L’ambigua ribellione di Renzi

L'evidente fallimento delle politiche imposte all'eurozona dall'asse Berlino-Bruxelles ha provocato la sconfitta di tutti i governi che ne sono stati fedeli esecutori. Il premier italiano ne ha preso atto e ha aperto un confronto conflittuale, lontano dall’etichetta dei rapporti riservati. E' comunque un’occasione da non perdere

La crisi dell’eurozona nella quale abbiamo assistito alla ribellione di Matteo Renzi viene da lontano. L’origine risale alle conseguenze del collasso finanziario egli stati Uniti nel 2008. Ma la crisi dell’eurozona non era fatele. E’ il risultato di politiche sbagliate e autolesioniste. Il confronto fra le due sponde dell’Atlantico è istruttivo.
 
1. Dopo il collasso della Lehman Brothers nell’autunno del 2008, il governo americano decise senza esitazioni di intervenire per bloccare il contagio. Il Congresso mise a disposizione del governo (erano gli ultimi giorni di George Bush) 700 miliardi dollari da impiegare per disinnescare la crisi bancaria. L’operazione ebbe successo. Il temuto ripetersi di della catastrofe del 1929 fu scongiurato.

Una politica equivalente fu negli anni successivi adottata in Europa. Gli Stati investirono centinaia di miliardi di euro nel salvataggio delle banche: da quelle britanniche, che furono nazionalizzate, a quelle tedesche e francesi, nonché irlandesi, spagnole, e così via. Si trattò di una reazione analoga a quella adottata in America. Ma l’analogia si ferma qui.

A parte il salvataggio delle banche, le politiche cominciarono a divergere radicalmente. In America, Barack Obama decise, non appena approdato alla Casa Bianca, una manovra di bilancio di 800 miliardi di dollari per ridare fiato all'economia, con la crescita di investimenti e consumi. In Europa si adottò la linea opposta. Poiché il salvataggio delle banche aveva accresciuto i disavanzi di bilancio e del debito pubblico, le autorità dell’eurozona imposero una politica di austerità finalizzata al rientro del disavanzo. In sostanza, una politica deflazionista, il cui unico esito sarebbe stato una lunga fase prima di recessione, poi di sostanziale ristagno dell’economia.

Otto anni dopo l’inizio della crisi, nell’eurozona il reddito nazionale rimane al di sotto di quello pre- crisi; il debito, che l’austerità doveva ridurre, è aumentato; la disoccupazione, che era circa il 10 per cento nelle due aree, è scesa al di sotto del 5 per cento negli Stati Uniti, mentre ha continuato a crescere nell’eurozona, toccando punte estreme del 25 per cento in Grecia e Spagna.

L’evidenza del fallimento delle politiche praticate nell’eurozona è un dato di fatto. Che non è dimostrato solo dal confronto con gli Usa. Se, infatti, guardiamo all’interno dell’Unione europea, scopriamo che la Gran Bretagna, la Polonia e la Svezia, per citare tre paesi diversamente importanti, fanno registrare una crescita pari o superiore a quella americana. L’assurdità della politica imposta dai signori dell’eurozona, in sostanza dall’asse Bruxelles - Berlino, non può dare adito a dubbi.

In questo quadro, la situazione dell’Italia è nel confronto con i maggiori paesi dell’Ue la più sconcertante. Ha perduto il 9 per cento del prodotto interno lordo; la produzione industriale è diminuita di un quarto; la disoccupazione è raddoppiata, passando dal 6 al 13 per cento al culmine della crisi.

2. Un tentativo di uscire dalla trappola nella quale si è cacciata l’eurozona è stato fatto da Mario Draghi, con la decisione di salvare l’euro da un rischio di disintegrazione, facendo “qualsiasi cosa fosse necessaria”. In sostanza inondando di liquidità i mercati monetari. Una misura che se pure in ritardo, replicava la politica della Federal Reserve di Ben Bernanke. Ma, ancora una volta, l’analogia si ferma qui.

