La bussola perduta della sinistra errante

La vittoria di Pirro di Berlusconi, l'opposizione nel suo complesso che, pur nella sconfitta, in percentuale segna un aumento. Il risultato delle elezioni dice che la base per un cambiamento di rotta ci sarebbe. A patto di ritrovare un'identità e una linea smarrite negli ultimi venti anni

I risultati elettorali si prestano ad analisi e commenti non solo controversi ma anche opposti. Per non rimanere prigionieri di un labirinto di numeri, conviene dichiarare in partenza il punto di vista che si assume nel giudicare l’esito elettorale. Se ci riferiamo alle elezioni europee, che per il loro carattere generale si prestano più facilmente per un’analisi di scenario, due osservazioni si presentano con un’incontrovertibile evidenza. La prima è che la coalizione di maggioranza che sostiene il governo, non ostante le difficoltà di un anno segnato dalla crisi di carattere globale, mantiene le posizioni. La seconda è che il maggiore partito di opposizione, il PD, arretra pesantemente.

Questo ci dicono i numeri. Ma i numeri non parlano da soli, aprono il discorso, non lo esauriscono. Se è vero che la maggioranza mantiene il 45 per cento dei consensi conquistati con le elezioni del 2008, confermando, da questo punto di vista, la tenuta del governo, l’arretramento del PDL segna una svolta profonda nello scenario politico. Il PDL ha perduto due punti compensati dai due punti guadagnati dalla Lega. Per cogliere l’importanza cruciale di questo risultato proviamo a immaginare un’inversione dello scambio. Mettiamo che, mantenendo lo stesso risultato per l’insieme della coalizione di maggioranza, a perdere due punti fosse stata la Lega compensati da un aumento di due punti del PDL,  che in questo modo si sarebbe portato alla soglia del 40 per cento: un esito che Berlusconi considerava il risultato minimo e, dal canto loro, gli analisti politici del tutto probabile. Le cose non sono andate così. Ma l’ipotesi serve per toccare con mano il disastro politico al quale saremmo andati incontro.

Un disastro politico, perché? Per una ragione che caratterizza in modo esclusivo lo scenario della destra italiana . Questa destra ha un leader che attenta alla Costituzione, prova a sconvolgere la divisione e gli equilibri dei poteri; attacca senza distinzioni tutte le istituzioni democratiche, dal potere giudiziario alla presidenza della Repubblica; considera il Parlamento un ostacolo da abbattere per un incontrastato esercizio del potere del capo del governo. Tutto ciò non ha confronto con nessun paese democratico.

Ebbene, con queste elezioni, quei due punti che, secondo le previsioni, Berlusconi avrebbe dovuto prendere in più e invece ha preso in meno, perdendoli a vantaggio della Lega, bloccano la sua marcia. Il suo sogno autoritario ha perduto le ali. Contrariamente alle analisi di una sociologia politica piuttosto abborracciata, gli italiani non sono disponibili a ingoiare tutto. Se il tribunale lo giudica un corruttore, il lodo Alfano può salvarlo, ma l’ombra rimane. Se organizza feste e baccanali con giovani donne di ogni età nelle sue residenze, i suoi giornali insisteranno sull’inviolabilità della vita privata, ma il suo carisma sbiadisce.

Il 35 per cento conquistato dal PDL è un risultato che non conforta ambizioni napoleoniche. Se si fa la tara di quell’11-12 per cento tradizionalmente appannaggio di Alleanza nazionale, al partito-azienda di Berlusconi  rimane una quota del 23-24 per cento, un risultato che non giustifica la sua arrogante ambizione. E anche la resistibile ascesa al Quirinale si allontana.

A oscurare il quadro dei risultati elettorali europei – e di quelli che si profilano per le amministrazioni locali - c’è la sconfitta del PD, e non può essere di grande conforto affermare che era prevista. Una sconfitta annunciata non è per questo meno pesante. Una sconfitta tanto più problematica in quanto non si verifica nel mezzo di una tempesta che spazza tutta lo schieramento di opposizione. Sorprendentemente, è vero il contrario. Lo schieramento che faceva capo al centro-sinistra, dal PD ai radicali, all’IDV di Di Pietro raggiunse nel 2008 il 37, 5 per cento e, se si tiene conto della sinistra di Arcobaleno e dei socialisti, si arriva al 41,6 per cento.  Alle europee   del 2009 lo stesso schieramento è andato oltre, sfiorando il 43 per cento. Si deve concluderne che il PD perde pesantemente, mentre le forze di opposizione, a sinistra dell’UDC, reggono, e anzi si rafforzano. Questo scenario rende ancora più amaro il drastico arretramento del PD. Errori tattici? Una cattiva interpretazione del ruolo di un partito di opposizione? Tutto questo può esserci. Ma c’è qualcosa di più profondo, qualcosa che viene da lontano.

Qualcosa che tocca entrambi i partiti fusi nel PD e, in modo particolare, la più forte delle sue componenti. Il vecchio Ds e prima ancora il Pds. Un problema che potremmo definire di identità rimasta incompiuta, una incerta visione politica, un difetto di prospettiva e di progetto che hanno reso fragili tanto le esperienze di opposizione quanto quelle di governo.

