L' euro e il rischio Trump nell'Unione

Prima la Brexit, poi l'elezione di Trump ci dicono che l'"imprevedibile" può verificarsi, specie quando dilaga lo scontento per politiche economiche a vantaggio solo di pochi. Nel 2017 voteranno due (e forse anche noi) paesi importanti, e tutto può accadere. La crisi dell'euro merita una riflessione laica, aperta a diversi scenari possibili
Dopo la vittoria di Donald Trump non solo ci si deve interrogare sulle ragioni del suo imprevisto successo in America, ma anche su quale lezione se ne possa trarre per l’Unione europea. Si tratta evidentemente di situazioni politiche non sovrapponibili. Eppure, non ostante tutte le differenze, gli scenari presentano intriganti punti in comune. Innanzitutto, la crisi economica che in modi diversi ha toccato le due sponde dell’Atlantico; poi la crisi dei tradizionali assetti politici.

Gli stati Uniti e l’Europa sono stati entrambi colpiti dalla Grande recessione. Con una differenza fondamentale. L’America di Barack Obama ha ripreso a crescere in tempi relativamente rapidi e già nel 2014 il reddito nazionale aveva superato quello antecedente alla crisi. La disoccupazione giunta al 10 per cento al culmine della crisi è stata ridotta al 4,9 per cento. Il contrario si è verificato nell’Unione europea e, in particolare, nell’eurozona dove la crisi ha avuto effetti devastanti.

Il confronto fra le politiche adottate per rispondere alla crisi mostra tutta l’assurdità della combinazione di austerità e riforme strutturali adottate nell’Unione europea sotto l’egida della Commissione europea con la complicità degli stati membri dell’eurozona. L’austerità ha bloccato la crescita, portato a livelli esplosivi la disoccupazione e accresciuto il debito pubblico che era finalizzata a ridurre. Le riforme strutturali hanno aggredito le conquiste sociali che avevano caratterizzato la democrazia europea del vituperato Novecento: una politica reazionaria definita, con un’ipocrita torsione del linguaggio politico,“riformista”.

Dalla crisi economica alla dissoluzione della sinistra
Il paradosso non privo di conseguenze per la tenuta della democrazia è che queste politiche sono state sostenute non solo, com'era naturale, dalle destre, ma anche, e con maggiore enfasi, dai partiti di centrosinistra.

All’epoca in cui fu introdotto l’euro, i quattro maggiori paesi dell’Unione europea erano diretti da governi di centrosinistra: da Blair, a Jospin, a Schroeder e D’Alema, con Prodi alla testa della commissione europea. Le speranze sul futuro dell’Unione e sul passaggio all’euro sembrarono fondate e, per così dire, garantite dalla classe dirigente di centrosinistra. La delusione non poteva essere più sconcertante. L’euro doveva rafforzare l’unione europea rispetto al resto del mondo e l’ha invece indebolita. La classe politica di sinistra, che era stata la principale artefice del nuovo corso dell’Unione europea all’alba del XXI secolo, si è dissolta.

Di Blair e Schroeder, per citare due leader storici della socialdemocrazia europea, si sono perdute le tracce. Quanto ai governi di centro sinistra sopravvissuti, François Hollande registra nei sondaggi di opinione il peggiore grado di consenso nella storia dei presidenti della V Repubblica. Mentre in Italia Matteo Renzi maschera dietro una facciata di arroganza, un governo che si regge col sostegno al Senato di un gruppo di fuorusciti berlusconiani. A sua volta, in Spagna il Partito socialista, dopo aver rinunciato alla possibilità di governare il paese in alleanza con Podemos, si spacca e riconsegna il governo al Partito popolare di Mariano Rajoy.

Tre paesi chiave
In questo panorama nel quale la crisi dell’euro e degli schieramenti di centro sinistra marciano congiuntamente, il 2017, quando si terranno le elezioni in tre paesi chiave come la Francia, la Germania e (quasi certamente) l’Italia, potrebbe rivelarsi l’anno della resa dei conti. Molte cose impreviste – come lo sono state a loro modo la Brexit e la vittoria di Trump - potrebbero accadere.