L’abbondante liquidità consentita dalla Bce a tassi d’interesse vicino o al di sotto dello zero in termini reali avrebbe potuto incentivare gli investimenti pubblici per recuperare la crescita, fare da sponda agli investimenti privati, migliorare gli standard di efficienza del paese, combattere la disoccupazione di massa. Sarebbe stato ragionevole, ma è proibito: le regole della zona euro, infatti, impongono una chimerica marcia forzata verso il pareggio di bilancio. Non è possibile attuare una spesa di investimenti diretti alla crescita. E la mancanza di crescita aggrava gli squilibri della finanza pubblica. Un infernale circolo vizioso.

Non sorprende che, al di là  della retorica dell’ottimismo di facciata, Renzi si sia sentito in trappola. L’austerità è un macigno sulla crescita. E le riforme strutturali servono solo alla Confindustria e a guadagnare consensi a destra, ma non producono crescita. Col risultato di passare dopo la più lunga recessione della storia nazionale a una fase di sostanziale stagnazione.  


3. In questo quadro deludente e allarmante, la ribellione di Renzi è spiegabile e, per molti versi, ragionevole. Il suo torto è di arrivare in ritardo. Il contenzioso con Bruxelles riguarda apparentemente qualche decimale di punto di maggiore disavanzo di bilancio. Ma se si trattasse solo di questo, un compromesso, come auspicato dal francese Moscovici, il commissario europeo per la politica economica, sarebbe alla fine praticabile.

Ma il vero problema non è questo. Ad aprile il governo deve presentare il programma di stabilità per il 2017 e il 2018. Il programma deve indicare le misure di bilancio per ridurre il disavanzo all1,1 per cento del Pil l’anno prossimo e pervenire al pareggio strutturale nel 2018. Semplificando la cabala dei numeri, questo significa che, mentre l'attuale contenzioso con la Commissione europea riguarda tre miliardi di euro, per i prossimi due anni il governo dovrebbe programmare e attuare una riduzione del disavanzo di circa quaranta miliardi.

Come se non bastasse, è previsto un aumento dell’avanzo primario (la differenza fra entrate fiscali e spesa pubblica) dall’attuale 1,8 fino al 4,3 percento del Pil nel 2019, finalizzato alla riduzione del debito prevista dal Fiscal compact. Una missione impossibile. O politicamente suicida.

4. Il 2015 è stato un “annus horribilis” per i governi al servizio di Berlino. In una sequenza impressionante, prima ha perduto le elezioni Samaras in Grecia, poi Passos Coelho in Portogallo, infine Rajoy in Spagna. La politica dell'asse Berlino-Bruxelles si dimostra letale per i governi che gli sono fedeli.

Renzi è consapevole del rischio di fare la stessa fine, come dimostra in un’ ’intervista al Financial Times appena dopo la sconfitta di Mariano Rajoy in Spagna: “Non so come siano andate le cose col mio amico Mariano - dice - ma è un fatto che i governi che si sono esposti in prima linea come fedeli alleati della politica del rigore senza crescita ne sono usciti sconfitti… E’ successo a Varsavia, sia pure in circostanze particolari, è successo ad Atene, ed è successo a Lisbona”.

La situazione non è più confortante per la Francia, dove François Hollande ha fatto registrare il consenso popolare più basso fra tutti i presidenti della V Repubblica. Mentre il Fronte Nazionale di Marine Le Pen si è collocato al primo posto nelle elezioni regionali, ed è pronto alla sfida del ballottaggio per la presidenza della Repubblica nelle elezioni del  prossimo anno.

In sostanza, Renzi teme di finire nella stessa trappola nella quale sono incappati i governi, non importa se di centrodestra o centro sinistra, fedeli alle politiche dell'eurozona.

Tra l’altro, il 2017 è l’anno delle elezioni in Germania, e la posizione tedesca sarà, se possibile, ancora più rigida nei confronti dei satelliti che girano intorno al pianeta Germania. Merkel cercherà di eguagliare il primato di Kohl riconquistando la cancelleria per la quarta volta. Ma deve fare i conti con il falco Schäuble, inflessibile nei confronti dei governi dell’eurozona.

