Per l’Istat la classe operaia non c’è più

Nel Rapporto annuale la società italiana viene classificata in nove gruppi, definiti essenzialmente in base al reddito, senza alcuno sforzo di individuare raggruppamenti in base agli interessi oggettivi

Alla fine, a quella che, una volta, veniva definita la mitica “classe operaia”, è andata ancora meglio di quanto potesse prevedere Elio Petri. Certo è che, in quel lontano 1972, non avrebbe mai immaginato che ci sarebbe stato concesso di prendere addirittura atto della scomparsa di quella cui lui auspicava, al massimo, il Paradiso!

Sembrerebbe questa - tra le altre grandi novità - la più appariscente caratteristica della struttura della “nuova” società italiana; così come rilevata dall’ultimo Rapporto annuale del nostro Istituto nazionale di statistica.

In effetti, tutti i commenti relativi al Rapporto 2017, nel prendere atto della ricostruzione che l’Istat fa della società italiana - attraverso l’esame della situazione professionale, la cittadinanza, il titolo di studio posseduto, il numero di membri della famiglia ed associando ad essi la componente economica, quella culturale e socio/demografica - convengono su di un dato meritevole di qualche approfondimento di merito: la scomparsa, dal contesto del panorama sociale italiano, della piccola borghesia e, soprattutto, della classe operaia.

La classificazione Istat prevede ben nove gruppi sociali: 1) giovani blue/collar (solito, insopportabile anglicismo, per indicare le classiche tute blu, alias, operai); 2) famiglie degli operai in pensione; 3) famiglie a basso reddito con stranieri; 4) famiglie a basso reddito di soli italiani; 5) famiglie tradizionali della provincia; 6) anziane sole e giovani disoccupati; 7) famiglie di impiegati; 8) percettori di pensioni d’argento e, dulcis in fundo, 9) classe dirigente.

Questi gruppi vengono poi definiti con riferimento al reddito. Si tratta di un criterio discutibilissimo, perché, come giustamente sosteneva Marx, si rischia di mettere insieme un bottegaio senza dipendenti, un tirchissimo piccolo capitalista che riserva per sé una piccola quota di profitti e un operaio; con uguale reddito, ma interessi sociali diversi, anzi, opposti. Comunque i primi due gruppi (1 e 2) vengono definiti a “reddito medio”. I successivi quattro (da 3 a 6), a “basso reddito” e gli ultimi tre (da 7 a 9) “benestanti”.

Se ne deduce una nuova divisione della società italiana che potrebbe indurre qualcuno a ritenere che si siano realizzati cambiamenti di natura (quasi) rivoluzionaria. La realtà, purtroppo, è ben diversa. Dall’intero Rapporto emerge che il nostro è un paese nel quale, ancora nel 2016 - e le attuali condizioni possono solo peggiorare, non certo produrre un’inversione di marcia - il cosiddetto “ascensore sociale” (con il quale si indica il processo che consente l’elevazione del proprio status) era irrimediabilmente fermo e le differenze ormai cristallizzate.

Tra le famiglie con minore agibilità economica pesano, in maniera sempre più rilevante, le spese destinate al soddisfacimento dei bisogni “primari” (abitazione ed alimentari), mentre in quelle che godono di più ampie disponibilità economiche salgono le voci relative alle attività ludiche, agli spettacoli, alla cultura, alla ristorazione e servizi vari. In sostanza, è ancora e sempre il reddito a determinare la condizione sociale degli italiani.

Nel 2016 erano oltre 8 mln e 500 mila gli individui che vivevano in condizioni di “povertà relativa” (spesa per consumi inferiore allo standard medio della popolazione), mentre erano circa 4 mln e 800 mila coloro che vivevano una condizione di “povertà assoluta” (incapacità di acquisire determinati beni e servizi per un livello di vita minimo). 

Un panorama, dunque, tutt’altro che rassicurante. Anzi, si tratta di dati drammatici; soprattutto quando si considera che, tra questi circa 13 milioni di individui, moltissimi sono i bambini e i minori.

Tornando all’apparente scomparsa classe operaia, tornano in mente le profetiche parole dell’indimenticato Luciano Gallino; quando denunciava la tenace lotta di classe, condotta dall’alto, per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati erosi - grazie alle conquiste dei lavoratori - nel trentennio precedente gli anni Ottanta.

La sensazione è quella di assistere, anche nel nostro paese, alla riproposizione di ciò che Howard Zinn, nella sua “Storia del popolo americano”, definisce “un’operazione di stampo comunicativo declinato al servizio dell’ideologia proprietaria”. E, più avanti, del ricorso (già adottato all’epoca, con ottimi risultati, da parte dei Padri Fondatori degli Usa) a processi di “identificazione psicologica” e di “illusione del benessere” che concorrono a diffondere una coscienza di classe fasulla e - al tempo stesso - determinare esiti elettorali apparentemente incomprensibili, quanto autolesionisti.