La lezione americana è da questo punto di vista istruttiva. Più che condannare gli eventi non previsti è necessario interrogarsi sulle ragioni che li rendono possibili. L’idea che la grande massa degli elettori americani ragioni con la “pancia”, come si è sentito discettare tra i commentatori televisivi nella lunga notte dello scrutinio, non spiega nulla, trattandosi dello stesso elettorato che per due volte di seguito ha portato alla presidenza Barack Obama, e nelle primarie democratiche aveva premiato, al di là di ogni previsione, il “socialista” Bernie Sanders.

Per quali ragioni la classe operaia bianca si è risolta a votare l’incredibile Trump? Martin Wolf ricorda sul Financial Times che “il reddito mediano delle famiglie rimane al di sotto dei livelli raggiunti nel 2000, …(mentre) fra il 1980 e il periodo più recente la quota di reddito dell’1 per cento più ricco della popolazione passava dal 10 al 18 per cento”. Si dirà: lo sapevamo, è l’esplosione della diseguaglianza. E perché non dovrebbe avere conseguenze, quando i comuni cittadini esercitano il loro diritto di voto?

La lezione che ci propone l’America è che in Europa potremmo avere a che fare non con uno ma con molti piccoli e grandi Trump. I governi presenti e passati di centrosinistra se ne rendono conto e cercano di predisporre le contromisure – disgraziatamente le peggiori, oltre che autolesioniste. Quali? L’eurozona ci offre tre esempi che non sono gli unici, ma certamente i più significativi.

Abbiamo visto che In Spagna, il Partito socialista prima rigetta la possibilità di formare un governo di rinnovamento con Podemos e altre forze disponibili, poi si spacca e decide di appoggiare un governo di minoranza guidato dal Partito popolare di Mariano Rajoy, complice delle politiche imposte da Bruxelles col sostegno di Berlino, dirette a ridurre salari e pensioni, e responsabili di una disoccupazione che ha superato il 20 per cento della popolazione attiva, come accadeva nell’America della Grande depressione degli anni Trenta.

In Italia lo schema dovrà essere con ogni probabilità rovesciato, Dopo la riforma dell’attuale sistema elettorale, scandalosamente iper-maggioritario, con un sistema ispirato a un principio di proporzionalità, il partito democratico-renziano, per liberarsi dall’ipoteca di un possibile successo delle “Cinque stelle”, cercherà di tornare al governo col sostegno di uno schieramento neo-berlusconiano che dovrebbe garantire la tenuta di un governo di coalizione, col naturale proseguimento della politica che abbiamo già disastrosamente sperimentato.

In Francia, dove François Hollande sarà probabilmente costretto dal suo partito a rinunciare a un’imbarazzante candidatura, per evitare l’ascesa all’Eliseo di Marine Le Pen vedremo con ogni probabilità ciò che rimane del vecchio glorioso partito socialista, dopo la sconfitta di Sarkozy alle primarie, sostenere François Fillon, ex primo ministro di Sarkozy, e di chiara tendenza thatcheriana, ripetendo la scelta del 2002, quando il Partito socialista votò Chirac per evitare la possibile elezione alla presidenza di Jean - Marie Le Pen.

Ma la politica s’incarica generalmente di smentire le previsioni apparentemente più certe. E’ accaduto con la Brexit nell’Unione europea, e ora con Trump in America. In Francia potrebbe verificarsi un incidente di percorso. L’incidente porrebbe essere costituito dalla convocazione di un referendum sulla politica europea, ripetendo l’esperienza del 2005, quando i francesi respinsero il progetto di costituzione europea.

I referendum, come abbiamo imparato, sono strumenti incontrollabili. Il loro esito non è prevedibile perché gli elettori votano non secondo l’appartenenza di partito, ma secondo il giudizio che si fanno del quesito del referendum. A differenza della Brexit, il risultato del referendum francese potrebbe segnare il ripudio dell’euro senza mettere in discussione la permanenza della Francia nell’UE. Si tratta di scenari che il dibattito corrente preferisce esorcizzare. Ma la crisi dell’euro come dei partiti di centro sinistra, che ne sono rimasti i più tenaci assertori, sono fatti che è difficile esorcizzare.

Un esperimento fallito
L’esperimento dell’euro, alla luce dei fatti, non delle intenzioni, o di quello che poteva essere fatto e non è stato fatto, è fallito. Il vizio d’origine è nell’aver trasformato in una moneta comune il marco tedesco. La politica che ne è seguita non è stata né giusta né sbagliata ma semplicemente insostenibile, essendo la proiezione della politica monetaria tedesca - derivante da una storia particolare con al centro l’orrore dell’inflazione e alle spalle un’irripetibile struttura economica che fa della Germania la quarta economia e la prima potenza esportatrice a livello mondiale.

