La chance di Obama

Scampato il pericolo di un’elezione di Romney, il presidente si trova subito di fronte allo spinoso problema di affrontare la “voragine fiscale”, in una situazione in cui la Camera è ancora a maggioranza repubblicana. In passato il tentativo di soluzioni bipartisan hanno dato esiti deludenti. Il modo in cui sarà affrontata questa sfida sarà decisivo

Possiamo parlare di uno scampato pericolo. La vittoria, per nulla scontata, di Barack Obama ci ha risparmiato il ritorno in grande stile non solo di una politica ma anche di un’ideologia che hanno già prodotto infiniti guai. Questo vale innanzitutto per l’America ma, di riflesso, anche per l’Europa dove il vento neo-conservatore è alimentato dalla grande maggioranza di governi di destra, in qualche caso appena velati dalla maschera tecnocratica.

 

La vittoria di Obama non è stata trascinante come nel 2008. Ma rispecchia la nuova America: i giovani, soprattutto le donne intolleranti del conservatorismo bigotto della vecchia coalizione repubblicana, coloro che si battono per l’affermazione dei diritti degli immigrati, i “latinos” che sono il dieci per cento della popolazione e che, al pari degli asiatico-americani, hanno per oltre due terzi votato Obama. Si tratta dell’annuncio di una nuova possibile maggioranza democratica. Ha osservato David Brooks, editorialista di tendenza conservatrice del New York Times, che il mantra della vecchia maggioranza bianca protestante, fondato sul conflitto fra l’etica individualista e il ruolo del governo, ha perduto la seduzione che aveva al tempo in cui Reagan trionfava con lo slogan: “Il governo è il problema, non la soluzione”. Da questo punto di vista, l’America apre al futuro. In Europa, purtroppo, la crisi spinge verso un passato di sopite divisioni nazionali e conflitti sociali.

 

Tuttavia, la domanda è perché la vittoria di Obama sia stata così lungamente incerta e, alla fine, segnata da una scarna maggioranza del 50 per cento del voto popolare, mentre i repubblicani riconquistano la maggioranza della Camera dei rappresentanti. Quali incertezze, quali errori hanno connotato i primi quattro anni della sua presidenza, che pure erano iniziati trionfalmente? Si ricorda che Barack Obama ha dovuto affrontare un tempo di eccezionale crisi. Ma l’emergenza era anche la sua opportunità. Aveva, come raramente capita, la maggioranza nei due rami del Congresso, e alle spalle il fallimento di  Bush, una delle peggiori presidenze della recente storia americana. Poteva operare una svolta decisiva, si è invece quasi sempre fermato a metà strada. Prendiamo due esempi: il rilancio della crescita e dell’occupazione e la riforma sanitaria.

 

La politica di “stimolo”

Con la messa a disposizione di 800 miliardi di dollari finalizzati alla ripresa, evitò un’ulteriore caduta dell’economia – cosa invece avvenuta nell’eurozona – ma, a giudizio di una grande parte di economisti, anche interni all’amministrazione, era insufficiente. Non rispondeva al programma di rilancio dell’azione pubblica nei settori delle grandi infrastrutture, della ricerca, dell’economia verde. Fu un'occasione perduta. E, non a caso, nel quinto anno dopo il crash della Lehman, la crescita economica è anemica col rischio di peggioramento nel 2013, e con una disoccupazione estremamente elevata per gli standard degli Stati Uniti, dove non esistono sufficienti reti di protezione e quasi cinquanta milioni di cittadini debbono ricorrere ai “food stamps”, i buoni alimentari, per non morire di fame.

 

Tutto questo mentre un fiume di dollari a tassi prossimi allo zero inondava le banche che hanno ripreso la via della speculazione finanziaria e della distribuzione di superprofitti alla frazione che si colloca nello 0,1 per cento al top della scala dei redditi. La crisi germogliata nel mezzo della più profonda diseguaglianza in occidente continua ad approfondire il divario fra il famoso 1 per cento e il rimanente 99 per cento degli americani.

