L’Unione europea tra le ombre del Caucaso

Il conflitto russo-georgiano ha rappresentato un’inattesa occasione per dimostrare una ritrovata capacità d’iniziativa dell'Ue. Ciò è avvenuto grazie ai paesi del "nucleo storico" che ne hanno assunto la guida, mostrando che è possibile riconquistare un ruolo da protagonisti nella globalizzazione multipolare

 

 

Verso un nuovo bipolarismo?

 

Dal punto di vista dell’Unione europea, il conflitto russo-georgiano ha rappresentato un’inattesa e fortunosa occasione – pur se profondamente  spiacevole per il costo in vite umane e le sofferenze causate - per dimostrare una sua ritrovata capacità d’iniziativa in un momento di grave crisi dei rapporti internazionali. Le conclusioni unanimi del Consiglio europeo straordinario del 1° settembre hanno segnato un successo per l’Unione. Basta ricordare quando in un’analoga occasione nel 2003 – l’invasione americana dell’Iraq – l’Unione europea si divise platealmente tra favorevoli e contrari all’invasione dell’Iraq da parte americana.

 

Il Consiglio europeo ha giustamente criticato il riconoscimento  formale da parte di Mosca dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia, ma ha anche detto no alle sanzioni nei confronti della Russia patrocinate da Gran Bretagna, Polonia, Stati baltici. Bisogna dire a questo proposito che le sanzioni, oltre che inefficaci  (per esempio, la sospensione dal G8 o dei negoziati per l’ingresso nel WTO), sarebbero  state paradossali, essendo ormai chiaro, non ostante l’iniziale manipolazione mediatica, che l’aggressione era stata opera della Georgia. Secondo gli esperti del centro di analisi dell’Economist – l’Economist Intelligence Unit – il presidente georgiano Saakasvili era convinto di poter entrare con una mossa repentina nella regione, impadronirsi della minuscola capitale Tskhinvali e bloccare il Roki Tunnel, unica possibile via d’accesso per le truppe russe provenienti dall’Ossezia del Nord. La Russia si sarebbe trovata di fronte al fatto compiuto.  Nei giorni successivi il New York Times ha riportato che, secondo le sue stesse dichiarazioni, Saakasvili aveva dato l’ordine di attaccare Tskhinvali dal proprio ufficio, col telefono cellulare, e che “nel giro di 30 minuti dopo l’ordine le truppe georgiane avevano cominciato a bombardare con armi pesanti e fuoco d’artiglieria la città e la base russa delle truppe d’interposizione”. Un’aggressione chiaramente preordinata di cui difficilmente potevano non essere informati i consiglieri  militari americani presenti a Tbilisi.

 

La presa di posizione del Consiglio europeo si presta ad alcune considerazioni più generali. Se appena qualche mese fa l’Unione era caduta in uno stato di profonda depressione per il “no” irlandese al trattato di Lisbona, il risultato ottenuto in questa complicata circostanza dimostra che l’unità politica di un nucleo centrale di paesi – in sostanza la vecchia Unione dei soci fondatori: Francia, Germania, Italia, Benelux, più la Spagna - è in grado di dare un ruolo attivo e determinante all’Unione. Il rafforzamento delle istituzioni – per esempio, con un presidente stabile dell’Unione e un ministro degli esteri, secondo le previsioni del trattato di Lisbona - rimane auspicabile. Ma è certo che difficilmente l’Unione avrebbe potuto giocare un ruolo determinate nel conflitto caucasico senza l’immediata iniziativa di Sarkozy, nella qualità di presidente dell’Unione, in accordo con Angela Merkel, incuranti delle differenze di posizioni tra i 27 paesi dell’Unione. Quanto all’Italia, l’adesione alla linea franco-tedesca è stata sostenuta dal presidente del consiglio con la stessa convinzione con la quale si era schierato insieme con Blair e Aznar a sostegno dell’invasione americana dell’Iraq (bisogna anzi osservare che la posizione di Berlusconi è andata oltre il segno a favore della Russia fino a chiedere, secondo alcune testimonianze, la cancellazione del giudizio di “sproporzione” della reazione russa nelle operazioni georgiane).

