I recenti dati congiunturali non lasciano dubbi. L’economia italiana sta rallentando. Nel terzo trimestre 2018 il Pil è rimasto invariato sui tre mesi precedenti con una crescita tendenziale scesa allo 0,8% dall’1,2% del secondo trimestre. Sono ferme sia la domanda interna che quella estera. Sulla prima pesa l’atteggiamento prudente delle famiglie che, nonostante la piccola ripresa del reddito disponibile, stanno rafforzando la propensione al risparmio e non quella al consumo. Segnale evidente di un profondo senso di incertezza. Sulla domanda estera influisce invece il rallentamento del commercio mondiale, reso inquieto dai rischi di una guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina e dalle sanzioni che Trump dispensa ai paesi nemici (vedi Iran). L’Istat ci dice che la variazione nulla del terzo trimestre riflette un aumento (modesto) del valore aggiunto dell’agricoltura e dei servizi e una diminuzione di quello dell’industria. Proprio questo è il dato più preoccupante, confermato peraltro dall’indice Pmi dei direttori agli acquisti del settore manifatturiero – un indicatore molto seguito dai congiunturalisti perché anticipa le tendenze della produzione industriale – che evidenzia come l’Italia ad ottobre sia scesa a quota 49,2, ben al di sotto della soglia critica di 50 che separa la fase di espansione da quella di contrazione. L’aggravante è che gli altri paesi europei rimangono per ora al di sopra di 50, con la Germania a 52,2, la Francia a 51,2, la Spagna a 51,8, l’Olanda a 57,1, perfino la Grecia a 53,1.
A questo si aggiungono gli ultimi dati, per nulla rassicuranti, sull’occupazione, che a settembre vedono il tasso di occupazione scendere di nuovo (-0,1%), dopo l’aumento di agosto, e quello di disoccupazione risalire al 10,1% (+0,3 punti percentuali sul mese precedente). In attesa di vedere quali saranno le conseguenze sul mercato del lavoro del decreto “dignità”, da poco entrato in vigore, sono sempre i contratti a termine a farla da padrone, mentre calano gli occupati con contratto a tempo indeterminato e i lavoratori autonomi.
Il governo Conte-Salvini-Di Maio incolpa del rallentamento economico i governi precedenti, a guida Pd, e assicura che, grazie alla manovra espansiva varata con la legge di bilancio 2019, l’anno prossimo la crescita toccherà l’1,5%, 0,6 punti in più rispetto al tendenziale. Nessun analista serio crede però a un’espansione dell’economia italiana di tale portata. La maggior parte delle previsioni sono infatti comprese entro un range che va dallo 0,9 all’1,1 per cento. Ed è bene ricordare che se il Pil non cresce all’1,5% e tutte le spese promesse dal governo vengono attuate, il rapporto deficit/Pil è destinato a salire ben oltre il 2,4% programmatico, fino ad avvicinarsi o addirittura superare la soglia critica del 3% e mettendo così a repentaglio la capacità del Paese di contrarre nuovi debiti sui mercati finanziari.
Prima però di stroncare senza mezzi termini la manovra, vale la pena di analizzare meglio le misure che il governo intende implementare per favorire la crescita. Cominciamo con i due caposaldi della manovra: quota 100 per le pensioni e reddito di cittadinanza. Dalla prima ci si può aspettare un aumento della domanda interna soltanto nella misura in cui il pensionamento anticipato comporterà contemporaneamente nuove assunzioni. È possibile, ma rappresenta pur sempre una scommessa.
Per quanto riguarda il reddito di cittadinanza, ancora non si capisce quando potrà effettivamente partire e se sarà soltanto una misura assistenzialista, come in molti tra cui la stessa Lega temono, oppure una forma quanto meno “decente” di occupazione. Il ruolo dei centri per l’impiego è in questo senso cruciale, ma tutti sanno come occorra un miracolo per farli funzionare a dovere. Probabilmente potranno partire rapidamente soltanto le pensioni di cittadinanza, ma nessuno si aspetta da queste un rilancio significativo dei consumi. La conclusione è che non sarà dalle due misure di spesa più importanti della manovra, che insieme assommano a 13,5 miliardi nel 2019, che potrà venire la spinta alla crescita. Al massimo le due misure possono portare a un aumento del Pil di 0,1 punti percentuali, e non gli 0,3 punti che dice di aspettarsi il governo.
