Dopo i tragici attentati di Bruxelles si è discusso
dellincompetenza dei servizi belgi. La cosa non sorprende se si considera che
il paese esalta la sua divisione nazionale e linguistica favorendo la divisione
delle comunità, vivendo senza governo per mesi e anni, o con governi inefficienti.
E indubbio che si debba combattere il
terrorismo con strumenti adeguati al livello della sfida. LItalia al tempo
delle Brigate rosse e la Germania con la Rote Armee ne hanno avuta esperienza.
Ma nel caso dei tragici eventi che colpiscono al cuore lEuropa, nemmeno la riorganizzazione
del fronte della sicurezza interna può essere considerata risolutiva.
Il caso francese che, con un più lungo corteo di vittime, ha preceduto lattacco
di Bruxelles dice che non si tratta solo di intelligence, di servizi, di capacità
di prevenzione e contrasto. O, se si vuole, tutto questo è indispensabile. Ma non
basta. Il terrorismo, a differenza del passato, affonda le radici e ha i centri
di coordinamento in aree lontane. In breve, le radici sono nelle guerre e nella
dissoluzione degli equilibri mediorientali.
La novità è nel fatto che il terrorismo internazionale ha
oggi alle spalle uno Stato, per quanto spurio, dotato di capacità di guida, di
attrazione e di proselitismo soprattutto nelle nuove generazioni che vivono
nelle periferie o nel mezzo di conflitti intestini, dalla Francia alla Libia
allAfrica sub sahariana, fino alle province del nord della Nigeria. Uno stato
per così dire liquido, formato da territori appartenenti a due stati falliti:
lIraq e la Siria di cui lIsis ha cancellato i confini.
Quanti propongono di muovere guerra a questo stato sui generis dimenticano o
ignorano che esso nasce proprio da due guerre fallite che hanno disintegrato i
due Stati sulle cui macerie, dopo una lunga marcia ignorata dalloccidente e
dal corrotto governo di Bagdad, le vecchie élite militari e politiche irachene
hanno gettato le fondamenta di quello che non a caso hanno denominato Stato
islamico dellIraq e della Siria.
Analizzarne lorigine può aiutarci a meglio inquadrare la
situazione presente e le incognite del futuro. La domanda è: come siamo giunti
a questo punto?
Nel 2003 George Bush con ladesione entusiasta di Tony Blair, utilizzando la
falsa teoria dellIraq dotato di armi di distruzione di massa, inaugurò linterminabile
guerra irachena con lo scopo di eliminare
Saddam e impiantare in Iraq la democrazia. O almeno, questo è sempre stato il
pretesto: sappiamo che l'invasione dell'Iraq era stata da tempo programmata in
base alle strategie geopolitiche messe a punto dai think-tank neocon che hanno
guidato le mosse della presidenza Bush.
Lesito, come sappiamo, non è stata la democrazia ma la disintegrazione
dello Stato e il caos.
La parte sunnita che aveva in mano lesercito, lamministrazione e i servizi
segreti, scacciata da Bagdad e dalle città distrutte come Falluja, ha costruito
a metà del decennio lo Stato islamico dellIraq, primo embrione dellIsis
attuale che comprende i territori strappati alla Siria dilaniata dalla guerra. Nel
2013 è matura la nascita del nuovo Stato islamico dellIraq e della Siria che
fa di Raccah, siriana, la sua capitale di fatto, occupando uno spazio che si
calcola esteso quanto la Gran Bretagna con dieci milioni di abitanti, con
grandi centri urbani come Mosul dal lato iracheno e Raccah dal lato siriano.
LOccidente intanto chiudeva gli occhi, avendo come unica mira la liquidazione
del regime di Assad. Mentre il mondo
arabo-sunnita, con al centro l'Arabia saudita e gli emirati del Golfo (e con
l'appoggio di Usa e Turchia) finanziava e armava leterogenea coalizione
anti-Assad, che nei fatti comprendeva anche lIsis. Il caos sotto il cielo
mediorientale, allinsegna della motivazione ipocrita dellesportazione di
quella rara e delicata merce che è la democrazia, non avrebbe potuto essere più
grande e più distruttivo. In realtà il tentativo di destituire il leader
siriano era stato scatenato dal suo rifiuto di un accordo con l'Oman su un
gasdotto che avrebbe facilitato le vendite di emirati e sauditi a scapito della
Russia, seguito da un accordo con l'Iran per una diversa pipeline in contrasto
con quegli interessi.
Non può stupire se al centro del terremoto che scuote il Medio Oriente è ormai la Siria, dove la guerra produce unimmane catastrofe umanitaria. In cinque anni, a partire dal 2011, si calcolano, benché non esistano cifre ufficiai, 500.000 morti.* Intanto, cinque milioni di siriani sono sparsi nel paese come sfollati, essendo state distrutte le loro case. Altri cinque milioni hanno cercato rifugio nei paesi più vicini: più di cinquecentomila in Giordania, oltre un milione in Libano, due milioni e mezzo in Turchia. Le città che ci mostrano (raramente, per ragioni di pudore) i reportage televisivi somigliano tragicamente agli scheletri in frantumi delle città tedesche alla fine della seconda guerra mondiale.