 

Il successo che può essere legittimamente attribuito all’iniziativa unitaria della “vecchia Europa” (ricordate la definizione spregiativa di Rumsfeld?) rimane, tuttavia, sottoposto a sfide importanti dalle quali dipende il futuro ruolo dell’Unione nello scenario internazionale e la sua stessa identità. La prima questione riguarda i rapporti dell’Unione europea con gli Stati Uniti rispetto all’inserimento nella Nato dell’Ucraina e della Georgia. La seconda riguarda il possibile allargamento dell’Unione europea a Ucraina e Georgia e, in prospettiva, alla Moldavia, all’Armenia e all’Azerbaigian sulle lontane rive del Mar Caspio.

 

Soffermiamoci sulla questione della Nato che direttamente coinvolge la strategia americana e, per riflesso, quella europea, nei confronti della Russia. Se dopo l’11 settembre prese corpo in America la strategia di intervento nel “Grande medio oriente”, oggi il dibattito si è spostato su quella che viene considerata la nuova priorità geopolitica: i regimi neo-autoritari con vocazione imperiale individuati nella Cina e nella Russia. Robert Kagan, il più autorevole teorico del movimento neo-conservatore nel campo della politica estera americana, ha intitolato il suo ultimo libro “The return of history and the end of dreams” (Il ritorno della storia e la fine dei sogni). Kagan, che fu con William Kristoll e Paul Wolfowitz tra i teorici dell’esportazione della democrazia in Medio Oriente e dell’invasione dell’Iraq, spiega che il maggiore pericolo per l’Occidente non è più il radicalismo islamico, destinato dall’evoluzione dovuta ai processi di modernizzazione a esaurire la sua carica sovversiva, ma “l’asse neo-autoritario” costituito dalla Cina e dalla Russia.

 

Secondo Kagan, l’ingenua illusione di un mondo pacificato dopo il crollo dell’impero sovietico è svanita. Non siamo di fronte a un generico scontro di civiltà, come aveva teorizzato il politologo Samuel Huntington a metà degli anni 90, ma alla concreta minaccia contro i regimi liberali e democratici costituita dai regimi neo-autoritari dell’est. In questo nuovo scenario, l’America – sostengono i teorici riconvertiti del neoconservatorismo americano - non può più fondare la sua egemonia su una concezione unipolare. Non potrà più limitarsi ad affermare: “chi non è con me è contro di me”. Gli Stati Uniti debbono costruire una “Lega delle democrazie” che si assuma il compito di  difendere i valori di libertà e democrazia nei confronti della nuova minaccia. La guida della nuova Lega deve essere assunta congiuntamente da Stati Uniti e Unione europea, sapendo che altri grandi paesi come l’India e il Brasile, oltre al Giappone, ne faranno parte (R. Kagan, “The case for a league of democracies”, Financial Times, 14, maggio 2008). 

 

E’ il ritorno a una concezione bipolare del mondo che infiamma anche ambienti solitamente prudenti rispetto al radicalismo della destra americana.  Mi riferisco a un editoriale del Washington Post – giornale lontano dall’asse Bush-Cheney – la cui tesi è che  “Putin sta cambiando la Russia in qualcosa di molto simile a uno stato fascista e la sua naturale inclinazione è replicarne il modello all’estero”: giudizio dal quale coerentemente discende la conclusione di “inconsistenza” della posizione assunta dal Consiglio europeo del 1° settembre.

 

Sulla base di queste premesse, non c’è da stupirsi se McCain, nei giorni della mini-guerra, si è affrettato a dichiarare, riecheggiando altri temi e altri protagonisti: ”Siamo tutti georgiani”. Ma rivelatrice e più inquietante risulta la posizione del candidato alla presidenza repubblicana espressa prima ancora che scoppiasse la crisi, quando scriveva in un articolo pubblicato sul Financial Times (19 marzo, 2008): “In Russia la democrazia è stata temporaneamente soppressa, ma noi siamo interessati a che questa grande nazione torni al più presto sulla strada della democrazia”. Un' affermazione che evoca sinistramente l’esportazione della democrazia dell’inizio del secolo. Ma questa volta – assicura McCain - l’America non intende agire in solitudine. Per ripristinare la democrazia c’è bisogno che “la nostra alleanza transatlantica si ponga al centro di una alleanza globale – la Lega delle democrazie”. E’ sperabile che McCain non salga alla Casa Bianca. Ma il pericolo di una rinnovata isteria che sostituisce, dopo il disastro americano in Iraq, alla minaccia del  radicalismo islamico quella del neo-imperialismo russo coinvolge direttamente l’analisi e la strategia dell’Unione europea. Per cui non è superfluo chiedersi: Qual è il giudizio dell’Unione europea sulla Russia “putiniana”? E in quale direzione evolveranno le attuali divisioni interne all’Unione? 

