Il Tfr ai Fondi? Ma allora con meno pasticcci

Non esiste un "versamento dell'azienda": quell'importo è contrattato come costo del lavoro, quindi sono soldi del dipendente e non possono essere condizionati alla destinazione scelta. Inoltre si attua un "opting out" (uscita dal sistema pubblico) implicito, con una serie di conseguenze negative: andrebbe riconosciuto come tale e razionalizzato
Alla notizia della riforma del TFR con inizio posticipato, è obbligatorio riflettere sulle motivazioni di fondo che hanno animato le parti politiche e sociali, causando il ritardo. Tra due anni, queste si ripresenteranno identiche e, se non si sarà in grado di individuare dei punti di riferimento oggettivi, la soluzione di accontentare tutti potrà ancora prevalere, nonostante questo condanni all'immobilismo.
 
La riforma non si è arenata sul dubbio generale se l'avvio del pilastro privato sia o non sia un passaggio da compiersi (qui si dà per acquisito che lo sia, per gli effetti positivi che la diversificazione multipilastro genererebbe a livello sistemico e che si tradurrebbero in benefici per il singolo. Anche se questo non è un punto di vista unanime, si parte da questo presupposto per evidenziare altri elementi critici della riforma). Le difficoltà hanno riguardato due aspetti funzionali specifici: (a) la portabilità o meno del versamento del datore di lavoro, e (b) l'adeguatezza delle compensazioni per le imprese a fronte della fuoriuscita del TFR. Su quest'ultimo punto era stata raggiunta una posizione condivisa tra le parti, benché non esente da critiche; il primo punto, invece, è rimasto insoluto diventando il motivo del rinvio.
 
Proprio a quest'ultimo proposito, è necessario interrogarsi attentamente sulla natura economica del versamento datoriale. Nel corso del dibattito che ha accompagnato il disegno di riforma previdenziale si è dato per scontato che esso fosse un "di più" rispetto al costo del lavoro, configurando una reale partecipazione del datore al finanziamento del programma previdenziale del proprio dipendente. E' un'assunzione aprioristica che non può essere sostenuta e che, rimossa, farebbe drasticamente ridimensionare le motivazioni che hanno causato il rinvio della riforma.
 
Non si può prescindere dalla condizione di "parità del costo del lavoro", altrimenti perderebbe anche ragione di essere l'esigenza di condurre lo smobilizzo del TFR senza oneri per le imprese, considerato che mediamente il versamento al pilastro privato a carico del datore è compreso tra 1 e 1,5 punti percentuali della retribuzione annua lorda, ben più che la stima del costo di smobilizzo del TFR ai correnti tassi di interesse praticati alle imprese.
 
Se si riconosce che il versamento del datore al pilastro privato è componente endogena del costo del lavoro, e che quindi il finanziatore de facto rimane sempre il lavoratore, ne derivano due conseguenze di estrema importanza:
(a) la differenza tra versamento del lavoratore e versamento del datore assume valenza puramente nominalistica (il finanziatore unico è il lavoratore);
(b) la decontribuzione sociale riconosciuta al datore sul suo versamento mette in atto una implicita via di opting-out, cioè di uscita dal welfare-system pubblico.
 
La prima conseguenza deriva dal fatto che il versamento del datore è da intendersi compensato "in busta paga" tramite una minore retribuzione annua lorda. Se il presupposto diviene questo, viene a cadere qualsiasi ragione per caratterizzare diversamente sul piano giuridico i versamenti del lavoratore e del datore e, quindi, anche per dare libera portabilità ai primi, vincolando invece alla permanenza nei Fondi chiusi gli altri.
 
La seconda conseguenza deriva dal fatto che sulla variazione della retribuzione annua lorda, necessaria a mantenere la costanza del costo del lavoro, non sono corrisposti gli ordinari contributi sociali: il datore sconta un'aliquota ridotta cosiddetta di "solidarietà" (il 10 per cento), mentre il lavoratore non è assoggettato a contribuzione poiché il versamento del datore non entra a far parte della sua retribuzione.
 
La seconda conseguenza implica che in Italia è già indirettamente percorribile (a normativa vigente) una trasformazione del welfare-system che avrebbe invece necessità di essere condotta su basi esplicite e di programma: cioè un reindirizzo volontario di risorse dal welfare pubblico a quello privato, tramite la previsione, all'interno delle voci del costo del lavoro, di un versamento al pilastro pensionistico privato formalmente a carico del datore. L'opting-out di cui si sta parlando è ovviamente di proporzioni contenute ma, tenuto conto del livello medio attuale dei versamenti del datore, è di ordine di misura non dissimile, quando espresso in termini di retribuzione annua lorda, da quello delle altre agevolazioni previste per lo smobilizzo del TFR e da quello del costo stesso di smobilizzo del TFR
 
C'è un aspetto che rende questo opting-out "nascosto" ancor più problematico. Infatti, esso non riguarda soltanto le aliquote previdenziali, ma la più ampia contribuzione sociale dedicata al finanziamento anche di prestazioni di natura assistenziale. Si contravviene, in questo modo, a quel positivo principio, cui si sono ispirate tutte le riforme degli anni Novanta, di mantenere distinti i due ambiti di intervento, che hanno caratteristiche diverse soprattutto in termini di impatto redistributivo.
 
