L’antipolitica del luogo comune

Dal “sono tutti uguali” al “non c’è un programma di governo” si continua ad abusare di slogan che invece di fotografare la realtà la deformano. Anche perché molti cosiddetti intellettuali disdegnano di leggere i documenti di cui parlano

L'estate è trascorsa senza i disastri economici preannunciati. Si sono un po' rassicurati i mercati: non i disoccupati, i cassintegrati, gli esodati. Prosegue infaticabile l'operazione mediatica di falsi obiettivi, forse per preparare l'ennesimo ritorno di qualcuno. Potenti interessi - noncuranti dei disastri finanziari procurati - non intendono rassegnarsi alla perdita di un potere ventennale, contando sul lavacro della labile memoria dell'elettorato e sulla pigrizia degli intellettuali che raramente si umiliano fino al punto di leggere i documenti di cui discutono.  E' vero che il Paese si è giovato della caduta di un governo che tendeva ad assomigliare ad un balletto di French Cancan, ma è subentrata una compagnia di tragedi che dall'alto dei coturni bocconiani sembrano aver perso i contatti con i problemi di lavoratori e di imprese. In questo clima la sinteticità di un linguaggio cui ci avvezza il web fa sì che la disinformazione si concentri in slogans: castelli di sabbia che una critica attenta non dovrebbe aver difficoltà a spazzar via con un soffio di corretta informazione. Ne ricordiamo qualcuno. Sono tutti uguali; il Pd non ha un programma ben definito; i dirigenti sono sempre gli stessi; meno Stato per uscire dalla crisi; la Sinistra è tassa e spendi; il calo di produttività è imputabile prevalentemente all'organizzazione del lavoro; e via farneticando.

 

La prima affermazione è qualunquistica, ma come tutte le banalità ha una forte presa sulla pubblica opinione. Spinge molti ad astenersi dal voto, per consentire ai soliti noti di pilotare gli altri con le preferenze clientelari. Al di là di casi individuali, l'atteggiamento dei singoli partiti nei confronti di ladrocini ed abusi è diverso. La sinistra accetta i processi, anche poco attendibili (ricordiamo il caso Del Turco, ancora inconcluso e quello di Penati, su cui la Cassazione ha rilevato la "probabile totale insussistenza delle ipotesi accusatorie"), mentre altri partiti hanno attaccato la magistratura e realizzato legislazioni di favore. Anche per quanto riguarda i cosiddetti privilegi della Casta, la proposta Pd di riduzione del numero dei parlamentari, delle indennità e del finanziamento pubblico dei partiti, accettata all'unanimità è andata a picco quando il centrodestra ha fatto la mossa del Cavallo, proponendo inopinatamente la riforma presidenziale. Nella selezione dei rappresentanti non tutti i politici sono uguali: soubrettes, veline, autisti, guardaspalle sono assurti agli onori della ribalta politica, prevalentemente da certe parti e non da altre.

    

Quanto alla vetustà della classe dirigente del Pd, il segretario è in sella da meno di due anni, dopo aver ottenuto tre milioni di voti alle primarie; il partito ha quattro anni di età (come il Pdl, ma molti meno della Lega o dell'Udc); i segretari dei circoli hanno in maggioranza meno di quarant'anni (quello di Firenze è pronto a rottamare, con i suoi 28 anni, l'anziano Matteo Renzi, che ne ha 37 compiuti....). Anche l'età media dei deputati è diminuita e quasi la metà sono alla prima legislatura. D'altro canto l'idea di affidare il governo del Paese ad un Kindergarten sembra poco plausibile, anche se forse piacerebbe a Renzi riprendere il suo antico ruolo di caposcout.

 

Il programma del Pd (o, per meglio dire la "Carta di intenti") è definito nei suoi punti qualificanti. Alla sua elaborazione hanno collaborato un centinaio di economisti, molti stranieri tra cui due Premi Nobel; sarà sottoposto a molte associazioni per suggerimenti specifici. L'asse portante però è chiarissimo: fermi restando l'equilibrio dei conti pubblici (esplicitamente ribadito) e l'opportunità di ridurre il peso della tassazione sul ceto medio e sulle imprese, per il Pd vi sono due diversi equilibri, numericamente identici, ma socialmente opposti. Nel primo, i ricchi tendono a diventare più ricchi ed i poveri più poveri; nel secondo, i ricchi diventano meno ricchi ed i poveri meno poveri. Questo significa uscire dalla crisi con uno sviluppo armonico.