I governi ribelli rischiano la sorte della Grecia, come ha dimostrato la durezza del ricatto esercitato in prima persona da Schäuble nei confronti del governo Tsipras: o la piena sottomissione ai vincoli imposti da Bruxelles (e Berlino), o l’uscita dall’eurozona. Un risultato, in ogni caso, provvisorio. In Grecia la situazione sociale è peggiorata come esito delle micidiali riforme imposte dalla rediviva Troika, e sono ripresi gli scioperi.

Ma il cambiamento appare inarrestabile. Il nuovo governo socialista portoghese si regge su una maggioranza che comprende due partiti anti-austerity, fra i quali il Partito comunista favorevole all’uscita dall’eurozona. In Spagna, la grande alleanza fra Psoe e Popolari, raccomandata da Berlino, si è dimostrata impraticabile. Pedro Sanchez, incaricato di formare il nuovo governo ha bisogno della partecipazione di Podemos: un’alleanza possibile solo sulla base di un programma anti-austerity. L’alternativa sono nuove elezioni in primavera.

5. La politica dell’eurozona, autoritaria quanto inefficace, ha provocato una profonda crisi nel funzionamento della democrazia. Il ruolo dei Parlamenti degli Stati membri è stato svuotato. Nel campo delle scelte economiche e sociali che definiscono per molti aspetti i diritti di cittadinanza e sono il sale della dialettica democratica, i governi sono sottoposti ai diktat imposti da una tecnocrazia priva di rappresentanza democratica. Agli Stati nazionali è di fatto impedita la formulazione e l'attuazione di politiche economiche e sociali basate sulle scelte democratiche espresse attraverso il voto dei cittadini. Le politiche sono subordinate al consenso preventivo di Bruxelles. Il voto popolare diventa un esercizio ridondante. Mentre i partiti e i movimenti di opposizione sono cumulativamente etichettati come “populisti” e anti-europei.

Eppure, lo svuotamento delle funzioni statali non era previsto nella piattaforma su cui sono stati costruiti l'Unione europea e al suo interno la moneta unica.

Alla vigilia della conclusione della sua presidenza dell’Unione europea, Jacques Delors, che ne era stato il principale architetto, espresse limpidamente in un libro-intervista la sua concezione dei rapporti fra gli Stati membri e l’Unione. “Lo Stato - disse - progetta, a medio e lungo termine, lo sviluppo dell’economia e del sociale e, dopo aver definito gli orientamenti generali, fornisce, per realizzarli, i mezzi che il mercato non offre spontaneamente”. E per non lasciare dubbi sulla funzione dello Stato nel quadro dell’Unione europea, riproponendo il concetto di funzioni essenziali e irrinunciabili dello Stato, aggiungeva: “Respingo l’idea di uno “Stato modesto”, perché nella crisi attuale della società francese, c’è bisogno di uno Stato forte… nel “villaggio globale”, lo Stato ha un ruolo essenziale da svolgere”(1)
Renzi evidentemente intuisce che la riduzione dello Stato a una condizione di semicolonia porta prima o poi alla liquidazione dei governi che vi si sottopongono.

6. La ribellione di Renzi intreccia aspetti economici e altri esplicitamente politici. Prima si rivolge ai tecnocrati di Bruxelles: “Non si può mettere al centro l’ideologia dello 0,1% o 0,2% del deficit di bilancio”. E quanto alla minaccia di una procedura d’infrazione: “Facciano pure: noi andiamo avanti…il nostro mestiere non è andare in qualche palazzo di Bruxelles a prendere ordini".

Poi, nell’intervista
alla Frankfurter Allgemeine prima dell’incontro con Merkel, Renzi pone direttamente la questione politica: “Uno dei punti di contrasto - afferma - è il comportamento della Germania, che inizia ogni appuntamento dell’Unione europea con un incontro bilaterale con i francesi. Sarei grato se Angela (Merkel) e François (Hollande) potessero risolvere tutti i problemi, ma in genere non funziona così».

