Immigrati e integrazione, la lezione delle esperienze europee

Tanto la via dell'assimilazione seguita dalla Francia che quella del multiculturalismo "separatista" del Regno unito hanno mostrato di non funzionare. Tra le soluzioni indicate da Giddens e Amartya Sen, è quest'ultima ad avere più probabilità di successo

Vi è un ampio dibattito oggi in Europa sui temi dell’immigrazione e della crescente eterogeneità etnica delle nostre società. Le ondate di immigrazione stanno profondamente cambiando i connotati dei paesi europei, creando molto spesso seri problemi di coabitazione con gli abitanti “originari”.

 

Le difficoltà di integrazione delle nuove comunità si associano sovente a gravi fatti di violenza e di ordine pubblico. In Gran Bretagna si sono verificati negli anni scorsi gli episodi di crisi più acuta, legati al terrorismo. In Francia la recente esplosione della rivolta nelle banlieu, a due anni di distanza dalla precedente, ci ricorda che il modello di integrazione francese non regge all’impatto con le seconde generazioni di immigrati. In Italia avvengono casi singoli, eppur gravissimi di violenza, come quelli recenti che hanno avuto come protagonisti i rom e si avverte spesso, specie in determinate realtà locali, un sentimento di disagio e di insofferenza da parte degli italiani nei confronti degli extra-comunitari.

 

Immediate sono le ricadute di questa difficile integrazione sulla sicurezza dei cittadini, sul mercato del lavoro e sui sistemi di welfare, tre aspetti che impattano direttamente sul collante sociale che tiene unite le nazioni. E’ in gioco la coesione delle società europee, la quale si fonda sul senso di appartenenza ad una comunità. Condivisione e diversità: questi in sintesi i termini del conflitto. Diventa sempre più difficile convincere la gente a pagare per mantenere sistemi di protezione e sicurezza sociali, che vanno a favore anche di cittadini che non sono sentiti come simili e che a volte si rendono protagonisti di crimini ed episodi delinquenziali.

 

In Italia sono cronaca degli ultimi giorni, mentre il governo discuteva in Parlamento del decreto espulsioni, i provvedimenti restrittivi in materia di immigrazione deliberati da molti sindaci del Veneto e della Lombardia. In attesa di una nuova legge che superi la Bossi-Fini, c’è il rischio nel nostro paese di una deriva xenofoba nelle regioni più avanzate del Nord. Una deriva xenofoba dovuta al coinvolgimento emotivo della gente, in seguito al manifestarsi improvviso di fatti di sangue, e alla mancanza di riflessioni serie su argomenti così importanti.

 

Per avviare una riflessione sull’argomento, vale la pena di cominciare a chiedersi quali siano le proposte che circolano in Europa e le  risposte dei governi europei ai problemi sollevati dall’immigrazione. L’impressione è che il dibattito, che ad esempio si svolge in Inghilterra, viaggi a livelli molto più alti di quelli italiani, non fosse altro per il fatto che quel paese ha una tradizione ben più lunga nell’affrontare questi temi.

 

Al di là delle diverse normative che regolano l’entrata degli extracomunitari, l’accesso al mercato del lavoro e le politiche di cittadinanza, semplificando possiamo dire che sono due i modelli “culturali” prevalenti in materia di integrazione.

 

Un primo modello è quello che punta all’assimilazione della cultura degli immigrati nella cultura dominante del paese. E’ sostanzialmente il modello francese, che però di fatto non ha integrato gli immigrati con i cittadini francesi, ma ha creato due categorie ben distinte, localizzate in quartieri e aree cittadine differenti. Le tensioni via via riaffioranti nelle banlieu sono una prova del malfunzionamento di tale modello.

 

Il secondo modello - prevalente in Gran Bretagna - è quello del multiculturalismo, ossia dell’accettazione delle altre culture accanto alla cultura dominante del paese ospitante. Questo ha portato, ad esempio, in Inghilterra ad aggiungere le scuole confessionali – islamiche, induiste, sikh – alle scuole cristiane. E’ in sostanza la via “federativa” – per usare l’espressione di Amartya Sen, premio Nobel per l’economia 1998 – alla convivenza pacifica e al pluralismo delle culture. Un approccio teoricamente ritenuto da molti come il più democratico e meno conflittuale.

 

Ma in realtà sul multiculturalismo sono sorti, negli ultimi anni, in particolare dopo gli attentati di Londra del 2005, dubbi profondi. Sen per primo, nel suo “Identità e violenza” del 2005, critica il sistema delle scuole confessionali, che impedirebbero agli studenti di sviluppare la loro capacità di ragionare in modo autonomo e di “allargare gli orizzonti della comprensione”. Con scuole e chiese rigidamente separate, le comunità etniche rimangono distinte e non si ha nessuna integrazione. Secondo Sen, identificare le persone umane con la religione cui appartengono è un metodo di eccessiva schematizzazione della persona (egli parla di “miniaturizzazione”), che non consente di cogliere le numerose “sfaccettature”, che invece la compongono.

 

Su una linea ugualmente critica, ma per motivi diversi da quelli di Sen, Anthony Giddens, membro della Camera dei Lord ed ispiratore della “terza via” di Tony Blair, in un articolo su “Repubblica” del 23 novembre scorso, critica le socialdemocrazie europee, in quanto, di fronte all’ascesa del populismo di destra sulla questione dell’immigrazione, non sono riuscite a “sviluppare un’idea progressista di identità nazionale”. “Hanno commesso” – egli prosegue – “l’errore di sostenere che il multiculturalismo doveva prevalere sull’impegno verso il conseguimento degli obiettivi della nazione, mentre, in effetti, è vero il contrario. Un senso della nazione coerente è condizione per politiche che permettano di far funzionare il multiculturalismo.”

 

Entrambe le posizioni negano che la strada dell’integrazione possa passare attraverso il multiculturalismo, almeno nella forma in cui è stato finora inteso.

 

La differenza tra le due posizioni è che probabilmente Sen non crede al concetto, sostenuto da Giddens, di “idea progressista di identità nazionale”. Sen combatte con forza l’identificazione della figura umana con un unico aspetto della sua personalità e invita a considerare ogni persona nella sua vera e complessa identità, fatta di sfaccettature, di aspirazioni, di diritti e di motivazioni che sono alla base dei suoi comportamenti. E’ un’idea al tempo stesso umanistica, in quanto si rivolge all’uomo in quanto tale, e globale, in quanto va oltre, pur tenendone conto, delle radici di partenza di ogni uomo.

 

Giddens invece riassegna allo Stato nazionale quella supremazia minacciata dalla globalizzazione e punta in tal modo a risolvere il problema della coesione sociale. Ma il rischio è che, su questo terreno, egli ritrovi sempre meno adesioni. In realtà, la strada indicata da Giddens finisce con l’approdare al modello francese, con tutti i limiti che esso mostra.

 

Superati i modelli uninazionali e multiculturali, l’unica strada da seguire è probabilmente quella che va nella direzione di creare una cultura comune, nel solco dello spirito indicato da Amartya Sen.  E’ una via irta di ostacoli, che impone grande coraggio e determinazione. Ma la sola che offra la prospettiva di un cammino da percorrere nel segno della tolleranza e della ragione e che rappresenti una valida alternativa ai rischi di deriva xenofoba.

Venerdì, 7. Dicembre 2007
 

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