    

Semmai un elemento non è quasi mai citato nelle analisi del centrosinistra: il fenomeno della traslazione dei tributi, che pure rientra nei programmi del terzo anno di Ragioneria. Talune forze di mercato tendono a spostare il carico tributario dal soggetto giuridico a quello economico. Per dirla alla Bocconi, dal percosso all'inciso. Conseguentemente le imposte che in apparenza gravano sui finanzieri rappresentati come nei disegni di Grosz (con cilindro e sigaro Avana) di fatto vengono pagate, attraverso l'aumento dei prezzi, dai ceti medio-bassi. Questo spiega le perplessità di alcuni osservatori neutrali di fronte alle proposte di patrimoniali. Già ora l'Imu sulle società immobiliari si traduce in un aumento degli affitti per gli inquilini anche a basso reddito. Un ampio campo di interventi ancora in parte inesplorato si offre invece per quanto concerne le concessioni. I maghi della spending review, anziché infierire sui ticket sanitari, potrebbero verificare gli importi risibili corrisposti dai concessionari per ogni mille litri di acqua minerale o per un chilometro di spiaggia balneabile, senza farsi frenare dal prevedibile coro di lamentazioni.

    

Paradossalmente proprio una patrimoniale dovrebbe essere accompagnata da una forte concorrenza di stampo veramente liberista. Quanto ad altri programmi, quello di Renzi sembra per ora sotto traccia come quella "Battaglia di Anghiari" che intendeva scoprire, mentre quello di Alfano riecheggia fallimentari cartolarizzazioni di tremontiana infausta memoria.

 

Quanto al ritornello "Monti dopo Monti" esso assomiglia più alla canzone di Heidi che ad una seria riflessione politica. Non tutte le manovre dei tecnici sono state entusiasmanti.  L'aggravarsi degli squilibri sociali ed economici è sotto gli occhi anche degli industriali e dei commercianti. Pochi hanno cercato di approfondirne il perché. La leva fiscale si è mossa rapida e inesorabile, ma gli interventi di crescita, nonostante la bambinesca etichetta di Cresci-Italia, sono quasi totalmente inattuati, per carenza di decreti applicativi (240 per uno solo dei provvedimenti!). E' il prezzo che si paga per la mancanza di quella esperienza amministrativa che si acquisisce solo con una lunga militanza e con la padronanza dei meccanismi che consentono di domare una burocrazia gelosa delle proprie prerogative. Sono anche scomparse dall'Agenda Monti alcune proposte, come quella delle zone franche (Trieste l'aveva ai tempi degli Asburgo).

 

Comunque, al di là delle dichiarazioni di principio il programma di Bersani differisce radicalmente da quello di Monti su tre punti. Il primo consiste nel fatto che mentre i "montiani" ritengono che l'equilibrio finanziario sia la pre-condizione per la ripresa dell'economia reale, i "bersaniani" pensano che sia proprio lo sviluppo dell'economia reale, anche con manovre redistributive, che favorisce il più rapido riequilibrio dei conti finanziari. Bersani, inoltre, ritiene che spetti allo Stato promuovere l'innovazione finanziando la ricerca di base, che è a redditività diffusa e lungamente differita e considera la spesa sociale non un costo, ma un fattore di sviluppo. Privilegia infine un gran numero di "piccole opere" con rapide ricadute occupazionali e reddituali, mentre il governo avrebbe scelto le Grandi Opere, le cui ripercussioni si faranno sentire molto dopo la fine della crisi.

 

Il discorso sulla produttività è troppo complesso per affrontarlo qui. Ricordiamo che accanto all'organizzazione del lavoro figurano la logistica, le capacità gestionali, il rapporto capitale/addetto, il livello della tecnica, le diseconomie esterne e le economie di scala. Basta vantarsi di una popolazione imprenditoriale di nani da giardino!

 

Un accenno finale alle prospettive di ripresa. In un precedente articolo le avevamo collocate intorno al terzo trimestre dell'anno in corso, contro l'unanime parere dei guru di turno. Mi pare che qualche sintomo si stia manifestando, anche in anticipo rispetto alle ultime previsioni del governo (ma forse Monti gioca a carte coperte). Forse ciò avviene non "grazie" ma nonostante la politica governativa, con un meccanismo sfida/risposta alla Toynbee. La produzione industriale in luglio è cresciuta dell'1,2% rispetto a giugno e gli ordinativi del 2,9%. Tendenza corroborata da una forte crescita delle importazioni, che al netto dell'aumento dei prezzi dell'energia potrebbe indicare l'inizio di quel ciclo delle scorte che precede di 3/4 mesi l'ampliamento della produzione.

    

Purtroppo non appaiono all'orizzonte barlumi di maggiore equità sociale. Si profila una jobless recovery. Donde l'urgenza di una politica attiva. Non un tassa e spendi, ma tassa alcuni, detassa altri e spendi bene. La politica economica deve tornare alla guida dei fenomeni reali, con la politica industriale, il finanziamento della ricerca di frontiera e la detassazione dei nuovi investimenti.

    

Il risorgere dalle tombe politiche dei vampiri che hanno dissanguato un'intera generazione dovrebbe spingere il mondo dell'informazione ad alzare il livello della critica e approfondire la conoscenza della realtà fattuale. Magari leggendo i documenti originari e non i flash di agenzia.
Mercoledì, 26. Settembre 2012
 

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