Nel mese di marzo, mentre il Medio Oriente è in fiamme, lUnione
europea divisa quasi su tutto, trova lunità nel dichiarare una guerra di fatto
ai migranti e ai profughi che fuggono dalla guerra, dalle distruzioni e dalla
miseria che da cinque anni attanagliano la Siria. LUE -28 simpegna a versare
sei miliardi di euro alla Turchia di Erdogan, che massacra i curdi e chiude i
giornali dellopposizione, in cambio dellimpegno a riprendersi indietro i
siriani (e anche, se capita, gli afghani e gli iracheni) che, attraversando lo
stretto braccio di mare dellEgeo che li separa dalle isole greche, cercano
rifugio in Europa.
In breve, la civilissima Unione europea delega alla Turchia il compito di
allestire nuovi campi di detenzione nei quali segregare centinaia di migliaia
di migranti e profughi. In altri termini, lUE assolda uno stato mercenario per
bloccare i barbari che ne minacciano le frontiere.
Un accordo, per un verso, giudicato illegale sotto il profilo dei trattati internazionali che stabiliscono i diritti dei migranti e dei profughi; per laltro giudicato indegno di paesi civili da parte delle organizzazioni umanitarie. Ma, a parte tutto, un disegno inefficace al cospetto di masse di uomini donne e bambini che fuggono dalla guerra e dalla miseria, destinati a cercare e trovare altre strade attraverso i Balcani e altre rotte ancora più complicate nel Mediterraneo, sempre più disseminato di tombe.
Lunica novità positiva, questa volta, proviene dagli Stati Uniti, dove Barack Obama prova a chiudere il suo secondo mandato assumendo alcune iniziative dallIran a Cuba che rivoluzionano gli assetti politici e diplomatici internazionali così come li abbiamo conosciuti in questo primo scorcio di secolo.
Obama giunse alla Casa Bianca con limpegno di porre fine alle guerre di
Bush, senza riuscirvi, e ora rischiava di concludere la presidenza finendo nella
trappola di nuovi fronti di guerra in Medio Oriente e nel Nord Africa. Obama vede
nella Siria la possibile riedizione del disastro iracheno, della sciagurata
decisione di Bush di aggredire lIraq scelta che aveva duramente criticato
quando era ancora un senatore dellIllinois.
La trappola aveva minacciato di scattare già nel 2013, quando Assad era stato
accusato di aver usato gas nervini contro gli insorti. Il Pentagono e una parte
importante dei servizi di sicurezza americani chiedevano un intervento armato
immediato. Come al tempo dellIraq era accaduto con Blair, il premier inglese
Cameron insisteva per un attacco immediato contro il governo di Damasco. E François
Hollande scrive Jeffrey Goldberg, autore dell'ormai
famosa intervista a Obama su Atlantic
era colui che fra i leder europei più entusiasticamente spingeva per un
intervento armato. La posizione bellicista degli eredi dei vecchi imperi
coloniali è dura morire.
Nel momento in cui lAmerica deve decidere lapertura di un nuovo fronte
mediorientale, Barack Obama è preso in mezzo alle pressioni interne e a quelle
esplicite europee. Obama, memore della recente avventura libica, sceglie il non
intervento. Nella sua recente intervista ricorda, con un velo di autocritica,
lerrore compiuto con la scelta di attaccare la Libia nel 2011.
Una scelta che aveva avuto in Sarkozy e Cameron (e anche in Hillary Clinton,
allepoca segretaria di Stato) i più convinti fautori. Dalle mail desecretate
della Clinton si è appreso che l'intervento era stato fortissimamente voluto
dal presidente francese per evitare che Gheddafi portasse a termine il suo
piano di creare una moneta nordafricana che sostituisse il franco coloniale, e
anche per avere più spazio nei giacimenti petroliferi libici (a scapito, tra
l'altro, proprio del nostro paese). Era stata una scelta di cui Obama si
sentiva corresponsabile, diretta a eliminare Gheddafi, ma priva di un disegno
strategico sul dopo, col risultato di fare della Libia un nuovo stato fallito
nelle mani di fazioni inconciliabili, di comunità tribali, e, infine, preda dei
militanti dellIsis. Per Obama un errore assolutamente da non ripetere, non
ostante le pressioni interne e linsensatezza dei più bellicosi tra gli stati
europei.
La svolta di Obama diventa chiara col cambiamento di politica verso lIran, nei fatti chiamata a far parte di una coalizione anti-Isis. Una decisione che lArabia saudita, gli emirati del Golfo e più ancora Israele, giudicano un tradimento. Ma per Obama lAmerica non può rimanere imprigionata nella trappola del conflitto fra Arabia Saudita e Iran: La priorità è sconfiggere lIsis, non rovesciare Assad.*
La seconda mossa di Obama sullingarbugliata scacchiera
mediorientale è unintesa di fatto con la Russia di Putin. E un
rivoluzionamento radicale nei rapporti internazionali degli Stati Uniti, lEuropa
oscilla fra lincredulità e la frustrazione.