I veri interventi per la crescita in teoria dovrebbero essere altri. In primo luogo il rilancio degli investimenti pubblici, su cui gioca tutte le sue carte il ministro Tria. Qui il governo mette sul piatto della bilancia 3,5 miliardi nel 2019, di cui 2,2 miliardi destinati agli investimenti delle amministrazioni centrali e 1,3 miliardi a quelli delle amministrazioni territoriali. In più il governo dice di voler sbloccare una parte delle risorse stanziate dai governi precedenti, che ammonterebbero a ben 140 miliardi e che non si sono finora tradotte per ragioni burocratiche in nuovi cantieri. Per accelerare l’implementazione dei nuovi investimenti il governo si è inventato una nuova struttura: Investitalia, una cabina di regia alle dirette dipendenze della Presidenza del Consiglio. È questo un antico vizio italico: quello di creare, per risolvere vecchi problemi, nuovi organismi, anziché cercare di far funzionare gli strumenti già esistenti. Gli addetti ai lavori hanno già manifestato la loro perplessità al riguardo. Buia, il presidente dell’Ance (Associazione nazionale costruttori edili), la giudica una buona idea, ma non per far ripartire le opere pubbliche nel breve periodo, perché – egli sostiene - passeranno mesi prima che la nuova struttura sia operativa.
Mesi – aggiungiamo noi – spesi, oltre che a definire la struttura, a decidere quali opere si debbano fare. Le incertezze e i contrasti tra Lega e Cinque Stelle su Tav, Tap, Pedemontana veneta, Terzo valico, ecc. stanno evidenziando ampiamente quanto il governo sia diviso e quanto sia difficile realizzare investimenti infrastrutturali in tempi rapidi. Dal canto suo, Decaro, il presidente dell’Anci (l’associazione dei comuni italiani), dice tranchant che la cabina di regia non serve. “Per farci progettare – afferma in un’intervista al Sole 24Ore dell’1 novembre – bisogna permetterci di assumere, e reintrodurre l’appalto integrato come abbiamo scritto nella proposta congiunta Anci-Ance.” Reintrodurre l’appalto integrato, in cui cioè le fasi di progettazione ed esecuzione di un’opera sono in capo a un unico soggetto, significa rivedere il codice degli appalti, un altro tema su cui il governo, sulla spinta degli operatori, si è ripromesso di intervenire, ma che finora è rimasto lettera morta. Dagli investimenti pubblici il governo si attende un sostegno alla crescita di 0,2 punti di Pil nel 2019, che poi dovrebbero salire a 0,3 nel biennio successivo. Ma le difficoltà, come abbiamo cercato di sottolineare, non mancano.
Infine, la terza gamba da dove dovrebbe venire la crescita è quella delle imprese. Qui il governo è totalmente insufficiente, come le associazioni imprenditoriali a ragione rimarcano. Vengono infatti significativamente ridotti gli incentivi legati a Industria 4.0: per l’iperammortamento sono riviste le aliquote e vengono esclusi gli investimenti oltre i 20 milioni di euro, mentre il superammortamento viene fortemente limitato e il credito d’imposta per la formazione scompare. Anche il credito d’imposta per la ricerca e sviluppo viene ridimensionato con il dimezzamento, dal 50 al 25 per cento, della percentuale di investimenti che si possono portare in detrazione. D’altra parte, è vero che si riduce al 15% l’Ires per le imprese che reinvestono gli utili in azienda, destinandoli all’assunzione di lavoratori con contratto a tempo indeterminato e/o all’investimento in macchinari e ricerca, ma questa misura è più che compensata dall’abolizione dell’Ace (Aiuto alla crescita economica), uno strumento disegnato per favorire la capitalizzazione delle imprese. Il saldo previsto tra mini-Ires e Ace si risolve infatti, secondo il Documento programmatico di bilancio, in maggiori entrate per l’erario per quasi 200 milioni.
In conclusione, gli strumenti messi in campo dal governo si rivelano per quelli che sono: spese in chiave elettorale e non veri interventi espansivi. Se questo è il quadro complessivo, è vano sperare in una crescita non solo dell’1,5%, ma anche dell’1,2-1,3. E con la mancata crescita anche i conti pubblici rischiano seriamente di andare fuori controllo.