La reazione di Renzi non è il riflesso di un pregiudizio anti-europeo. Piuttosto è l'effetto di una delusione crescente. "Gli italiani – ha scritto Il Financial Times - sono sempre stati considerati tra i maggiori sostenitori dell'integrazione europea, ma gli anni di stagnazione economica e la recessione hanno generato disillusione, in particolare quando si tratta dei risultati dell’euro". Il giudizio è avvalorato dai risultati dei sondaggi promossi dall’Eurobarometro per conto della Commissione europea, secondo i quali il 55 per cento del campione italiano è favorevole all’uscita dell’Italia dall’euro.

Non ci si può sorprendere che Renzi, allarmato, nonostante i proclami di ottimismo mediatici, abbia scoperchiato nei confronti delle autorità europee il vaso di Pandora. La domanda è: con quali sbocchi?

Il suo atteggiamento conflittuale nei confronti di Bruxelles e Berlino può sfociare in differenti, anche opposti, risultati. Da un lato, un cedimento può significare un suo pericoloso indebolimento politico rispetto a scadenze importanti come le elezioni amministrative in primavera, poi il referendum costituzionale in autunno, sul quale ha messo in gioco i suo stesso futuro politico.

Dall’altro, approfondire la linea della contestazione nei confronti delle autorità europee rischia di innescare una rottura profonda con l’asse Berlino-Bruxelles. Ma, in compenso, potrebbe rafforzare la sua posizione elettorale soprattutto in vista delle possibili elezioni politiche anticipate al 2017, e favorire la costruzione del sempre più spesso evocato "Partito nazionale", conquistando voti sulle due sponde di destra e di sinistra oggi fuori dalla composita maggioranza d governo.

Ma ogni previsione rischia di essere aleatoria, trattandosi di un politico che ha dimostrato di intrecciare senza remore ambizione personale e trasformismo politico.

7. Più sicuro è attenersi ai fatti. L’eurozona è entrata in una fase critica che può preludere alla sua disgregazione. Non a caso, quando si verifica la possibilità di fare una scelta politica effettiva attraverso il voto, un numero crescente di paesi membri coglie l’occasione per prendere posizione contro i partiti tradizionali, considerandoli asserviti agli interessi e al potere delle élite europee dominanti.

L’euro si è dimostrato un sostanziale travestimento del marco, lasciando nelle mani della Germania, e del braccio esecutivo di Bruxelles, un’implicita, appena mascherata, sovranità sulle politiche economiche e sociali dei paesi membri. Con la conseguenza di consentire all’economia tedesca di beneficiare di una valuta sottovalutata (a sostegno del suo astronomico avanzo commerciale), mentre gli altri paesi dell’eurozona devono operare con una valuta sopravvalutata da compensare con un regime di bassi salari e di riduzione della spesa sociale.

Aprire un dibattito sui fatti così come effettivamente si presentano, non
come, in una visone utopica, si supponeva potessero essere, può salvare ciò che merita di essere salvato, a cominciare dall’Unione europea, oggi minacciata dal comportamento neo-imperiale di uno Stato dominate e di una tecnocrazia autoreferenziale.

La scelta di Renzi di aprire un confronto conflittuale, lontano dall’etichetta dei rapporti riservati, nascosti all’opinione pubblica, e destinati a essere perdenti, rappresenta una novità fra i capi di Stato e di governo. Al di là dell’opportunismo elettorale e del consolidato trasformismo politico che caratterizza il capo del governo italiano, l’apertura possibile di un dibattito a tutto campo e senza pregiudiziali sul ruolo dell’Italia nella crisi dell’eurozona si presenta come un’occasione salutare. Un’occasione da non perdere.

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(1) Jacques Delors: “L’Unité d’un homme” -, entretiens avec Dominique Wolton- 1994, pagg. 100-103,

Lunedì, 15. Febbraio 2016
 

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