 

In altri termini, siamo effettivamente in presenza di un pericoloso regresso della libertà in Russia e dell’instaurazione di un minaccioso regime a vocazione neo-imperiale? Non si può negare – scrive Condoleezza Rice in un recente saggio sulla politica estera USA - un senso di delusione  rispetto alla Russia che nel 2000 lasciava sperare di convergere sui valori occidentali; ma non bisogna dimenticare che: “I russi oggi godono di maggiori opportunità e, sì, di libertà personale che in qualsiasi altro periodo della storia del loro paese” (Foreign Affairs, luglio-agosto, 2008). Il segretario di stato deve essere prudente nel non contraddire Gorge Bush e soprattutto Dick Cheney, ma nel giudizio della Rice la minaccia neo-autoritaria si stempera in una visione aperta a un discorso evolutivo. Henry Kissinger è più esplicito. “La struttura del potere a Mosca è più complessa di quanto la saggezza convenzionale ritenga”, e la forzata intrusione del modello di evoluzione previsto in occidente rischia di “incoraggiare più una risposta nazionalistica e conflittuale che non un’evoluzione democratica (…). Sarebbe un peccato persistere in questo atteggiamento, dal momento che siamo per molti versi testimoni di uno dei periodi più promettenti della storia russa”. (New York Times 1/7/08)

 

In effetti, le spinte nazionalistiche a cui si riferisce Kissinger hanno origini più lontane. Dopo il collasso del comunismo e con la complicità di Eltsin, gli Sati Uniti hanno contribuito a imporre alla Russia, in nome dell’economia di mercato, le terapie shock neo-liberiste all’origine della sua disgregazione sociale e della bancarotta economica della fine degli anni Novanta. “Sfortunatamente - scrive Mark Weisbrot, direttore del Centro di ricerca economica e politica di Washington - la strategia politica non è stata più intelligente e benigna di quella economica (…) L’espansione della Nato (ne) è stata l’elemento - chiave. L’organizzazione era sta creata nel 1949 allo scopo di difendere l’Europa da un attacco dell’Unione sovietica, ma non vi era più una legittima ragione per prolungare la sua esistenza dopo la disintegrazione dell’Unione sovietica nel 1991”(PostGlobal, 30 agosto,2008).

 

L’Unione europea deve continuare ad appoggiare l’espansione della Nato, nella quale sono già entrati tutti i paesi dell’allargamento a est, fino a alle soglie della Russia? La decisione di aprire la procedura di ingresso di Ucraina e Georgia doveva già essere assunta nella riunione della Nato di Bucharest nello scorso aprile. La decisione è stata bloccata dalle riserve di Germania e Francia, e rinviata alla fine del 2008. E’ probabile che, dopo la crisi georgiana e nel mezzo della transizione della presidenza americana, la questione subisca ulteriori rinvii. Ma l’Unione europea rimane profondamente divisa. L’idea secondo la quale ciascun paese nella sua sovranità è libero di scegliere le alleanze alle quali vuole appartenere è priva di senso, poiché la scelta definitiva spetta alla comunità alla quale si chiede di aderire, alle ragioni che giustificano la richiesta, alle conseguenze generali che ne derivano per l’insieme dell’istituzione.

 

Scrive Christofer Meyer, ex ambasciatore britannico a Washington, che “è un errore fatale nella politica estera giudicare il mondo da quello che noi vorremmo che fosse e non come è effettivamente”. Ma, posto che i giudizi possono essere discordi, “la Nato deve rinunciare alla provocatoria insensatezza di aprirla alla Georgia o peggio, all’Ucraina”. La ragione è che “la Russia non potrà mai essere rassicurata dalle promesse di intenzioni pacifiche”(The Times, 2/9/2008). Il paradosso è che, da una parte, si accusa la Russia di voler mantenere una propria sfera d’influenza sugli stati confinanti; dall’altra si propone di espandere, oltre ogni limite ragionevole, la sfera d’influenza di una vecchia alleanza, concepita contro l’Unione sovietica, posta sotto il comando americano.