Si obietta che si tratta di una creatura nuova, ancora alla ricerca di una ben definita collocazione. Ma il problema di un’auto-definizione non riguarda solo la combinazione di forze con diverse origini, ma anche ciascuna di esse. Prendiamo la componente più forte che, con nomi diversi, affonda le sue origini nella rottura dell’89. Il vecchio Pds poi i Ds non hanno mai deciso cosa fare da grandi. Questa componente di centro-sinistra, cresciuta in Italia dopo la rottura della diga comunista, era priva dell’ancoraggio socialdemocratico, che aveva segnato il modello sociale europeo del Novecento. L’Italia era un paese senza radici socialdemocratiche, con un welfare in parte distorto dall’assistenzialismo clientelare, in parte incompiuto. La sua principale caratteristica era la mancanza di un sistema di protezione sociale, tendenzialmente universalistico del tipo presente, in modi diversi, in Svezia o in Germania.

Questo vuoto aspettava di essere colmato. La soluzione fu trovata nella seconda parte degli anni Novanta col ricorso alla affascinante novità costituita dalla Terza via di Blair. Finalmente qualcosa di nuovo, si pensò, fuori dai vecchi paradigmi socialdemocratici, più o meno statalisti e keynesiani. Ma non ci volle molto tempo per scoprire che la terza via blairiana altro non era che una forma temperata  del verbo neoliberista. Le virtù del mercato furono contrapposte ai vizi dello Stato. Il welfare doveva essere in parte ridimensionato e in parte privatizzato. L’industria doveva cedere il passo ai servizi. Il sindacato era guardato con sospetto, quando non con aperta ostilità. La riunificazione del mondo del lavoro doveva avvenire attraverso la generalizzazione della flessibilità, comprendendovi possibilmente la libertà di licenziamento in cambio di una mobilità favorita dalla formazione. Non a caso, Antony Giddens, consigliere di Blair e ispiratore della terza via, teorizzava in un celebre saggio la nuova forma di riformismo “oltre la destra e la sinistra”.

La terza via non riuscì ad attecchire pienamente nei paesi dell’Europa continentale, ma dette il suo contributo alla divisione della sinistra. Il caso più eclatante fu la rottura della SPD tedesca fra Schroeder e Lafontaine. Il PdS rimase, dal canto suo, intrappolato in una concezione totalmente ambigua del riformismo, del quale divenne sempre più difficile capire in quale misura fosse di sinistra e in quale di destra.

La nascita del PD, dopo la breve mal riuscita esperienza del secondo governo Prodi, avrebbe potuto essere il nuovo inizio. La sua collocazione all’opposizione non era l’obiettivo massimo auspicabile, ma non di meno poteva essere una condizione favorevole per costruire un’identità più limpida e coerente. Il governo Berlusconi era palesemente inadeguato ad affrontare la crisi, al punto di assumere, col passare dei mesi, una posizione grottescamente “negazionista”. Il governo di centro-destra poteva essere combattuto con un’opposizione radicale, senza sconti, e insieme  alimentata da proposte alternative chiaramente indirizzate in senso sociale e a sostegno di una mobilitazione unitaria dell’opposizione. L’opposizione non si tinse né di radicalità (paventando il rischio di apparire “antiberlusconiani”), né promosse quella spinta mobilitatrice che l’incalzare della crisi avrebbe richiesto. Paradossalmente, bisognò aspettare le ripetute analisi del governatore della Banca d’Italia per prendere atto della crisi che colpiva l’occupazione, i salari, le pensioni, l'insieme del lavoro dipendentee quote crescenti di ceto medio.

Del resto, l’equivoco nel campo delle politiche sociali si era manifestato con incredibile evidenza già con la composizione delle liste elettorali del 2008, quando il nuovo PD candidò nelle proprie liste il più pubblicizzato dei giuristi “riformisti”, che per le sue posizioni in un paese come gli Stati Uniti sarebbe stato tranquillamente annoverato tra gli ideologi di un think-tank neo-conservatore del tipo “Cato Institute”.

La crisi planetaria è andata oltre la finanza e l’economia rivelando definitivamente il fallimento del credo neoliberista e dei riformismi spuri che gli hanno fatto da contorno. L’elettorato, lontano dal rifugiarsi in un indistinto centrismo, confinato nel sei per cento dell’UDC, ha dimostrato di tendere a scelte radicali, a destra come a sinistra. Non a caso, crescono la Lega e l’IDV di Di Pietro. E cresce, non ostante la propria ostinata vocazione suicida, la sinistra radicale che raddoppia i voti rispetto alle elezioni del 2008.

La caduta da cavallo di Berlusconi, l’incapacità del governo di fronteggiare la crisi destinata, dal punto di vista sociale, ad aggravarsi, la riemersione di un’opposizione la cui consistenza numerica sfiora la maggioranza di governo potrebbero costituire la base di un radicale cambiamento di rotta. Ma sarebbe necessario un profondo ripensamento della storia degli ultimi venti anni, una sorta di rivoluzione culturale del tipo in corso nella sinistra progressista americana. Finora non ve n’è traccia. Ma le sconfitte possono servire anche a questo. A cambiare strada dopo il lungo peregrinare senza bussola.
Giovedì, 11. Giugno 2009
 

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