 

Si poteva fare diversamente? Le voci autorevoli per una politica diversa non sono mancate, ma sono rimaste inascoltate. Il team economico di cui Obama volle circondarsi era quello del decennio clintoniano. Larry Summers, scelto come capo-economista, era stato il segretario al Tesoro di Bill Clinton che nel 1999 collaborò alla deregolazione del sistema bancario con l’abolizione della “Glass-Steagall”, la legge risalente a Franklin Roosevelt che separava le banche d’affari dalle banche ordinarie. Così, togliendo ogni limite all’attività speculativa, l’autorevole Summers aveva dato il suo contributo all’esplosione della crisi finanziaria del 2008.

 

Come segretario al Tesoro, Obama scelse Tim Geithner, presidente della Federal Reserve di New York a garanzia dei rapporti con Wall Street. Fu poi confermato alla Fed Ben Bernanke che aveva sostituito Greenspan sotto Bush. Era una triade al comando dell’economia americana che, a prescindere dai meriti personali, nulla aveva a che fare con le promesse di cambiamento che avevano trionfalmente portato alla presidenza Barak Obama. Geithner aveva collaborato con Paulson, ministro del Tesoro di Bush al salvataggio delle banche senza alcuna contropartita in relazione alla crisi dei mutui che doveva portare allo spossessamento della casa per centinaia di migliaia di famiglie, e al finanziamento delle imprese. Quanto a Bernake, nominato da Bush, dopo il ritiro di Greenspan nel 2005, era incline a una politica monetaria iper-espansiva, ma avverso ai processi di regolazione e controllo del sistema finanziario.

 

La riforma sanitaria

Un percorso lasciato a metà è stata anche la riforma sanitaria. La vergogna di 50 milioni di americani privi di assistenza sanitaria è stata corretta – in verità, solo in parte, dal momento che secondo i calcoli ufficiali, circa 30 milioni ne rimarranno privi. Ma nel corso di un anno di dibattiti e di progressivi compromessi con quella che allora era la minoranza repubblicana nel Congresso, la riforma ha lasciato irrisolti due aspetti fondamentali. Il primo è il costo astronomico del sistema sanitario che tocca il 17 per cento del Pil (pari al doppio della media europea). Il secondo è dato dalla inaccettabile diseguaglianza di fronte alla malattia. Il costo medio dell’assicurazione per una famiglia nel 2012 ha toccato 15 mila dollari, ma come sappiamo le medie mascherano profonde variazioni. Una famiglia con un' assicurazione da 20 mila dollari e oltre si trova in una condizione di sicurezza non confrontabile con quella il cui premio assicurativo è pari alla metà, se non meno. In sostanza, il sistema sanitario americano era e rimane di gran lunga il più costoso e il più diseguale tra i paesi democratici. Una chiara testimonianza dell’ambivalenza dei compromessi, quando, come nel caso della riforma sanitaria, a uscirne favorite sono le lobby del potente complesso assicurativo-medico-sanitario, diventato più potente del complesso industriale-militare denunciato negli anni '50 dal presidente Eisenhower.

 

Questi esempi di percorsi lasciati incompiuti potrebbero essere moltiplicati nella politica sociale, com’è il caso dell’abbandono della riforma sindacale che doveva consentire alla maggioranza del 50 per cento più uno di lavoratori di un’azienda di liberamente costituire il sindacato, e acquisire il diritto alla contrattazione collettiva. Una riforma mancata, nonostante la caduta della rappresentanza e della contrattazione collettiva siano stati nell’ultimo trentennio una causa fondamentale della crescita abnorme della diseguaglianza in America.

