L’equivoco del Patto di stabilità tra politica e tecnocrazie

Basato sul "pensiero unico" neoliberista, ha portato i paesi europei alla stagnazione e li ha privati di strumenti di intervento. Servono nuove regole che non possono però essere lasciate nelle mani di autorità non elettive
E’ stato detto abbastanza sugli aspetti politici e procedurali dello strappo subito dal Patto di stabilità. Ma credo sia bene tornarvi, per provare a collocare gli ultimi eventi nel quadro più generale della politica economica dell’Unione europea. Se assumiamo questa prospettiva più larga, dovremo ammettere che il Patto fu segnato sin dalla nascita da un’ambiguità congenita. L’equivoco stava già nel suo nome. Era stato voluto dal ministro delle finanze tedesco, il bavarese conservatore Theo Waigel, come patto di stabilità, senza altre connotazioni. Si trattava, infatti, di rassicurare i tedeschi, in buona misura contrari a scambiare il marco, simbolo della stabilità monetaria e delle superbe performance dell’economia tedesca del dopo-guerra, con un euro aperto a paesi, come l’Italia, considerati di dubbia “virtù” finanziaria e monetaria. Ma alla Francia, paese “virtuoso”, il furore rigorista del Patto che cristallizzava, esasperandoli, i criteri di Maastricht non piaceva. E, non a caso, Jospin, al principio della stabilità, volle aggiungere l’obiettivo della crescita. Nasceva così il Patto di stabilità e di crescita. Se i nomi hanno un senso, al di là della lotta all’inflazione, che intanto veniva scemando, s’intendeva mettere all’ordine del giorno una politica di sviluppo e di occupazione, dopo gli anni magri che avevano segnato il cammino di Maastricht verso l’euro. Da questo punto di vista, il Patto era politicamente bicefalo, ma nei primi anni di vita non manifestò alcun problema né di sostanza, né interpretativo. L’Unione cresceva a una media vicina o superiore al tre per cento, la disoccupazione declinava rapidamente, l’occupazione aumentava a un ritmo sorprendente, l’inflazione era piatta, e i bilanci pubblici dei paesi dell’euro consentivano perfino la riduzione (poi rivelatasi improvvida) delle tasse. Fu una fase di ottimismo e di rinascita delle ambizioni europee. Nel febbraio del 2000, il Consiglio europeo di Lisbona, lanciò un progetto, che appariva realistico, di un decennio di crescita sostenuta (ricordate? almeno il tre per cento di media annua), di grande progresso tecnologico (per raggiungere e superare gli Stati Uniti), di piena occupazione (un obiettivo di cui si era perduta la memoria). Tutto sembrava funzionare al meglio, una volta deciso il passaggio all’euro. Ma il Patto non ne aveva meriti, e nelle nuove circostanze non offriva terreno a discussioni, a pentimenti o a ricusazioni. Le cose cambiarono repentinamente con lo scoppio della bolla speculativa americana e poi con l’11 settembre. Il rovesciamento della congiuntura americana obbligava l’Unione europea a trovare in sé stessa le risorse della crescita, senza più il traino americano. Ma l’Unione entrò in una fase di attesa letargica: l’attesa della ripresa americana. La Banca centrale europea non allentava, o allentava col contagocce, i tassi, mentre Greenspan li abbatteva in America con la forza di un ariete. L’euro cominciava un’irresistibile ascesa nei confronti del dollaro, creando difficoltà crescenti alle esportazioni, in primo luogo a quelle tedesche e italiane. La Germania che, in circostanze simili, aveva potuto in passato manovrare in autonomia il cambio marco-dollaro, da un lato era imprigionata nell’euro, destinato ad accrescere la sua supervalutazione sul dollaro; dall’altro, doveva (e,alla fine non ci sarebbe riuscita) rispettare il Patto di stabilità che nel 1997, in circostanze del tutto diverse, aveva imposto al resto dell’Unione. A questo punto l’impotenza dell’Unione europea e, in primo luogo, dei paesi dell’euro era totale. La Germania, nonostante un’inflazione pressocché azzerata, privata degli strumenti di manovra dei tassi e del cambio, aveva col Patto sterilizzato l’ultimo strumento possibile della politica macroeconomica, vale a dire una manovra espansiva del bilancio necessaria a riavviare il motore della domanda interna. Il patto si rivoltava contro i suoi autori, allargando i suoi “effetti collaterali” alla maggioranza dei paesi dell’Unione. L’ambiguità originaria del patto si scioglieva in una visione unilaterale e ciecamente vincolata all’ortodossia monetarista. Era quello il momento di ridiscuterne la congruenza economica, non importa se sotto il profilo sostanziale o dell’interpretazione. Ma non se ne fece nulla. Anzi si fece di peggio, infliggendo misure punitive al piccolo Portogallo, che aveva superato la fatidica soglia del tre per cento di disavanzo, aggravandone le spinte recessive. Quando Prodi nell’ottobre del 2002 affermò a “Le Monde”, in mezzo alla sorpresa generale, che il Patto, nelle nuove condizioni dell’economia europea e internazionale, si rivelava inadeguato, anzi “stupido”, evidentemente ci stava pensando già da molto tempo. Ma non fu seguito né dalla Commissione, né dal governo francese, né da quello tedesco. Alla stagnazione economica si accompagnava la paralisi politica e intellettuale. I fantasmi del pensiero unico, che schiere di economisti da Fitoussi a Modigliani avevano cercato di esorcizzare, si aggiravano ancora tra le tecnocrazie di Bruxelles e i governi dell’Unione, indipendentemente dal loro colore. Keynes scriveva che le idee degli economisti e dei filosofi politici, giuste o sbagliate, possono influenzare il corso delle cose più di quanto comunemente si creda. Disgraziatamente, nel caso del Patto e della politica europea, furono ostinatamente seguite le idee sbagliate, con conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti noi: la lunga stagnazione, nuova disoccupazione, crisi fiscale e della spesa sociale, approfondimento del gap rispetto agli stati Uniti e alle nuove economie asiatiche. A questo punto è ipocrita piangere sul latte versato a Bruxelles. Michael Prowse, commentatore del Financial Times – giornale certo non indulgente verso il lassismo finanziario - ha scritto che il collasso del Patto non può essere imputato all’esibizione dei muscoli di Germania e Francia, ma alla sua sostanziale infondatezza economica: “Una regola che governa le decisioni economiche, ma è priva di un fondamento economico, non è destinata a durare a lungo. Essa semplicemente stimola la sua non applicazione” (28 novembre 2003). L’idea sbagliata stava e sta nella convinzione che, nell’epoca della globalizzazione, un paese, o una comunità di paesi, possa privarsi contemporaneamente di tutti gli strumenti di flessibilità macroeconomica e, in particolare, della manovra fiscale, quando la politica monetaria e quella del cambio sono diventate inoperanti, o vengono finalizzate a un puro scopo di stabilizzazione. In realtà, i fautori di questa politica di masochismo economico hanno imposto all’Unione implicitamente, senza discuterla, quasi come un’ovvietà, una politica economica di stampo monetarista, che intravede nelle politiche macroeconomiche uno sviamento dalle politiche strutturali destinate a liberalizzare e deregolare i mercati, a cominciare dal mercato del lavoro, comprimendo al tempo stesso la spesa pubblica. La politica monetaria non deve avere altro scopo che la stabilizzazione, e per risolvere le proprie difficoltà l’Europa, deve “ridurre le tasse (tagliando le spese), introdurre flessibilità nei salari e nella mobilità del lavoro”- raccomandare Milton Friedman (intervista a Il sole-24 ore, 28 novembre 2003). Sono questi i criteri che hanno ispirato il funzionamento del Patto. Nell’ideologia neoliberista, la flessibilità necessaria per far funzionare il sistema nell’era della globalizzazione non deve essere cercata nelle politiche macroeconomiche, ma nella deregolazione dei mercati del lavoro, nella riduzione del costo del lavoro e della spesa sociale. Minore spesa per la disoccupazione, per le pensioni, per la sanità: sono queste le famose “riforme strutturali” dello schema teorico e ideologico neoliberista. Si tratta di uno schema di origine neoconservatrice, ma che non ha lasciato indenni ampi settori della sinistra europea. C’è di più. Nella prospettiva neoliberista, le crisi congiunturali debbono essere utilizzate per attuare le “riforme” che nei periodi di crescita non trovano un terreno adatto a imporre i necessari sacrifici sociali. Abbiamo così assistito nell’Unione europea al rovesciamento dello schema “delorsiano”, fondato sull’intreccio fra crescita, investimenti e occupazione nel quadro di un modello fondato sulla coesione sociale. Il disegno di Lisbona andava in questa direzione, ma è finito nel cestino. L’euro, da punto di forza, è diventato una palla al piede che alimenta la crescita americana, mentre frena le esportazioni europee. In questo quadro, il Patto non poteva che esplodere di fronte alla persistenza della stagnazione nelle grandi economie continentali. Naturalmente, con grande gaudio e la partecipazione attiva di Tremonti, inesauribile inventore di finanza creativa in un paese che ha un debito pubblico dell’80 per cento più alto di quello medio dell’Unione; che paga annualmente il cinque per cento del prodotto interno per il servizio degli interessi; e che si permette il lusso demagogico di continuare a promettere la riduzione delle tasse. E ora che fare? Il punto non è se serva un patto di coordinamento delle politiche economiche, in particolare fra i paesi aderenti all’euro. Un Patto politico, prima ancora che economico, è necessario. Il punto riguarda il suo contenuto, i suoi obiettivi, la sua trasparente legittimazione politica, la sua funzione nel quadro di una politica generale di sviluppo, di innovazione, di occupazione, di progresso sociale. Le soluzioni tecniche e le procedure non mancano. Molti economisti sostengono che bisogna fare riferimento al debito più che al disavanzo corrente. E non c’è dubbio che con un debito sostenibile, com’è il caso della Francia. della Germania e della maggior parte di paesi dell’Unione, la spesa in deficit deve essere valutata sulla base di parametri flessibili che tengano conto, nel quadro di una regia comunitaria, degli obiettivi di crescita e di occupazione e dell’andamento del ciclo economico internazionale. La questione di base è se si vuole un’Unione che rinuncia a fare politica, affidandosi agli automatismi di mercato, scimmiottando le dottrine neoliberiste imbalsamate nell’ortodossia del pensiero unico, retaggio ormai privo di credibilità del passato decennio; o se, al contrario, si torna all’idea fondativa di un equilibrio fra stabilità, crescita, occupazione, politiche di investimento, innovazione tecnologica, integrazione sociale. La nuova costituzione è importante, ma le sue regole rimarranno sterili e ambigue senza il fondamento di obiettivi condivisi. Anche le costituzioni hanno bisogno di un’anima. Di obiettivi trasparenti, di ambizioni che possano suscitare consenso. Tutte cose più difficili della pura fissazione di regole giuridiche da affidare al controllo di autorità tecnocratiche o alla Banca centrale europea - come propone l’ultimo numero dell’Economist. Tecnocrazie autoreferenziali, lontane dai problemi di consenso popolare, che sono certo più difficili da mediare, ma che rappresentano il sale della democrazia.
Giovedì, 4. Dicembre 2003
 

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