Le controprove sono alla luce del sole.  Mentre nell’eurozona assistiamo alla più lunga crisi che si ricordi, gli stati membri dell’Unione europea rimasti fuori dall'euro come la Polonia, la Svezia e il Regno Unito hanno da anni ripreso la crescita e ridotto la disoccupazione.

Il fatto è talmente evidente che i paesi entrati nell’Unione europea con l’allargamento, obbligati a predisporre l’ingresso nell’euro, si sono comportati in due modi radicalmente diversi. I sette stati membri che si sono aggiunti ai dodici originari (Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Slovenia, Cipro e Malta) assommano nell’insieme una popolazione inferiore a quella di un grande Land tedesco. Gli altri paesi entrati nell’Unione, ma che sono rimasti fuori dall'euro (principalmente, Polonia, Repubblica ceca, Ungheria, Romania e Bulgaria), sono quelli più rappresentativi del processo di allargamento, con una popolazione complessiva intorno a cento milioni di abitanti.

In sostanza, si allarga un’area che si può definire del marco per l’importanza dei rapporti economici che paesi di minori dimensioni intrattengono con la Germania, mentre gli altri scelgono l’adesione all’Unione europea, tenendosi lontani dal contagio dell’euro.

Prendere atto del fallimento dell’euro è l’unica possibilità per impedire che la sua crisi coinvolga nel fallimento l'intera Unione europea, che, con tutti i suoi limiti e i molti aspetti che meritano di essere rivisti e corretti, rimane nei suoi fondamenti essenziali la maggiore, positiva eredità del secolo scorso.

Non si tratta di abolire l’euro (o impedire l’esistenza di un euro-marco). Ma di tornare a distinguerlo dall’Unione europea, e lasciar scegliere alle popolazioni dei singoli stati membri l’una o l'altra opzione, in ossequio ai principi fondamentali della democrazia. I referendum popolari potrebbero esserne non l’unico strumento, ma certamente il più democratico.

La Brexit è stato un esempio. La Francia, come abbiamo visto, potrebbe seguirlo con una finalità diversa: sacrificare l’euro per salvare l’Unione europea. Altri paesi potrebbero seguire l’esempio. In Italia i referendum sui trattati internazionali non sono ammessi dalla Costituzione. Ma non è impossibile individuare un tema di politica interna collaterale. Un libero dibattito, privo di tabù, sulla crisi dell’euro, sulle sue conseguenze e sulle possibili vie d’uscita non è vietato, è auspicabile, e potrebbe contribuire a un effettivo cambiamento degli scenari politici in Italia come nell’Unione europea.
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Postscriptum

Commentando una prima bozza di quest'articolo, a proposito dell’ipotesi di un referendum popolare che potrebbe portare la Francia fuori dall’euro “senza mettere in discussione la permanenza nell’UE”, Mario Nuti mi fa notare che la normativa europea stabilisce che “non si può uscire dall'euro senza prima uscire dall'UE”. In effetti, l’articolo 50 del Trattato di Lisbona del 2009 è formulato in modo da giustificare questa osservazione. Il suo incipit (art.1) ora invocato dal Regno Unito per procedere alla Brexit stabilisce che “Ogni Stato membro può decidere di recedere dall’Unione conformemente alle proprie norme costituzionali”. L’euro non è mai citato, donde la conclusione che, in linea di principio, dall’euro non si possa uscire.

L'argomento ha tuttavia suscitato opinioni contrastanti. Claudio Lettieri ricorda che Pietro Manzini, professore di diritto dell’Unione europea a Bologna, scriveva sulla Voce.info (18.11.11) : ".. a ben vedere l’articolo 50 non è un ostacolo giuridico insormontabile all’uscita dall’euro, mantenendo contemporaneamente l’appartenenza all’Unione. Anzitutto, prevedendo la possibilità di recesso dall’Unione, non vieta esplicitamente il recesso solo dall’euro; in effetti, al riguardo, l’articolo semplicemente tace. In secondo luogo, una norma che ammette la possibilità di recedere dall’intero blocco degli obblighi europei potrebbe essere interpretata nel senso di consentire anche la possibilità di recedere da una parte soltanto di questi obblighi: qui peut le plus peut le moins. Infine, la permanenza nell’Unione sia di Stati che ancora non hanno i requisiti per far parte dell’euro sia di Stati che, pur avendone i requisiti, non hanno la volontà politica di aderirvi, dimostra che l’appartenenza all’Unione non è costituzionalmente legata all’adesione alla moneta unica. Pertanto, il recesso volontario dall’euro di alcuni Stati in default (o a rischio default), sebbene non esplicitamente previsto, non è giuridicamente inimmaginabile".