Non si spiega altrimenti lo spudorato ricorso a quella pratica, che qualcuno definisce “ballismo”, attraverso la quale, grazie alla sistematica menzione dell’ineluttabile “globalizzazione” e all’ossessiva reiterazione di affermazioni indimostrate - “è finito il tempo delle ideologie, la distinzione tra destra e sinistra non ha più motivo di esistere, la catena di montaggio non esiste più, il lavoro è dematerializzato” e via di questo passo - si pretende di affermare una serie di verità incontrovertibili. Tra queste, appunto, la scomparsa della classe operaia.

Ora, a prescindere dal fatto che, se fossero stati rispettati i principi previsti dalla “Carta dell’Avana”, stipulata nel 1948 da ben 53 Stati invece di applicare gli accordi, sempre del ’48, del GATT (poi divenuto WTO nel 1994 e oggi ratificato in ben 160 nazioni) - non avremmo assistito a un processo di globalizzazione del tutto indifferente agli obiettivi della piena occupazione, delle protezioni sociali per i lavoratori e delle tutele ambientali, appare irrazionale (e strumentale) che si possa affermare, con assoluta certezza, che non esista più la classe operaia.

Cosa è, se non “lotta di classe”, quella in atto da parte dei lavoratori della Whirlpool, piuttosto che quelli del Mercatone Uno? È o non è lotta di classe quella che dovrebbe unire migliaia di lavoratori impiegati nei call/contact center e/o presso sedi Amazon; che nulla o quasi hanno da invidiare alle famigerate “catene di montaggio” della Fiat di vallettiana memoria? E le decine di migliaia di driver che sfrecciano verso il loro destinatario, hanno o no qualcosa in comune con quella classe operaia che, in tanti, vorrebbero relegare nella “soffitta dei ricordi”?

E perché mai i tre diversi gruppi di famiglie, insieme ai pensionati, alle tute blu e alle donne anziane e sole non dovrebbero continuare a “marciare insieme”, consapevoli di un, sostanziale, comune destino?

Chiarito, quindi, che il ricorso al termine “classe sociale” sta ad indicare ancora il riferimento a un gruppo di individui che condividono un duplice legame: sociale ed economico, considero - ad esempio - poco credibile come si possa ritenere di rappresentare l’appartenenza a gruppi sociali diversi (con, sottointesi, interessi ed aspettative altrettanto diverse) quando si parla di (2) “famiglie degli operai in pensione” e (7) “famiglie di impiegati”, oppure o piuttosto di (5) “famiglie tradizionali della provincia”. La netta sensazione è che si tratti di strumentali forzature politiche; prima ancora che lessicali. Trovo, tra l’altro, perniciosa e foriera di pericolosi altri “distinguo”, l’appartenenza delle famiglie a due gruppi diversi sulla base della loro nazionalità.

In conclusione, il punto è che, i lavoratori, i pensionati, i poveri, le famiglie in difficoltà - di qualunque colore esse siano - i giovani, le donne anziane e sole, i disoccupati e tutti coloro che vivono del proprio lavoro, devono essere consapevoli che non siamo ancora in una società post/capitalista. Anzi, mai come oggi è indispensabile essere coscienti che il liberismo non pone più freni alla sua costante azione di frantumazione sociale e affermazione di un esasperato individualismo.

In questo senso, solo coloro che sono già caduti nella trappola di una “identificazione sociale” fasulla non si rendono pienamente conto del palese tentativo politico/padronale - di imbrigliare le energie collettive e disperdere il senso di appartenenza; coinvolgendo tutti in un’apparente “pace sociale”.  

Non a caso, a mio parere, è proprio l’Istituto di statistica a sostenere che, nel paese, la perdita del “senso di appartenenza a una certa classe” è più forte per la piccola borghesia e la classe operaia. La nuova rappresentazione la vedrebbe, infatti, frammentata tra i giovani dalla tuta blu e nelle famiglie a basso reddito.

Una delle ragioni che il Rapporto indica, tra quelle che avrebbero concorso a determinare questa frammentazione, viene individuata nella perdita, appunto, di quella identità di classe “legata alla precarizzazione e alla frammentazione dei percorsi lavorativi, ma anche al cambiamento di attribuzioni e significati dei diversi ruoli professionali”.

Tutte condizioni che, credo, siano state piuttosto determinate - attraverso il ruolo svolto dal capitalismo e da politiche di stampo liberista - da una lucida regia, tesa unicamente a far percepire alla gente e ai lavoratori, in particolare, (falsi) interessi discordanti e (ancora false) diverse aspettative.

Oggi, attraverso il rapporto Istat, ci viene somministrata un’altra “balla”, con l’evidente attesa che venga, anch’essa, presto assorbita; al pari - dicevo - della scomparsa delle ideologie e del superamento del concetto di “destra” e “sinistra”.

Dipende solo da noi la capacità di riuscire a rintuzzare quest’ennesimo attacco.

Lunedì, 17. Giugno 2019
 

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