L’economia dal volto umano di Sylos Labini

Un grande studioso che non ha mai dimenticato che la scienza economica serve per lo sviluppo, ma lo sviluppo deve servire per migliorare la condizione umana. Un uomo concreto che sosteneva che non bisogna aver paura di proporre le proprie utopie

Paolo Sylos Labini è stato un grande economista, ma non è su questo che a me spetta aggiungere giudizi. Voglio, invece, qui ricordare la sua capacità di maestro, nel senso più alto. La capacità di entrare nella complessità dei problemi economici, svelandone sempre la dimensione sociale, i riflessi istituzionali, le tensioni politiche. L’economia diventava con Sylos l’oggetto di un dialogo aperto sulla società e la politica. Aveva per questo un fascino singolare. La conversazione con lui dispiegava un’ illuminante ricchezza di pensiero che superava sempre i punti di partenza.

Spesso, negli ultimi tempi, quelli della triste era berlusconiana, Sylos indulgeva a lunghi monologhi che erano insieme spiegazione e chiarimento del problema posto, ma anche indignazione per l’involgarimento della politica. Si è detto  a questo proposito che egli presentava una doppia identità: da un lato, quella dell’economista sapiente e rigoroso, dall’altro quello del polemista.

 Non credo a questa scissione. In Sylos la scienza economica e la dimensione morale, sociale e politica dei problemi s’intrecciavano con assoluta naturalezza. Sotto questo profilo, Sylos ricordava Federico Caffè. Per entrambi, pure distanti per alcuni aspetti, la profondità scientifica non poteva mai essere scissa da una dimensione umanistica. Ricordo come Sylos amasse dichiararsi erede di Adamo Smith, indignandosi per la volgarizzazione strumentale del suo pensiero in direzione di un liberismo astratto e senz’anima. Così come sottolineava la sua critica ad alcuni aspetti radicali del pensiero di Marx, ma sempre senza iattanza e convinto che con la sua dottrina fosse sempre necessario misurarsi.

Nel suo ultimo lavoro di riflessione storica sulle origine del pensiero economico - “Torniamo ai classici” – criticava “il carattere statico dell’economia dominante”. Il problema centrale dell’economia, non si stancava di ammonire, è l’individuazione delle condizioni dello sviluppo. Ma non fine a se stesso, essendo il fine la condizione umana.

All’economia non basta la freddezza della matematica. “Lo stesso Smith – scrive Sylos – in origine era un filosofo che si volse all’economia, io credo perché considerava la miseria la massima causa del degrado dell’uomo”. Se l’assenza di lavoro può essere causa di miseria, anche un certo tipo di lavoro può essere causa di degrado. Lo soccorre ancora Adamo Smith, quando in uno straordinario passo sulla divisione del lavoro, descrive come l’impossibilità per chi lavora  “di esercitare la sua intelligenza o la sua creatività” si risolve in quella che, scrive Sylos, Marx avrebbe chiamato alienazione.

Il “ritorno ai classici” non è una snobistico vezzo accademico. Le citazioni di Sylos non sono casuali: il rischio che la povertà o le condizioni di lavoro diventino causa di degrado individuale e sociale è incombente,  “a meno che – è adamo Smith che parla - l’autorità pubblica non compia sforzi rilevanti per evitare che ciò avvenga”. Scienza economica,  filosofia sociale, preoccupazione per la condizione umana fanno tutt’uno.  Se vogliamo cercare un’affinità di pensiero, possiamo forse riferirci a Amartya Sen. Mentre avvertiamo una distanza siderale dagli economisti – sempre più spesso laureati Nobel – che fanno del lavoro umano un’ordinaria merce da lasciare indifesa negli ingranaggi automatici dei mercati.

