L’eurozona e l’attacco alla democrazia

Siamo di fronte a un paradossale rovesciamento del senso stesso della democrazia. Per l'oligarchia europea ciò che conta non è la rappresentatività democratica dei governi nazionali, ma la loro sottomissione o complicità nell’attuazione delle politiche fissate dalla tecnocrazia che guida l’eurozona.

La democrazia è un tema affascinante della storia e della filosofia politica sin dai tempi dell’antica Grecia. Con la modernità è diventata un patrimonio ordinario della coscienza politica. Si critica il suo funzionamento ma non la sua essenza. Nessuno vorrebbe rinunciare al diritto di esprimere il proprio giudizio sul comportamento dei governi attraverso l’espressione del voto con la possibilità di cambiarli, se questa diventa la scelta maggioritaria. Il voto non è l’unica caratteristica di un regime democratico, ma ne è la nota essenziale.

Nel merito del giudizio possono entrare altri elementi. La democrazia americana, orgogliosamente stabile da oltre due secoli, può essere criticabile per molti aspetti, fra i quali l’elevato tasso di diseguaglianza o la tendenza ad aprire fronti di guerra disastrosi e senza soluzione, com’è successo con la presidenza del giovane Bush. Ma rimane il fatto incontestabile per ogni comune mortale che gli Stati Uniti sono una democrazia, mentre la Cina, sotto la guida di un partito unico, non lo è non ostante i suoi innegabili successi economici.

I due più importanti risultati elettorali di questo inizio d’anno ci confermano con i loro esiti contrapposti il senso e il valore di un regime democratico. In Gran Bretagna è stato confermato il governo conservatore di David Cameron. L’esatto contrario si è verificato in Grecia. All’inizio dell’anno, Syriza, il partito della sinistra radicale, ha clamorosamente sconfitto il governo conservatore di Samaras. Nel caso inglese una conferma; in quello greco, un rovesciamento. Piaccia o no, così funziona la democrazia del voto. Ma alle autorità dell’eurozona il risultato greco non è piaciuto.

l’elettorato greco ha clamorosamente bocciato il governo conservatore di Samaras non senza evidenti ragioni. Il passato governo è stato all’origine di un’autentica catastrofe economica e sociale. Il popolo greco ha scelto Syriza, il partito privo dell’appoggio dell’oligarchia e della grande stampa, confidando nel suo impegno programmatico diretto a cambiare la disastrosa politica di austerità imposta dall’eurozona: la contrazione di un terzo del reddito nazionale, l'enorme aumento del debito pubblico e la riduzione a  uno stato di miseria di milioni di famiglie.

 Syriza, il partito di opposizione ha vinto e il nuovo governo di Alexis Tsipras ha fatto una cosa che in democrazia dovrebbe essere considerata normale, anzi obbligatoria. Nessuno si stupisce del fatto che Barack Obama stia capovolgendo le tradizionali alleanze dell’amministrazione americana in Medio Oriente (si veda: Jeff Faux Why Are We In The Middle East?). Ma nel caso greco, un piccolo Stato della periferia meridionale dell’eurozona, la coerenza con gli impegni assunti con l’elettorato è apparsa ai capi di Berlino e Bruxelles eterodossa e inaccettabile.

Fin qui siamo al rispetto delle forme: la coerenza fra la piattaforma elettorale, sulla cui base è stato ottenuto democraticamente il diritto a governare, e il programma del nuovo governo. Ma per un giudizio completo; oltre al rispetto delle forme, è importante giudicare il merito del programma. Potrebbe trattarsi di un programma puramente demagogico, irrealistico e inattuabile.

E’ questo il caso? A giudizio di economisti di diverso orientamento, si tratta di un programma realistico e di normale buon senso. Se vi sono riserve, esse si concentrano sulla volontà del governo greco ci rimborsare integralmente l’immane debito accumulato dai passati governi, tramite la ristrutturazione delle scadenze e dei tassi d’interesse (per una grande parte di economisti indipendenti, e perfino per il Fondo Monetario internazionale, una parte importante del debito dovrebbe essere semplicemente cancellata).

Il governo greco non si è limitato a manifestare dei buoni propositi, ma ha presentato in tutte le sedi i contenuti e le tappe del programma. L'illustrazione più recente, risalente al 7 maggio, presentata da Janis Varoufakis può essere letta in queste pagine ( A Blueprint for Greece’s Recovery within a Consolidating Europe ). Ognuno può giudicarne il contenuto, sollevare riserve e obiezioni, se del caso. Ciò che non si può fare è fingere che non esista una chiara posizione del governo greco, o rifiutare di discuterne il merito.

Invece è quello che hanno fatto le autorità dell’eurozona: nessuna apertura a un effettivo confronto. La casta dei bramini di Bruxelles non accetta il confronto, o pone delle pregiudiziali che ne negano i presupposti. Wolfgang Schäuble, il potente ministro delle finanze tedesco, è stato chiaro nella sua rudezza. Tsipras ha fatto male a chiedere il consenso elettorale e popolare sulla base di un’alternativa alla politica del governo Samaras, il cui programma era stato avallato dalla Troika (le istituzioni europee e internazionali che hanno finora controllato il governo e il Parlamento greci). Il governo di Atene non può pretendere una rinegoziazione degli obblighi contratti dai (in effetti, imposti ai) governi precedenti, solo (!) perché ha vinto le elezioni, e ha ricevuto un nuovo mandato, espressione democratica della volontà popolare. (Si veda: Antonio Lettieri e Stuart Holland German Hegemony, Greece and European Democracy).

