La classe operaia andrà in albergo

La cifra di 100 miliardi per incentivi allo sviluppo dichiarata dal ministro Passera è illusoria, perché si riferisce a un periodo di vari anni, ma comunque sembra che il governo si stia decidendo a fare qualcosa per la crescita. Che però quasi certamente non sarà labour intensive: è più probabile che si crei qualche posto nel settore dei servizi
Un recente documento parlamentare impegna genericamente il governo a interventi per la crescita. Più efficaci, forse, gli indirizzi di Draghi e il lavorio diplomatico in sede comunitaria per ammorbidire le rigidità tedesche, parzialmente giustificate dal timore di dover uccidere il vitello grasso per accogliere i figli prodighi. In questa fase di dinamismo per ora solo verbale colpiscono gli atteggiamenti critici di quei partiti che, avendo malgovernato il Paese per quasi un decennio, ne hanno accentuato la fragilità, così come la scoperta delle misere pensioni, i cui dati non sono di oggi ma del 2010: come se una doverosa damnatio memoriae si trasformasse in un'assoluzione di responsabilità. In politica e nella storia la prescrizione non è prevista.
    
In questo clima un po' miracolistico il ministro Passera vola alto come un falco, assicurando 100 miliardi (!) di incentivi allo sviluppo. A questa cifra si giunge sommando manovre per un rilevante numero di anni, a conferma che il virus degli annunci epocali non è stato ancora domato. Tuttavia le direzioni di intervento sono in parte quelle da noi auspicate in precedenti articoli. Le elenchiamo: a) cartolarizzazione di parte del patrimonio immobiliare; b) aste per le concessioni anche balneari; c) svincolo stanziamenti per infrastrutture (ma non siamo sicuri che ci siano le disponibilità di cassa); d) sgravi fiscali alle imprese, soprattutto start-up di imprenditoria giovanile; e) rimborso di 36 miliardi di crediti delle imprese verso la P.A., con certificazione pro soluto; f) ruolo attivo della Cassa Depositi e Prestiti; g) attuazione concreta della riduzione delle cosiddette spese improduttive.
 
Se queste iniziative fossero realizzate almeno parzialmente in tempi brevi potrebbero esercitare stimoli alla crescita. Anche l'effetto annuncio, se creduto valido, può contribuire a mutare le aspettative e a promuovere quell'inizio di ripresa che il vice-ministro Grilli (come noi avevamo anticipato alcuni mesi fa) colloca tra il terzo e il quarto trimestre del 2012.  Vorremmo dunque cogliere l'occasione per una riflessione critica su tre fenomeni che condizionano la ripresa e le cui caratteristiche non sembrano del tutto chiare anche agli opinion makers:
1) Il modo più corretto di calcolare la pressione fiscale;
2) l'efficacia reale della riduzione della spesa pubblica e cioè dell'applicazione concreta della spending review;
3) il significato della elusione e la conseguente difficoltà oggettiva di recuperare il gettito che essa copre più o meno legalmente. Ricordiamo che ormai tutti convengono sulla necessità di rilanciare investimenti e domanda: i provvedimenti attuali, infatti, sono allineati sul versante della supply-side.
 
E' opinione corrente che la pressione fiscale abbia raggiunto in Italia un massimo storico; e ciò tanto più in quanto un 20% dell'imponibile è di fatto esente perché in nero. Il metodo di calcolo però si presta a precisazioni metodologiche, che comportano due correzioni, una in diminuzione e l'altra in aumento, quando si consideri il soggetto effettivamente inciso dalla pressione.
   
Per quanto concerne la riduzione sarebbe corretto scorporare i contributi previdenziali e sanitari, perché si tratta di premi assicurativi, probabilmente inferiori rispetto a quelli privatistici. Sui singoli contribuenti, peraltro, il peso delle imposte non si limita a quelle cui è legalmente soggetto. I tributi che colpiscono le imprese ed anche i professionisti finiscono per gravare in parte su soggetti diversi tramite il meccanismo dell'aumento dei prezzi di beni e servizi. Il bello o il brutto di questo fenomeno è che colpisce più i poveri che i ricchi perché questi ultimi hanno maggiore capacità contrattuale e perché superando il digital divide sono più abili nel fare acquisti in rete. L'unica strada per attenuare questo fenomeno consiste nella accentuazione della concorrenza.
 
Sulla riduzione della spesa pubblica sono state create, non sappiamo quanto in buona fede, rappresentazioni illusorie. La spesa pubblica si può dividere in due categorie: per il personale e per l'acquisto di beni e servizi (compresi affitti, ammortamenti, manutenzione immobili o infrastrutture). Per la prima categoria si può ottenere un risparmio o con il blocco del turnover, che ha un andamento lento, o con pensionamenti anticipati che per il settore pubblico rappresentano una partita di giro, sia pure con un costo un po' inferiore. E' peraltro possibile accrescere la produttività della spesa, spostando il personale dai settori in eccedenza a quelli deficitari, come l'amministrazione della giustizia.
    
