L’Europa e la guerra dell’impero

La mobilitazione popolare di questi mesi ha dimostrato che l’Unione europea può assolvere a un ruolo essenziale nel dialogo col mondo arabo e islamico e resistere all'unilateralismo imperiale degli Usa

Abbiamo scritto nelle “cronache” di E&L che le giustificazione addotte dall’amministrazione americana per la guerra all’Iraq erano, a giudizio degli stessi commentatori americani, semplici menzogne.
E, infatti, chi potrebbe credere all’instaurazione della democrazia tramite una guerra preventiva portatrice di una catastrofe umanitaria e probabilmente di un seguito di guerre civili fra etnie e confessioni diverse?

Apparentemente più credibile doveva essere l’argomento delle armi di distruzione di massa, invocato come decisivo nel discorso di Bush al popolo americano che annunciava la guerra. Ma gli ispettori erano stati inviati dall’ONU esattamente per verificarne l’esistenza e decretarne la distruzione, ed è stato loro negato il tempo che avevano chiesto con l’appoggio di tutta la comunità internazionale.

Ma dietro le menzogne, bisogna pure individuare una verità non detta. Per farlo, si è proposta come ragione mascherata della guerra il controllo del petrolio iracheno. Ma nemmeno questa è una spiegazione convincente. Si è così tornati alla ferita dell’11 settembre che ha sconvolto la psicologia e la politica americane. Ma la guerra all’Iraq non è la semplice prosecuzione della guerra in Afganistan. Là c’erano i talebani tra i quali Osama bin Laden si muoveva come un pesce nell’acqua. E su questo punto gli Stati Uniti avevano costruito un consenso universale. Ma, come osservava Thomas Friedman sul New York Times, nessuno ha provato un rapporto fra il regime iracheno e Al Queida.

Ciò non toglie che l’11 settembre debba essere considerato un tassello essenziale per individuare la verità non detta. In effetti, la mancanza di legami fra Saddam e Osama non è la soluzione del problema, ma il problema. Il legame tra Medio Oriente e terrorismo passa, infatti, attraverso quello che era considerato l’alleato storico più sicuro, l’Arabia saudita. E’questo il paese che ha alimentato con il waabismo, una versione settaria e fondamentalista dell’islam, e con le immense risorse finanziarie derivate dal petrolio, il terrorismo nei più diversi angoli del pianeta, dall’Afganistan alla Bosnia, alla Cecenia. L’attacco alle due torri fu portato da una squadra composta per tre quarti da sauditi. E nel programma di bin Laden vi è, al di là del rituale richiamo al conflitto palestinese, la liquidazione di quella parte della monarchia saudita che oggi vive sotto la protezione delle basi americane.

Insomma l’11 settmbre ha rivelato la fragilità della presenza americana nel cuore di una regione che possiede i due terzi delle risorse petrolifere del pianeta, e che al tempo stesso è la culla del fondamentalismo: nemico insieme dei regimi arabi moderati, e degli Stati Uniti che li sostengono. Il problema nuovo del dopo 11 settembre non era costituito dall’Iraq, un regime nemico ridotto all’impotenza da dodici anni di assedio e embargo. Il nuovo problema era costituito dalla scoperta della fragilità degli stati amici e dall’incontrollabilità dell’intera regione, dalla Siria allo Yemen.

C’è di più. Quando fu annunciato l’asse del male, la cosa più sorprendente fu trovarvi l’Iran, un paese che, sotto Kathami, ha avviato una rivoluzione silenziosa, appoggiata dalle nuove generazioni e dalla presenza di un ceto medio colto e attivo che ha intrapreso una lunga marcia diretta a condurre gradualmente il paese fuori dal soffocante regime degli Ayatollah.