Tutto ciò potrà apparire a una persona di buon senso paradossale. Ma non lo è. Ciò che conta agli occhi dell’oligarchia europea dominante non è la rappresentatività democratica dei governi nazionali, ma la loro sottomissione (o complicità) nell’attuazione delle politiche fissate dalla tecnocrazia che guida l’eurozona, estranea ai condizionamenti politici propri della dialettica democratica. Per la tecnocrazia europea non valgono le distinzioni politiche: quelle per le quali un governo conservatore con una politica conservatrice può essere confermato, come nel caso di Cameron in UK; e un altro, come il governo conservatore di Samaras, può essere sconfessato e mandato a casa dall’opposizione che vince le elezioni sulla base di un programma alternativo.

Siamo di fronte a un paradossale rovesciamento del senso stesso della democrazia, o a un nuovo modello di democrazia limitata e deformata diventata dominante nell’eurozona? Il caso francese fa propendere per la seconda risposta. François Hollande vinse le elezioni sulla base di una piattaforma di alternativa alla politica di Nicolas Sarkozy. Ora sappiamo com’è andata. Una volta installatosi all’Eliseo, Hollande ha progressivamente smantellato il programma sulla cui base era stato eletto; ha cambiato ministri e capo del governo per adeguare la politica nazionale alle richieste di Bruxelles. Hollande è diventato il presidente più impopolare della V Repubblica, mentre si afferma il Fronte nazionale di Marine Le Pen e torna in campo Sarkozy che coltiva la non infondata speranza di riprendersi l’Eliseo.

Siamo generalmente abituati ad analizzare i fallimenti economici delle politiche della zona euro. Ma sarebbe sbagliato sottovalutare le ferite inferte ai regimi democratici degli Stati membri.

La complicità con Bruxelles dei governi di centro-sinistra sta minando la democrazia rappresentativa. Abbiamo visto in Francia l'avanzata dei partiti di destra e di estrema destra. In Italia il governo di Matteo Renzi è stato favorito dalla disgregazione del centrodestra di Berlusconi, mentre l'opposizione è guidata a sinistra dalle “Cinque stelle” di Grillo, che è il secondo partito alle spalle del Pd, e all'estrema destra dalla Lega di Salvini che trae ispirazioni dal Fronte Nazionale francese guidato da Marine Le Pen.

Così, mentre la politica dell'eurozona dà scacco alla democrazia rappresentativa, contribuisce al deperimento, quando non alla metamorfosi, dei tradizionali partiti di sinistra complici delle politiche europee.

In questo quadro la feroce opposizione all’indisciplinato governo greco non può sorprendere. Il governo autocratico dell’eurozona non ha niente a che vedere con un ordinario principio di rappresentatività che regola la dialettica del voto e dell’alternanza dei governi. L’eurozona, si può leggere sul "New York Times", si comporta come un neo-impero senza monarchia. (Si potrebbe aggiungere.: senza una monarchia, ma con una cancelleria a Berlino dotata di più poteri di quanto non ne avesse una tradizionale monarchia costituzionale). Non bisogna sorprendersi, se in questo scenario, per l’oligarchia conservatrice che guida l’eurozona, la soluzione favorita è l'uscita della Grecia dall'eurozona. In fondo, si tratta di un paese che conta solo per il 2 per cento del PIL dell'eurozona ma che, mettendo in causa le poltiche sbagliate ma non negoziabili dell'eurozona, potrebbe avere un effetto contagioso. Meglio per i governi di centrodestra come di centrosinistra, che hanno finora accettato (o subìto) la politica di austerità e riforme strutturali, facendone pagare  le conseguenze economiche e sociali ai rispettivi paesi,  la Grexit è la soluzione. Poi tutto tornerà come prima.

Ma è così? Tra le ragioni della vittoria di Cameron c’è l’impegno a svolgere un referendum, ora anticipato al 2016, sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Il suo esito potrebbe segnare la fine dell’Unione come finora si è presentata al resto del mondo. Contemporaneamente, nell’eurozona avanzano, a destra come a sinistra, i partiti e i movimenti che con politiche declinate in modi diversi, sono contro l’eurozona.

La Grecia e il governo Tsipras ci hanno ricordato che la democrazia è fragile ma dura a morire. Le oligarchie che si sono impadronite del governo autoritario dell’eurozona, con un consenso popolare in precipitoso declino, pensano di vincere la loro battaglia costringendo la Grecia a uscire dall’euro, o ottenendone un'eloqueste e istruttiva umiliazione.

Ma potrebbe rivelarsi un calcolo sbagliato. L’eurozona può segnare una vittoria nel conflitto impari con la Grecia. Ma potrebbe rivelarsi  una vittoria di Pirro. La Grecia ha svelato definitivamente l’attacco alla democrazia delle autorità non rappresentative che si sono impadronite del destino dell’’eurozona. L’Europa oscilla pericolosamente su una faglia sismica in movimento col rischio, da un lato, di una frattura dell’Unione europea a opera della Gran Bretagna; e, dall’altra, della disintegrazione, a più o meno lungo termine, dell’euro come esito della politica autodistruttiva praticata nell’eurozona.

Lunedì, 25. Maggio 2015
 

SOCIAL

 

CONTATTI