 

Una nuova pagina

La rielezione, che suona, proprio per le difficoltà che si erano accumulate, come un grande successo, apre una uova pagina. E il presidente rieletto è sembrato farvi un’esplicita allusione, quando nel discorso di Chicago, dopo la proclamazione dei risultati, ha affermato:”Ritornerò alla Casa Bianca più determinato e più ispirato che mai”. Appunto, la determinazione. Ne avrà bisogno subito. A gennaio del 2013, se non sarà stata trovata prima una soluzione alternativa, entrerà in vigore la legge che comporta un aumento generalizzato del prelievo fiscale e un taglio indiscriminato della spesa pubblica. La conseguenza di una manovra della finanza pubblica di quasi 700 miliardi – equivalente, in proporzione al Pil, a circa 80 miliardi di euro nel bilancio italiano –  sprofonderebbe gli Stati Uniti in una nuova recessione, e in un drastico aumento della disoccupazione. Un pessimo viatico per il secondo mandato di un presidente che, superato lo scoglio della rielezione, ambisce a entrare nel gotha della storia americana.

 

Ora tutti sollecitano un compromesso per scongiurare il conclamato “fiscal cliff”, la voragine fiscale. Ma quale compromesso? Le posizioni di partenza sono non solo politicamente ma ideologicamente contrapposte. Per Obama bisogna cancellare la riduzione delle imposte voluta da Bush per coloro che superano la soglia di 250 mila dollari. I repubblicani sono ovviamente contrari.

 

Ma i punti più rilevanti della riforma fiscale su cui è impegnato Obama sono l’aumento dell’aliquota marginale per i redditi più alti e, soprattutto, l’introduzione della “Buffett rule” - così chiamata dopo che Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi d’America, ha denunciato l’assurdità per la quale egli paga in proporzione meno tasse della sua segretaria. Un arcano facilmente spiegabile col fatto che i “capital gains” sono tassati al 15 per cento, mentre i redditi da lavoro sono tassati fino a più del doppio. Ma per i repubblicani tassare i più ricchi è una bestemmia, sulla base della teologia economica che attribuisce ai ricchi il meritevole compito degli investimenti e della crescita economica.

 

Un accordo? Difficile

Ma se non si accresce il prelievo a carico delle classi agiate, come si riduce il disavanzo di bilancio e conseguentemente il debito pubblico? La risposta dei repubblicani è analoga a quella europea basata su “austerità e riforme strutturali”. La soluzione è individuata nella riduzione della spesa sociale a partire dal sistema sanitario (Medicaid per i poveri e Medicare per gli anziani), e nella progressiva privatizzazione del sistema pensionistico pubblico, che rimane la più popolare ed efficiente delle eredità del New Deal. E, più in generale, nella riduzione della spesa pubblica per la scuola, la ricerca, i servizi sociali.

Barak Obama ha dichiarato di voler lavorare con spirito bipartisan alla ricerca di una soluzione condivisa. I repubblicani sono sul piede di guerra. Il rischio per democratici è di bruciare gli allori della vittoria in un compromesso frustrante per i vincitori e tale da rianimare l’arroganza dei repubblicani, al cui interno si muovono gli estremisti del Tea Party.

 

Il modo come Obama affronterà la prima sfida del secondo mandato sarà decisivo. Krugman ha scritto sul New York Times: “Meglio nessun accordo che un cattivo accordo”. La vocazione “centrista” del primo quadriennio di Obama ha mostrato tutti i suoi limiti. Ora lo scenario è cambiato. Obama non ha più come traguardo la rielezione alla fine del mandato. Ha piuttosto il compito di porre il partito democratico in condizioni di vincere le elezioni di medio termine, come premessa a una nuova, potenzialmente lunga, fase di egemonia democratica.

 

Nella disperata condizione nella quale le autorità europee stanno spingendo l’eurozona, con la complicità dei governi nazionali, non è fuori luogo guardare con interessata attenzione agli sviluppi della politica americana. Con la speranza di una svolta, senza tuttavia cullarsi in facili illusioni.

Lunedì, 12. Novembre 2012
 

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