Ricordo che la prima volta che entrai in rapporto con Sylos fu a metà degli anni Sessanta, quando per conto di “Problemi del socialismo”, la rivista di Lelio Basso, chiesi a lui, fra altri economisti, una valutazione della programmazione economica sulla quale si era impegnato il governo al quale per la prima volta partecipava il Partito socialista. Sylos aveva partecipato nella fase iniziale con Antonio Giolitti e Giorgio Ruffolo all’elaborazione del piano, al quale la CGIL e la sinistra erano fondamentalmente contrari. Sylos respingeva un atteggiamento pregiduzialmente critico e valorizzava l’indicazione di una serie di riforme che il programma prevedeva. Respingeva l’idea che si potesse chiedere alla programmazione di cambiare, come allora si diceva, il meccanismo di sviluppo. “Chi volesse modificare in profondità e nel giro di pochi anni, l’attuale meccanismo di sviluppo (senza poi sapere bene con che cosa sostituirlo), peccherebbe di ingenuo utopismo. Le rivoluzioni non si fanno con i programmi quinquennali. Le critiche - aspre e pertinenti – che secondo il mio parere bisogna esprimere riguardano invece la condotta del governo”. Potevano apparire risposte ovvie e di buon senso. In realtà era la risposta di un riformista senza illusioni, che rifuggiva dalla retorica delle formule, per sottolineare il rapporto tra le possibili scelte economiche, la qualità dell’impegno politico e la realizzabilità di un programma sulla base dei rapporti di forza concreti. ”Le riforme – affermava - comportano “necessariamente una battaglia politica (politica in senso ampio)”

Questo modello di ragionamento che intrecciava l’analisi economica con la concretezza dei rapporti politici e sociali lo portava a essere critico verso una certa astrattezza dei discorsi della sinistra, ma al tempo stesso intransigente nel giudizio dell’azione di governo. Che, al cospetto del degrado della politica, questa intransigenza  diventasse indignazione e ribellione, “grido” (negli ultimi tempi era solito citare Munch) non può stupire. Non è un secondo Sylos. E’ l’amarezza , il disgusto intellettuale e politico per la corruzione multiforme del ceto di governo, in un discorso in cui spicca la puntigliosità dei dettagli, ma al tempo stesso il gusto per l’arguzia, la battuta, lo scherno per il grottesco annidato nelle menzogne e nella retorica di un ceto politico senza principi.

Con rammarico dobbiamo oggi dirci che la sinistra italiana non ha mai valorizzato sufficientemente l’apporto della sua riflessione teorica e pratica. E, probabilmente, non è stato un caso. Sylos Labini non si prestava a una facile collocazione. Se se ne chiedeva il consiglio, bisognava anche accettarne la riflessione critica, l’indisponibilità ai luoghi comuni della politica corrente, a cui pure la sinistra è stata sempre di più disposta a indulgere, anche quando negli ultimi dieci-quindici anni, la crisi delle ideologie si è risolta nel trionfo di un’unica ideologia di stampo liberista.

Sentiremo la mancanza di Sylos. Ma vorremmo augurarci che il suo insegnamento non vada disperso. Non tanto o non solo l’insegnamento scientifico del professore che aveva colloquiato con Schumpeter e Sraffa, ma quello civile, che lo portava a non tacere, a schierarsi, a dare voce alla protesta e all’indignazione morale e politica. Scriveva ancora Sylos: “gli economisti e altri studiosi di scienze sociali generalmente si astengono dal proporre le proprie utopie, anche quando le hanno, perché temono di essere considerati ingenui sognatori; è bene vincere questo timore, naturalmente presentando le idee dopo una riflessione ancora maggiore di quella consueta”. 

Gli economisti che ne furono allievi o colleghi e lo apprezzarono dovrebbero raccoglierne questo lascito, oggi più importante  e necessario che mai. Prendere posizione. Dare voce alla critica più rigorosa e intransigente senza reticenze, e senza temere l’accusa di mescolare scienza e politica.. Combattere la pervasività del pensiero unico incessantemente alimentato dalle tecnocrazie delle potenti istituzioni finanziarie internazionali, senza per questo rinunciare al rischio di indicare le linee, coerenti e chiare, delle possibili alternative.

 

Lunedì, 12. Dicembre 2005
 

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