A sua volta, (continuua Claudio) Luciano Gallino nelle conclusioni del suo ultimo libro (uscito postumo) sostiene che, al verificarsi di particolari circostanze – come, per esempio, potrebbe essere l’impossibilità di rispettare il Fiscal compact - “L’Italia, facendo valere l’impossibilità di rispettare questo obbligo .. (potrebbe chiedere) che la UE prenda atto che essa non può essere (più) considerata membro dell’eurozona, pur volendo mantenere la condizione di stato membro della UE” (Come (e perché) uscire dall'euro, ma non dall'Unione europea, Laterza, 2016, p.192).  In tal senso, Gallino stesso fa riferimento a giuristi esperti di diritto europeo che sostengono la possibilità di un recesso dall’euro senza uscire dall’UE. Peraltro, il semplice fatto che vi siano Stati membri che fanno parte dell’Unione europea senza far parte dell’euro costituisce un elemento oggettivamente rilevante in favore della possibilità che si possa “rinunciare” all’euro senza dover necessariamente abbandonare l’Unione. 

Personalmente ritengo che l'esemplificazione di Gallino sul Fiscal compact sia pienamente fondata in base al principio “Rebus sic stantibus”, essendo il "Patto di bilancio" un trattato internazionale, non approvato dal Palamento europeo e non incorporato nella legislazione europea, e per di più sottoposto a verifica dopo cinque anni dall'inizio della sperimentazione nel 2014.
 
Andando al di là degli aspetti giuridici, Ruggero Paladini, richiama l’attenzione sulle conseguenze economiche di un’uscita dall’euro, scrivendo che potrebbe comportare “nel caso dell'Italia un immediato default del debito pubblico e delle banche”. Per cui: “Sarebbe bene cominciare a prepararsi a questa eventualità, che non è sicura ma quasi”.

Concordo pienamente sul fatto che una possibile (“sicura, o quasi”) uscita dall’euro ponga non trascurabili problemi sotto molteplici profili. Ma proprio per questa ragione bisognerebbe discuterne  laicamente. La cosa sorprendente è che, invece, su questi temi centrali per l'Italia e per il futuro della costruzione europea, la riflessione e il dibattito siano riservate a pochi addetti ai lavori, quando non considerati fuorvianti e irrituali rispetto a una sorta di "euro-religione".

Per concludere queste notazioni, credo valga la pena di considerare l’opinione di Joseph Stiglitz, quando sostiene che la partecipazione all’euro e le politiche che, non a caso, ne sono derivate si sono dimostrate insostenibili com’è dimostrato dalla sequenza di recessione e stagnazione che si è abbattuta sulla maggioranza degli stati membri dell’eurozona. Dall’analisi della nascita e dello sviluppo dell’euro Stiglitz trae la seguente conclusione: “Molti in Europa  saranno addolorati per la scomparsa dell’euro. Non è la fine del mondo... C’è molto di più nel progetto europeo, nella visione dell’integrazione europea che non un accordo monetario”. E aggiunge: “ Si supponeva che la valuta promuovesse solidarietà, integrazione e prosperità…è diventato un impedimento alla loro realizzazione…è meglio abbandonare l’euro e salvare li progetto europeo (The Euro- How a common currency threatens the future of Europe”, p.295, 2016). Può essere considerata una valutazione pessimistica. Ma sta di fatto che rifletta una realtà difficilmente confutabile.