L'acquisto di beni e servizi centralizzato con gare europee offre notevoli possibilità di risparmio soprattutto se intacca le quote di intermediazione (leggi "mazzette"). Vi è il rischio di escludere piccole o medie imprese locali a favore di multinazionali con effetti occupazionali negativi: nel qual caso i risparmi della P.A. producono costi a carico della Cassa Integrazione. L'accorpamento di unità territoriali (Province, Comuni, prefetture, tribunali) potrebbe avere effetti positivi anche in termini di efficienza, ma suscitando violente proteste come si è visto con la riforma ospedaliera.
    
L'insieme di queste manovre potrebbe tuttavia risultare un intervento a coriandoli, producendo un patchwork senza un profilo ben definito: sommando microinterventi - peraltro indispensabili per la riqualificazione dei centri di spesa - sembra che si prescinda dall'inserimento nel quadro di quella programmazione globale, da noi più volte invocata. D'altro canto con una maggioranza anch'essa a coriandoli la corrispondente politica non può forse essere diversa.
 
Ritornando ai segnali di crescita inviati al Paese dal governo l'efficacia della timida manovra di stimolo, che in carenza di domanda interna sembra un capannone industriale senza macchinari, potrà compensare l'effetto recessivo delle tasse riequilibratrici a seconda del rapporto delle velocità di propagazione dei due tipi di provvedimenti. Tali velocità dipendono da vari fattori. Uno di essi (psicologico) è il "mood" degli operatori, che per ora volge al brutto, anche perché il sobrio eloquio del presidente del Consiglio non esercita particolari effetti trascinatori. Un secondo fattore è costituito dalla pluralità dei passaggi burocratici che paradossalmente rallentano gli stessi provvedimenti di semplificazione: basti pensare che la realizzazione del dettato legislativo comporta quasi sempre decreti attuativi e circolari interpretative.
    
Un terzo elemento è costituito dal grado di collaborazione della P.A. Sugli statali gravano ancora le ferite inferte dal tornellatore Brunetta, aggravate da provvedimenti obiettivamente mortificanti da parte dell'attuale governo. Fra le materie di studio della Bocconi non sembra ve ne sia una che insegni il modo di creare empatia con i tecnici dell'amministrazione, che pure sono non di rado ad alto livello di preparazione. Per esemplificare se il ministro Riccardi fosse stato al posto della signora Fornero i dirigenti della P.A. avrebbero forse evitato il colossale errore degli esodati.
 
Le speranze di ripresa economica sono affidate anche all'entità del recupero del gettito da evasione e soprattutto da elusione, che consiste nelle detrazioni praticate nei confronti dei redditi di artigiani, commercianti e professionisti. Basterà un esempio ipotetico. Supponiamo che un lavoratore dipendente si trasformi in professionista, svolgendo ad esempio un telelavoro e percependo lo stesso importo annuo di 16.000 euro. Detraendo il leasing parziale dell'auto, la quota parte dell'affitto, condominio, telefono, luce, riscaldamento degli spazi destinati al lavoro più altre spese documentate, come contatti con potenziali clienti, si ottiene senza fatica una detrazione complessiva che riduce il reddito netto quasi alle soglie del minimo imponibile. Le statistiche che certificano redditi dichiarati di imprenditori minori di quelli dei loro dipendenti - accolte con falso stupore da quei giornali della destra economica che di certe categorie sono sempre stati accaniti difensori - si spiegano con un sapiente cocktail di evasione ed elusione, favorita quest'ultima dagli incerti confini delle detrazioni consentite. Un piccolo o forse grande passo nella direzione di correggere queste storture è stato fatto con un provvedimento stranamente passato sotto silenzio: lo scorporo dal reddito d'impresa del salario manageriale che a questo punto viene assoggettato alla normativa valida per il lavoro dipendente.
    
In conclusione il rapporto fra le due grandezze (l'una positiva e l'altra negativa) moltiplicate per le loro velocità e per gli effetti indotti segnerà il discrimine fra recessione e ripresa. Rimarranno incerte le prospettive occupazionali: l'espansione si realizza a livelli superiori della tecnica, probabilmente meno labour intensive. Gli sbocchi saranno dunque nei servizi alla persona. La classe operaia non andrà in Paradiso, ma negli alberghi, negli ospizi e negli asili nido.
Lunedì, 30. Aprile 2012
 

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