E' importante mantenere distinti i due opting-out, quello previdenziale e quello sociale in senso lato: il primo è funzionale alla riallocazione dei contributi del lavoratore  tra pilastro pubblico e pilastro privato, a fronte di un ribilanciamento delle prestazioni pensionistiche erogabili dai due pilastri allo stesso lavoratore; il secondo introduce una possibilità di scelta che mette in discussione le basi universalistiche del finanziamento delle prestazioni assistenziali, per le quali non ci si dovrebbe attendere alcun tipo di necessaria corrispondenza tra contribuente e beneficiario e tra contributi versati e valore dei benefici . Un nodo di questo genere andrebbe sciolto subito, prima che la trasformazione multipilastro si sviluppi su scala ampia.
 
Se ci si mantiene coerenti con la logica dell'endogeneità del costo del lavoro e si decide di rendere esplicito l'opting-out previdenziale, i passaggi di policy potrebbero prevedere:
(a) un unico versamento al pilastro pubblico, sempre volontario, a carico del lavoratore;
(b) la decontribuzione su tale versamento, sia nella parte a carico del lavoratore che del datore, ma limitatamente alle aliquote previdenziali; la decontribuzione potrebbe essere attuata escludendo il versamento dalla retribuzione annua lorda valida ai fini previdenziali, in modo tale che il ridimensionamento delle prestazioni pubbliche interessi tutti i lavoratori, indipendentemente dal criterio di calcolo della pensione pubblica in cui essi rientrano (il "Dini", il vecchio retributivo o quello di transizione).
(c) l'utilizzo della decontribuzione in capo al datore a compensazione dei costi di smobilizzo del TFR , in modo tale da superare completamente questo istituto, senza rendere necessario alcun riferimento postumo al suo funzionamento;
(d) l'utilizzo della decontribuzione in capo al lavoratore a rafforzamento del contributo da lui indirizzato al pilastro privato;
(e) l'integrale devoluzione degli accantonamenti del vecchio TFR alla forma pensionistica privata prescelta dal lavoratore.
 
Una soluzione che seguisse i punti elencati avrebbe diversi pregi. In primo luogo, permetterebbe alle rappresentanze di separare la contrattazione del costo complessivo del lavoro (da attuarsi in "contraddittorio" con i datori) dalla scelta della quota di retribuzione annua lorda da dedicare al pilastro privato (da attuarsi in "collaborazione" con la platea degli iscritti). Si eviterebbero, così, possibili confusioni di obiettivi che potrebbero causare un disallineamento delle scelte delle rappresentanze rispetto agli interessi della base.
 
Essa permetterebbe, inoltre, di evitare il ricorso al prestito bancario agevolato, di dubbia efficacia, non solo per la commistione pubblico-privato che creerebbe, ma anche perché soluzione pro-tempore: non è immaginabile, infatti, una garanzia pubblica rinnovata ad infinitum. Anche qualora lo fosse, la soluzione del prestito rimarrebbe altamente insoddisfacente, perché costringerebbe a continuare a far riferimento a "quello che sarebbe stato il TFR" in assenza di riforma (per  commisurare i prestiti chiamati a sostituirlo).
 
Essa, inoltre, libererebbe dall'irrealistico presupposto (criticato sin dall'inizio) che il supporto al lavoratore, per la creazione della sua pensione privata, possa arrivare dal datore, all'interno di un rapporto ad personam che senza ragione dovrebbe essere sottratto alla logica della contrattazione. L'unica via attraverso cui il lavoratore può ricevere sostegno è attraverso la fiscalità generale (per esempio attraverso le agevolazioni fiscali), l'unico strumento in grado di attuare flussi redistributivi su macroscala, cioè "sganciati" dal singolo rapporto datore-lavoratore.
 
Da questo punto di vista, la soluzione proposta sarebbe anche perfettamente coerente con la finalità del pilastro privato, che non è quella di trasferire risorse dal datore di lavoro al suo dipendente, ma di creare un ponte diretto tra risorse dedicate alla costruzione della pensione, mercati finanziari ed investimenti produttivi, all'interno di gestioni che massimizzino i ritorni sotto gli opportuni vincoli alla rischiosità.
 
L'obiettivo redistributivo (lo si è già detto) è compito del sistema fiscale, e anche di quella sua specifica parte consistente nelle agevolazioni per gli aderenti ai programmi previdenziali privati. Coerentemente con questo, la soluzione prospettata permetterebbe di concentrare le agevolazioni fiscali sul lavoratore, che comparirebbe, anche sul piano formale, come unico finanziatore.
 
Da ultimo, la soluzione rimarrebbe interna alle variabili previdenziali e non inciderebbe sugli equilibri di altri ambiti del welfare system deputati a fornire prestazioni a carattere assistenziale. Si porrebbe in atto un intervento in sé concluso e completo, pronto ad essere di base per altre scelte di ammodernamento ed adeguamento di altri comparti del welfare system.
 
Non ci può esimere da una domanda finale: di fronte a tanti argomenti di validità sostanziale mai dibattuti a fondo, come quelli cui si è accennato, come è possibile che la riforma sia stata rinviata per un disaccordo sulla portabilità del contributo datoriale?


Lunedì, 28. Novembre 2005
 

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