanno un rilevante peso politico e costituiscono precedenti importanti per i giudici nazionali.

4)      Altro storico cavallo di battaglia di Pietro Ichino, i cui principi ispirarono il governo Renzi nel produrre, per i lavoratori dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015, il superamento del vecchio rapporto di lavoro a tempo indeterminato (con tutte le garanzie in termini di “giusta causa”) a vantaggio di quello a tutele crescenti (nel senso dell’ammontare crescente dell’indennità).

5)      Fonte: “Jobs Act, il Consiglio d’Europa lo boccia. Ora si riparta dall’art. 18”. Del 19 febbraio 2020, su www.ilfattoquotidiano.itA cura di Enzo Martino, avvocato giuslavorista e socio fondatore di “Comma2, lavoro è dignità”.

Sabato, 8. Maggio 2021
 

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