 

Per l’Unione europea accettare l’’ingresso dell’Ucraina e della Georgia nella Nato significa scegliere nei confronti della Russia la via della provocazione e della contrapposizione. Quando, nei prossimi mesi, se ne tornerà a discutere registreremo molto probabilmente un’opposizione francese e tedesca ancora più determinata che in passato, in contrasto con la Gran Bretagna, la Polonia, i paesi baltici ed altri. Allora come si schiererà l’Italia? Dipenderà il nostro paese dalla diplomazia personalizzata del telefono inventata da Berlusconi? Quali saranno le posizioni del centro-sinistra nelle sue varie componenti, alcune delle quali sono piuttosto a disagio nel dopo-crisi di agosto?

 

Le incerte  frontiere dell’Unione europea

 

Mentre rimane aperta la divisione sulla Nato, ha ripreso vigore dopo la crisi georgiana la questione dell’allargamento dell’Unione all’Ucraina e alla Georgia. La domanda che si pone a questo proposito è: fin dove debbono estendersi le frontiere dell’Unione europea?. La Gran Bretagna, la Polonia e altri guidano la linea dell’allargamento a est più o meno illimitato. Un processo di dilatazione progressiva destinato a ridurre l’Unione a un grande mercato senza frontiere, e senza identità.

 

Nel vertice Unione europea-Ucraina del 9 settembre scorso, l’auto-candidatura ucraina a Stato membro dell’Unione è stata bloccata, sostituita dalla promessa di un trattato di associazione. Questa soluzione è interpretata in modo diverso. Per la Germania l’associazione è uno strumento utilizzato nei confronti di molti altri paesi (per esempio, quelli della sponda sud del Mediterraneo) senza alcuna prospettiva di adesione. Per la Gran Bretagna è, nel caso dell’Ucraina, una tappa in un futuro processo di adesione.

 

L’Unione si presenta divisa non solo sul caso specifico dell’Ucraina e della Georgia, ma sul significato delle proprie frontiere: fin dove possono o debbono spingersi? C’è un limite naturale, geografico, storico? Il limite sembra essere la conformità con le regole che caratterizzano l’Unione dal punto di vista delle libertà politiche ed economiche, del funzionamento delle istituzioni, etc. Ma questi aspetti sono più idonei a definire la qualità dei rapporti e delle possibili collaborazioni che non le frontiere di un’entità con una vocazione politica di tipo federale. Il processo di allargamento, nella prospettiva attuale, già comprende un ampio ventaglio di paesi grandi, medi e microscopici: dalla Croazia e dalla Turchia, agli Stati emersi dalla disintegrazione della ex Jugoslavia (Serbia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Macedonia), oltre all’Albania. A quel punto avremo moltiplicato per 5-6 volte il nucleo fondatore originario della Comunità europea. Può essere considerato un successo, se si mette l’accento su una grande area di libero scambio, ma anche la fine di un vero e proprio processo di integrazione.

 

Si ripropone la domanda: quali sono le frontiere dell’Unione? Il dibattito riguarda oggi l’Ucraina ma, in prospettiva, i paesi che contornano la federazione russa (Georgia, Moldavia, Armenia, Azerbaigian). Paesi complicati, etnicamente e linguisticamente divisi al loro interno. L’Ucraina con suoi quasi 50 milioni di abitanti e molti milioni di cittadini di origine russa concentrati nelle regioni dell’est, comprende la penisola della Crimea a netta maggioranza russa con il grande porto di Sebastopoli dove, per accordi successivi allo scioglimento dell’URSS, è ancorata la flotta russa del Mar Nero.