In questo scenario l’Iraq era l’anello debole della catena. La sua occupazione significa mettere una testa di ponte in una regione decisiva nella geografia economica e politica dei prossimi decenni. Nella falsa partita a scacchi giocata dall’amministrazione americana col resto del mondo, Blair si era convinto di poter portare l’Europa al seguito degli Stati Uniti per entrare a far parte della geografia dell’impero. Ha assunto il ruolo di viceré americano in Europa. Ha cercato di realizzare con un solo colpo il disegno strategico di un’unica grande area atlantica di cui la Gran Bretagna dovrebbe diventare l’anello di saldatura.

La stampa inglese neoconservatrice e popolare, appartenente alla sfera di Murdoch, ha attaccato e deriso la Francia di Chirac e la Germania di Schroeder. Alla Francia si è rimproverato la velleità della grandeur e gli interessi per i pozzi di petrolio iracheno. A Schroeder il populismo elettorale dettato dalla crisi economica tedesca. Ma alla fine Blair e Aznar sono rimasti soli anche all’interno dei loro paesi, e l’unico paese disponibile a schierarsi senza problemi nella conta del consiglio di sicurezza - ha osservato, con triste sarcasmo, il New York Times - è rimasto la Bulgaria. (Mentre del governo italiano nessuno ha più parlato, essendo uscito dalla scena per l’impossibilità di recitarvi una qualsiasi parte che valesse la pena di prendere in considerazione).

Eppure la Francia, la Germania, la Russia e la Cina, costituendo quello che Liberation ha definito l”asse della ragione” hanno aperto una nuova fase, svelando la forza e insieme la debolezza dell’unilateralismo imperiale degli Stati Uniti. Si è detto che l’Unione europea ha cercato di darsi un’identità giocando la carta dell’antiamericanismo. In effetti, l’Europa di Chirac e Schroeder e della maggior parte dei 15 ha aperto un nuovo scenario: forse l’unico in grado di salvare l’Europa e l’Occidente, e gli stessi Stati Uniti del dopo Bush, dalla dottrina e dalla pratica di quello scontro di civiltà che Samuel Huntington teorizzò nel suo famoso saggio del 1996, “The clash of civilizations”. La posizione del Vaticano è apparsa forte e lungimirante proprio perché mirata a disinnescare la trappola storica di uno scontro di civiltà e di religioni.

Indipendentemente dalle sorti di una guerra sciagurata, l’Europa ha un ruolo importante da giocare. Tenere, per l’appunto, aperto il dialogo col mondo arabo e islamico. E’ una linea rovesciata rispetto a quella di Blair, Aznar e Berlusconi. Chirac, primo presidente a tornare nell’antica colonia quarant’anni dopo la liberazione, è stato applaudito dal Parlamento e dal popolo algerini. L'Egitto, per quanto sottoposto al ricatto economico americano, distingue nettamente la posizione europea e considera Blair isolato nel suo stesso paese. I palestinesi sperano di poter trovare in Europa quel sostegno che finora si è manifestato più nelle intenzioni che nei fatti. L’Iran, che è un punto di riferimento decisivo per il futuro della regione e delle tendenze di una parte importante dell’islam, conta sull’intensificazione dei rapporti economici e politici con l’Europa.

L’Unione europea esce apparentemente indebolita, ma più consapevole e, potenzialmente, più forte nel decidere il proprio destino, assumendo un ruolo non subalterno in un mondo policentrico. L’allargamento a est è un impegno politico da onorare. Ma l’ambiguità va sciolta. A 25 si può costruire un grande mercato di stampo neoliberista secondo lo schema britannico, non un’Unione politica. Il compito di rilanciare l’Unione spetta ai soci fondatori: all’asse franco-tedesco, e domani all’Italia post-berlusconiana. La mobilitazione popolare di questi mesi ha dimostrato che l’Unione europea può assolvere a un ruolo essenziale nel dialogo col mondo arabo e islamico. Questa à l’unica possibilità di sconfiggere il terrorismo e favorire i processi di democratizzazione di quell’area.

L’unilateralismo imperiale degli Stati Uniti non potrà a lungo surrogare con l’arrogante potenza delle armi la mancanza di consenso dei popoli.

Mercoledì, 19. Marzo 2003
 

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