Impiccarsi ad un principio

La sinistra è disposta a far perdere all'Italia il settore auto pur di evitare l'intervento pubblico

Nella confusa vicenda della Fiat stiamo assistendo ad un paradossale rovesciamento ideologico delle parti.
Ampi settori del centrodestra e del governo programmaticamente più liberista della storia repubblicana non hanno escluso (e forse accarezzano) la possibilità di un intervento pubblico, la stessa cosa chiesta fin dall’inizio da Rifondazione comunista e, sia pure con prudenza, dai sindacati. La maggior parte del centro sinistra e dell’opinione pubblica ad esso contigua, invece, denuncia come pubblico scandalo la stessa idea di un tale intervento.

Sgombriamo il campo, se possibile, dai cattivi pensieri che si potrebbero fare (e che probabilmente, come direbbe Andreotti, in gran parte ci azzeccano). E cioè che la destra pensi a questa possibilità sia per pure ragioni di potere, sia per evitare – senza preoccuparsi dei mezzi – un disastro occupazionale che colpirebbe oltretutto proprio quella Sicilia che le ha tributato un en plein elettorale. E che il centro sinistra vada all’attacco perché qualsiasi cosa dica Berlusconi non puo non essere sospetta, cosa che sembra essere l’unica strategia su cui lo schieramento trova un po’ di unità.

Tralasciamo dunque questa parte della questione (considerandola una inevitabile tara) e cerchiamo di riflettere sul merito del problema.

Se fossimo nel migliore dei mondi – dei mercati – possibili, dopo il crollo delle quotazioni di Borsa si sarebbe già fatto avanti uno scalatore per impadronirsi della maggiore conglomerata italiana, che ha al suo interno cespiti che, se venduti, potrebbero ripagare i costi della scalata o comunque renderli sopportabili. Ma di scalatori a tutt’oggi non se ne vedono. Sarà perché scalare gli Agnelli sarebbe una “lesa maestà”, sarà perché vendere auto è un mestiere oggi più difficile che in passato e la Fiat, per giunta, avrebbe bisogno di forti capitali per poter sperare di inserirsi fra i gruppi che sopravviveranno alla selezione naturale nel settore dell’auto. Sarà – e magari è il motivo più forte – perché la maggior parte dei capitalisti italiani si è messa solo a staccar bollette, cioè si è orientata verso il settore dei servizi pubblici dove la concorrenza internazionale morde assai di meno. Sarà per questi motivi o per altri ancora, ma insomma dal mercato non arriva nessuno sbocco.

D’altra parte, come molti hanno già osservato, il problema Fiat non è solo un problema occupazionale, anzi: alla fine quello potrebbe essere la cosa meno difficile da risolvere.

Perdere l’industria italiana dell’auto significherebbe non solo uscire da un altro settore industriale (che resta tra i più importanti del mondo), ma anche rinunciare ad un volano per quel che rimane di altri settori che a questa industria sono strettamente collegati. L’auto non è più da tempo una scatola di metallo con dentro un motore a scoppio. E’ un prodotto sofisticato che coinvolge la chimica, l’elettronica e ormai anche l’informatica, la ricerca sui materiali, le tecnologie ambientali, la scienza dell’energia, senza parlare di progettazione e design, di logistica applicata alle necessità di una grande industria, di prodotti finanziari e assicurativi. E’ un prodotto che ha bisogno di ricerca, quindi di cervelli al lavoro. E’ un punto di forza e di coagulo per migliaia di piccole imprese specializzate in prodotti di nicchia, che certo, vendono anche all’estero, ma senza un’industria nazionale non sarebbero mai esistite.

Siamo sicuri che, in nome dell’assunto che è solo il mercato il giudice della sopravvivenza, siamo disposti a rinunciare a tutto questo? Perché è ormai chiaro da tempo che, per come stanno andando le cose, il massimo a cui attualmente si punta è di arrivare al momento in cui sarà possibile vendere Fiat Auto alla General Motors, la quale non avrà mai tra i suoi problemi quello di preoccuparsi di quale impatto possano avere le sue decisioni sull’industria e sull’occupazione italiane.

Si può facilmente controbattere che un intervento assistenziale (se pure le norme europee lo permettessero) sarebbe solo uno spreco di soldi e non farebbe che rinviare la resa dei conti.

Vero. Ma perché un intervento pubblico potrebbe solo essere assistenziale?

In questo caso, lo Stato (o magari le Regioni interessate) dovrebbero agire come quell’imprenditore privato che ancora non si è fatto vivo. Assumere una merchant bank credibile sui mercati internazionali, come la Merril Lynch o simili, che sia in grado di mobilitare capitali; arruolare un top management – non necessariamente italiano - che sia altrettanto credibile e che elabori un piano industriale teso al rilancio dell’azienda e non alla sua vendita; lanciare un’opa su Fiat e poi vendere tutto ciò che non fa parte del core business dell’auto. Nulla vieterebbe un accordo anche preventivo con la famiglia Agnelli che potrebbe essa stessa ricomprare, al giusto prezzo, la parte non-auto del gruppo.

Se il rilancio della Fiat riuscisse, nel giro di una decina d’anni l’azienda potrebbe essere di nuovo completamente privatizzata, e gli azionisti incasserebbero una plusvalenza.

E se invece non riuscisse? Il rischio c’è, ed è elevato, altrimenti qualche raider si sarebbe già fatto vivo. In questo caso lo Stato o le Regioni perderebbero i soldi dei contribuenti senza essere riusciti nello scopo di far sopravvivere l’industria dell’auto in Italia. Ma, se si fosse seguita una logica imprenditoriale, nessuno potrebbe essere in buona fede accusato di aver sprecato risorse in una follia. La Germania ha tre produttori di auto – il maggiore, la Volkswagen, con un’importante presenza del capitale pubblico che l’ha aiutata a superare la pesante crisi dell’inizio degli anni ‘90 – che guadagnano; la Francia due (e anche lì c’e il capitale pubblico di mezzo). Perché l’Italia no?

Venerdì, 6. Dicembre 2002
 

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