 

In una situazione complessa, altamente instabile  e potenzialmente esplosiva non è più ragionevole mantenere e sviluppare ampi e intensi rapporti nell’ambito della politica di “vicinato”, garantendo la sua sicurezza e stabilità attraverso una politica di cooperazione con la Russia? Una parte dell’Unione, con in testa la Germania,  punta a questa soluzione. Ma la divisione rimane. Con riferimento a Ucraina e Georgia ,“il miglior modo di testimoniare la solidarietà dell’Europa” - scrive Thomas Ferenczi, esperto delle questioni europee di LeMonde - è “la garanzia che, una volta realizzate le condizioni imposte a tutti i candidati, niente si opporrà alla loro ammissione (all’Unione europea)”.  E  Tomas Valasek - direttore della sezione politica estera e di difesa dell’autorevole Centre for European Reform - spiega che l’accordo di associazione offerto all’Ucraina deve preludere a una prospettiva di adesione all’Unione, pur consapevoli che questo crea problemi con la Russia, in particolare per la specifica situazione della  Crimea e di Sebastopoli,  “ma il rischio di creare problemi con Mosca merita di essere corso quando sono in gioco gli interessi vitali (dell’Unione)” (Financial Times, 8.9.08).

 

L’interesse vitale dell’Unione coincide in questo quadro con  una concezione geo-strategica della frontiera. Non più una frontiera che si stempera nella politica di vicinato intesa come cooperazione, partnership, garanzia di pace. Ma frontiera come elemento di  separazione, contrapposizione fra due mondi che si considerano reciprocamente minacciati e in conflitto. Un mutamento radicale nella concezione delle frontiere dell’Unione dopo la caduta del muro: non solo una dilatazione oltre ogni misura ragionevole delle  frontiere dell’Unione, ma un suo cambiamento di natura. Con questa nuova concezione della frontiera, l’Unione europea rientrerebbe a pieno titolo nella Lega delle democrazie che negli Stati Uniti è indicata come la nuova alleanza da contrapporre alla Russia in un rinnovato bi-polarismo.

 

La presidenza francese dell’Unione, anche in questo caso sostenuta da Germania, Italia, Olanda, Belgio – in sostanza il “nocciolo duro” dei paesi fondatori più la Spagna, l’Austria, la Slovenia – ha trovato un punto di mediazione con la promessa di associazione senza alcun impegno per l’adesione dell’Ucraina, in contrasto con un’altra parte dell’Unione. Ma dobbiamo chiederci se l’Unione possa continuare a oscillare, senza un chiarimento di fondo, tra posizioni che indicano modi d’essere e obiettivi non solo distinti ma radicalmente contrapposti rispetto ad aspetti essenziali della propria identità e del proprio ruolo nella nuova mappa della globalizzazione.

 

La “dipendenza” energetica

 

La tesi corrente fra i detrattori della politica di mediazione e cooperazione con la Russia è che Germania, Italia, Francia sono condizionate dalla loro dipendenza energetica. Anche se fosse vero, non si vede perché non debbano essere messi in conto interessi a lungo temine come gli approvvigionamenti energetici che oggi sono al centro delle strategie politiche in tutto il pianeta. Ma la questione della dipendenza è insieme vera e falsa. Se l’Unione europea ha bisogno del gas russo, la Russia ha bisogno dell’Europa per esportare il suo gas. Non solo. Ha anche un enorme bisogno di investimenti e tecnologie tedesche, italiane, francesi per sviluppare la sua capacità produttiva nel settore degli idrocarburi, che soffre di una grande arretratezza, essendo ancora largamente tributaria degli obsoleti sistemi di sfruttamento dell’era sovietica. Si sottolinea il fatto che i paesi dell’Unione debbano puntare a diversificare le fonti di approvvigionamento, e questo corrisponde a una normale strategia di mercato  e di sicurezza a lungo termine. Ma diversificare non significa privarsi delle fonti russe e centro-asiatiche. E’ vero il contrario. Se così fosse, non avremmo una diversificazione, ma una nuova e più problematica dipendenza.

 

La Commissione europea ha posto al centro della politica energetica dell’Unione la liberalizzazione del mercato, nel senso di separare la produzione dalla trasmissione e dalla distribuzione – un modello mai proposto in relazione al petrolio. Una proposta inconsistente in quanto nessuno fa un contratto di approvvigionamento a lungo termine, senza la certezza di poter portare il gas nei mercati di consumo. E, reciprocamente, nessuno è disponibile a investire da cinque a dieci miliardi di euro per costruire un gasdotto, se non è sicuro di disporre di gas alla fonte da avviare nelle nuove condotte.

Venerdì, 12. Settembre 2008
 

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