Commenti

L'appartenenza all'Unione

L'appartenenza all'Unione Monetaria Europea è un obbligo di tutti gli Stati in virtù di essere membri dell'Unione, come parte integrante del cosiddetto acquis communautaire - a condizione che ne siano rispettate le precondizioni di tasso di inflazione a non più di 1,5% sopra la media dei tre paesi meno inflazionistici, di tasso di interesse sul debito pubblico a 10 anni a non più del 2% sopra la media degli stessi paesi, stabilità del tasso di cambio con l'euro e rispetto dei parametri fiscali del 3% del PIL per il deficit pubblico e del 60% del PIL per il debito pubblico (o tendenzialmente approssimati in misura soddisfacente). A meno che il paese membro abbia negoziato una deroga al momento della sua ratifica del Trattato di Maastricht, come UK e Danimarca. La Svezia ne è rimasta fuori finora per non avere mai aderito all'ERM II, ma e' soggetta all'obbligo di aderire come i tutti gli altri paesi che ancora non hanno aderito, e che si possono tener fuori solo deliberatamente mancando di soddisfare le condizioni di Maastricht. L'uscita dall'euro per i paesi che già ne fanno parte implica pertanto l'uscita dall'UE. Rispetto Manzini e Gallino ma i loro argomenti non mi convincono per niente.

Il problema con l'uscita - a parte il soqquadro finanziario del ritorno a una valuta nazionale e il costo di dell'uscita dall'Unione (Exitalia) - è che richiederebbe lunghe e segrete preparazioni, mentre l'Italia è a corto sia di tempo che di discrezione.

L’analisi di Antonio Lettieri

L’analisi di Antonio Lettieri mi sembra perfetta. Tutto quel che egli dice è esatto: dall’effetto di trascinamento di Trump allo sbriciolamento della sinistra in Europa (esemplare la Francia, ma anche l’Italia non scherza), alla natura assunta dall’area euro (o area marco; un altro modo, certamente meno cruento, di cercare di conquistare l’Europa, dopo la sconfitta nelle due guerre mondiali) ed altro.
Bisognerebbe, credo, riflettere un po’ di più sulle ragioni socio-economiche che hanno portato a questa situazione (l’egemonia culturale delle classi più ricche, l’influenza dei gruppi di potere, anche attraverso la stampa, lo sbriciolamento della classe operaia, l’imbecillità delle sinistre, la politica economica liberista, la crescita del settore finanziario, l’austerità imposta dall’UE, per limitarmi a quelle più evidenti). Soltanto dopo simili riflessioni si potranno dare indicazioni sull’agenda.
A parte la questione giuridica circa la possibilità di uscire dalla UE, ma non dall’euro (è forse possibile e sarebbe una grossa lezione per Germania e accoliti), penso che l’euro sia stato un grosso fallimento, se si esce dall’ottica tedesca, e che le istituzioni create dall’Unione monetaria siano profondamente sbagliate ed inique.
Tuttavia, prima di suggerire l’uscita dall’euro come soluzione, ci penserei tanto, perché essa implicherebbe ‘lagrime e sangue’, letteralmente, per alcuni anni. Sarebbe forse possibile se ci fosse un governo forte – che goda di un’ampia fiducia da parte dei cittadini e delle forze politiche – capace di assumere misure draconiane (controllo della finanza e dei movimenti di capitale, in primis), nonostante le reazioni feroci dei ceti interessati più direttamente, del ceto medio e dei benpensanti. Ma queste condizioni sono contraddittorie (il ceto medio è importante politicamente e non sosterrebbe il governo. In assenza delle condizioni, farei come sta facendo Renzi: batterei i pugni sul tavolo (uno dei pochi casi nei quali sono d’accordo con la sua politica). Tuttavia, capisco che l’efficacia di questo atteggiamento dipende dalla capacità contrattuale, dalle ‘spalle’ che si possano trovare nell’Euro-area e, soprattutto, dalle nostre opzioni di riserva, compresa al limite la minaccia di uscita dall’euro. Preparare la fattibilità di una tale soluzione e le condizioni di riuscita, economiche, sociali e politiche, anche per la sopportabilità dei costi, non sarebbe un esercizio sterile.

Mi stupisco che un

Mi stupisco che un sindacalista nemneno prenda in considerazione i costi sociali di un'uscita dall' euro. La ripresa di un'inflazione a due cifre, in assenza di strumenti di recupero monetario, porterebbe per salari e oensioni, diversamente dalle altre categorie di reddito, ad una falcidia di tali redditi e a una massificazione della povertà, per altro verso ad un enorme divario con le minoranze ricche.