Nella storia, ancora breve ma intensa del nuovo secolo, lEuropa, con combinazioni
diverse, si è schierata di volta in volta a favore di tutte le guerre nella
polveriera mediorientale, e più recentemente, nordafricana. Sempre con
lintento, più insensato che ambizioso, di portare la democrazia nellIraq di Saddam,
come nella Siria di Assad e nella Libia di Gheddafi. Col risultato di affondare
lEuropa nelle sabbie mobili di tre stati falliti.
Non ostante le novità della politica estera americana,
lUnione europea si muove senza bussola nel ginepraio che dal Medio Oriente
minacciosamente si estende alle coste del Mediterraneo a diretto contatto con
lEuropa. Se lAfghanistan e lIraq sono il lascito velenoso
dellavventuristica politica di George Bush, lapertura del vaso di Pandora
della Siria e della Libia coinvolge direttamente la responsabilità di due stati
Gran Bretagna e Francia che trovano nellUnione europea un sostegno, anche
quando si possono avvertire sotto traccia labili segni di dissenso come in
Germania e confusamente in Italia.
In contrasto con lo stereotipo che evoca la necessità di più Europa, si può ragionevolmente
affermare che lUnione europea compie scelte autolesioniste in tutti i campi
nei quali è chiamata a operare collettivamente: dai fallimenti della risposta
alla crisi economica nelleurozona alle sfide di politica internazionale che si
succedono ai confini dellUnione.
La via duscita dallattuale ginepraio si annuncia sfortunatamente lunga e densa
di rischi. Ma la nuova fase aperta dalla politica americana indica quanto meno la
direzione di marcia. I negoziati di pace di Ginevra sono la prima effettiva
occasione che si offre per fermare la guerra che da cinque anni insanguina la
Siria. Un primo passo significativo, per quanto controverso, rispetto a una
possibile e ragionevole soluzione del conflitto siriano, potrebbe essere
rappresentato dallavvenuta costituzione nel mese di marzo di unentità curda,
che comprende le tre province del nord della Siria, con lobiettivo di
diventare una regione semi-autonoma di uno stato federale siriano. I colloqui
di Ginevra sono fermi alla proposta di una nuova costituzione nel mantenimento
dellunità nazionale. Prospettiva che nessuna delle parti in causa intende
negare con la convinzione difficilmente realizzabile di acquisire una posizione
dominante.
Un editoriale del New York Times**, riflettendo con ogni probabilità posizioni ventilate al vertice dellamministrazione, sostiene che la scelta curda di autonomia condizionata potrebbe essere assunta come un modello di governo decentralizzato nellambito di una Libia federata, aggiungendo che sostanzialmente la Russia ha sposato questa linea in questo caso in contrasto con Assad. La rifondazione dello stato siriano è, in ultima analisi, considerato la sponda per fronteggiare la sfida dellIsis, offrendo alle comunità controllate dallo Stato islamico una prospettiva di autogoverno.
Nessuno può illudersi circa una via duscita facile e ravvicinata. La guerra in atto, fondamentalmente condotta sul terreno dai curdi col sostegno diretto russo e indirettamente americano comincia a dare alcuni risultati importanti. Ma lo scontro armato non può risolvere un conflitto che comprende grandi centri urbani, la cui conquista è impossibile senza il dispiegamento di forze che nessuna delle potenze coinvolte intende mettere in campo. Il ginepraio mediorientale impone lintreccio delliniziativa militare con una prospettiva di soluzione politica. Lintesa russo-americana può mutare la geometria infernale delle guerre mediorientali.
Ma ci vorranno grandi capacità dintelligenza,
immaginazione e impegno per curare le ferite profonde causate dalle più lunghe
guerre dellera moderna. Sarà al tempo stesso difficile esorcizzare la minaccia
del terrorismo. Da questo punto di vista, tutte le misure possibili, finora
irresponsabilmente ignorate o rimaste inapplicate, dovranno essere messe in
atto secondo un normale e ragionevole coordinamento in grado di generare le
indispensabili sinergie di cui ciascuno Stato e tutti insieme dovrebbero
giovarsi.
Ma non ha senso, ed è stupidamente controproducente, dichiarare guerra ai
migranti che fuggono dalla guerra e alle vecchie e nuove generazioni di
islamici che dellestremismo fondamentalista e criminale subiscono le
conseguenze in termini di emarginazione e stigmatizzazione. Il tempo necessario
per estirpare la mala pianta del terrorismo, che in altre epoche abbiamo conosciuto
sotto altre spoglie ma non meno barbariche, potrebbe essere lungo e doloroso.
Ma la soluzione è nel taglio delle radici. Che hanno trovato terreno fertile
per crescere ed espandersi nelle aree lasciate senza controllo col fallimento
degli Stati dallAfganistan alla Libia dove si voleva esportare la
democrazia. O dove si tendeva a difendere, o accaparrarsi sfere dinfluenza
politica e dinteressi economici con lipocrita e tragica illusione
dell'esportazione della democrazia.
__________________
* Jeffrey Goldberg The Obama Doctrine, Atllantic
, April 2016 issue
** The Kurds Push for Self-Rule, International
New York Times 23/3/2016