Come vecchio sindacalista,

Come vecchio sindacalista, innanzitutto non posso chiudere gli occhi o fingere di non vedere, quello che è sotto tutti gli occhi di tutti: in Italia, sette anni di recessione più stagnazione: milioni di nuovi disoccupati (nel Mezzogiorno una media confrontabile a quella della Grecia); disoccupazione e precarizzazione oltre ogni limite per le nuove generazioni costrette a riprendere la strada dell’emigrazione; impoverimento generale, nel quadro di una crisi – che coinvolge quasi tutta l’eurozona – che non si era più vista dopo la Grande Depressione degli anni Trenta. Con una differenza non marginale: allora comparve Roosevelt; oggi siamo nelle mani di governi (a scelta) o incapaci o complici, o tutt’e due.
(Dovrei forse fare un’autocritica: come segretario confederale della CGIL, sostenni l’adesione all’euro; poi continuai a farlo come consigliere dei ministri del Lavoro per gli affari europei….Ma non cambierebbe il giudizio su ciò che è successo dopo!).

Provocatoriamente – e

Provocatoriamente – e problemi giuridici a parte – ribalterei la proposizione di Lettieri: restiamo nell’euro e usciamo dalla UE! Non sono pochi infatti i vincoli che ci vengono dall’appartenenza all’Unione più che all’euro. La burocrazia di Bruxelles è una casa opaca, dalla quale provengono diktat che impattano sulla vita dei cittadini e delle imprese senza alcuna possibilità di dibattito democratico. Il vero problema dell’euro sta nello Statuto della BCE, che, al contrario di quello della Federal Reserve americana, ha come unico obiettivo la stabilità dei prezzi, e non la stabilità dei prezzi coniugata al raggiungimento della piena occupazione. La battaglia da combattere è questa, restando all’interno della moneta unica. Concordo con Ruggero Paladini, secondo cui l’uscita dall’euro provocherebbe il default del debito pubblico italiano e delle banche nonché – aggiungo io – il ritorno dell’inflazione senza il rilancio della crescita. Contemporaneamente occorre avviare un processo di riforma dell’Unione europea, recuperando lo spirito di Ventotene. Preso atto dei fallimenti della sinistra europea, sarebbe questa anche l’occasione per ricostruire su nuove basi un progetto autenticamente riformista.

Chi scrive aveva già espresso

Chi scrive aveva già espresso riserve ai tempi del passaggio all'euro alla fine degli anni '90, mancando di omaggio ai "padri" del processo europeistico....
Paragonai, in un saggio, l'euro ad un cattivo matrimonio, regolato alla vecchia maniera, da norme che rendevano pressoché proibitiva la risoluzione al partner più debole, paventandone la rovina economica e di "status" sociale....Molti cattivi matrimoni, prima dell'avvento del "divorzio facile", infatti duravano....
Oggi, nonostante abbia mantenuto le mie convinzioni di fondo, sono consapevole dei rischi, e dei costi, per un evento di "exit". La estremizzazione del rischio da "cambio di denominazione" andrebbero---ove si volesse resistere al default---dalla dilatazione automatica del debito (pubblico, ma anche bancario e privato) denominato già in moneta forte a fronte dell'inevitabile svalutazione della nuova moneta debole....Il processo implicherebbe, probabilmente, prima fallimenti bancari, e, tendenzialmente il default pubblico. Si possono ricordare casi di paesi sudamericani o asiatici, dopo essersi sganciati da regimi di "Currency Board , di norma o di fatto, che li legavano al dollaro (ma anche con loro episodi, per lo più effimeri, di una ripresa reale).....
I vincoli di bilancio, ex-post, non sarebbero rimossi ma al limite peggiorati. Titoli di debito pubblico sarebbero rifiutati all'estero, (se non a tassi proibitivi, o con contorni di "derivati" da sottoscrivere con gli "avvoltoi"...); investitori interni, in particolare bancari, sarebbero esausti, e vincolati da Basilea (III o IV, non mi ricordo...) nell'accollo di titoli a basso rating....
Non frequento molta gente; ma quando il discorso cade sull'eventualità di un "euro-exit" colgo di solito due reazioni: coloro che hanno qualche risparmio mobiliare, anche modesto,-- e al di là degli orientamenti politici dichiarati, anche t

Lunedì, 21. Novembre 2016
 

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