Il tabù di Israele

La crisi sembra avvitarsi su se stessa e tutti i maggiori protagonisti, dagli Usa all'Unione europea all'Onu, brillano per la loro inerzia. In Italia il dibattito è bloccato dall'impossibilità di criticare lo Stato ebraico senza essere accusati di antisemitismo. Eppure non c'è altra via che ritrovare la strada di una mediazione internazionale
Il fuoco del conflitto israelo-palestinese sta estendendo le sue fiamme a tutto il Medio Oriente. Prima Gaza, poi il Libano, mentre è sotto tiro la Siria e si aggravano i rapporti con l'Iran che Israele considera il principale mandante dell'attacco Hezbollah. Come reagisce la comunità internazionale? Semplicemente non reagisce. Non solo si mostra impotente, ma ciascuno dei possibili interlocutori teorizza la propria impotenza. L'Unione europea si mostra paralizzata in mancanza di una presa di posizione dell'ONU, e il Consiglio di sicurezza è bloccato dalla permanente minaccia di veto degli Stati Uniti, quando si tratta di adottare posizioni che possono contrastare le scelte del governo israeliano.
 
La reazione israeliana al rapimento prima di un suo soldato da parte di Hamas, poi di altri due da parte degli Hezbollah, con centinaia di morti civili, è stata considerata sproporzionata. In effetti, la rappresaglia anche fuori dai propri confini è ammessa dal diritto internazionale se è proporzionale al danno subito. Se non è proporzionata è illegittima. Ma nel dibattito italiano dichiarare illegittima la reazione del governo israeliano non è possibile senza correre il rischio di essere tacciati di antisemitismo. Se Prodi ha rilevato e, sia pure blandamente, criticato la sproporzione della rappresaglia israeliana, due vicedirettori del Corriere della Sera - Magdi Allam e Pierluigi Battista - hanno ammonito nei loro editoriali a non avanzare dubbi sul diritto del governo israeliano ad assumere tutte le misure che ritiene necessarie per difendersi dal terrorismo arabo, sposando così in pieno la posizione di Bush. Ma il problema di una discussione aperta e franca sulla tragedia israelo-palestinese ha dimensioni più vaste. Riguarda tutte le forze politiche, non solo la destra ideologicamente schierata con l'amministrazione americana. Furio Colombo sull'Unità (12 luglio) considera le critiche al governo israeliano frutto di "disinformazione" e un "regalo alla destra". La politica israeliana è un tabù.
 
Il problema non è oggi, così come spesso è accaduto in passato, nella distribuzione dei torti e delle ragioni, ma in una questione più generale, di principio: in breve, se si possa discutere in termini franchi e aperti la politica israeliana.
 
Eppure non è così nella stampa internazionale. Basta sfogliare qualche commento di questi ultimi terribili giorni. Scrive in un editoriale il Financial Times (14 luglio): "La Comunità internazionale, guidata dagli Usa, destituiti ormai di ogni legittimità nel mondo arabo e islamico, ha consentito al conflitto israelo-palestinese di slittare verso un fait accompli a favore di Israele - un'appropriazione di terra che garantirà versamento di sangue per le generazioni a venire". Mentre nessuno dei due contendenti può protestarsi innocente - aggiunge il giornale inglese - " dal momento che Israele e i suoi avversari come Hezbollah hanno insieme usato la presa di ostaggi e gli assassini come strumenti politici…"

Un giudizio duro sulla politica del governo israeliano, col quale si può evidentemente concordare o dissentire, ma senza essere accusati di essere contro Israele e il suo diritto di vivere in sicurezza entro confini negoziati e riconosciuti.
 
Hamas costituisce un problema? Certamente. Ma i conflitti internazionali si sono sempre risolti negoziando con le parti avverse, quando l'obiettivo non era, ammesso che fosse possibile, la sua pura e semplice distruzione. "Quando tutto il fumo delle ultime battaglie si sarà diradato - scrive in un editoriale il New York Times - la miglior cosa che israeliani e palestinesi possano fare è sedersi intorno a un tavolo e tornare a un negoziato". E se non con Hamas, un governo democraticamente eletto, con chi? E' evidente che due parti che negoziano non possono non riconoscersi reciprocamente. Ma i governi europei che in larghissima misura sono convinti della necessità di riprendere il negoziato, non riescono a dirlo e rimangono paralizzati mentre l'incendio si diffonde. Il rifiuto di assumere un ruolo di responsabilità e di mediazione non solo è un segno di impotenza ma è un errore tragico nei confronti di Israele e del suo futuro. Su Haaretz, forse il più autorevole giornale israeliano, scrive Yossi Beilin, già ministro della giustizia del governo israeliano e uno dei principali artefici degli accordi di Oslo, che in tutta la storia recente da Reagan a Clinton, gli Stati Uniti hanno giocato un ruolo teso a creare condizioni di pacificazione, mentre Bush è "quasi totalmente assente… proprio mentre Israele ha bisogno di una forte parte terza".   
 
Ma il tabù non riguarda solo un'efficace strategia per la pace. L'ombra del tabù copre anche i fatti più evidenti accaduti sotto i nostri occhi, prima che l'incendio dilagasse nel Libano. All'origine degli attacchi più recenti e distruttivi nei confronti di Gaza, la giustificazione fornita dal governo israeliano è stata l'uccisione di un colono e il rapimento di un soldato israeliani insieme con i razzi lanciati da gruppi palestinesi sugli insediamenti israeliani. L'Economist definisce questi atti criminali e "stupidi", dal momento che non spostano di un millimetro la condizione palestinese, ma piuttosto l'aggravano, giustificando la prevedibile reazione israeliana.
 
Ma il settimanale inglese, a cui difficilmente si potrebbero attribuire posizioni di principio anti-israeliane, fa seguire a questo giudizio un bilancio scarno quanto tragico dell'attacco alla striscia di Gaza. Nel mese di giugno era questo: da un lato, uccisi nel corso degli scontri due militari e un colono israeliani; dall'altro 42 palestinesi uccisi dai militari israeliani. Quanto ai razzi artigianali palestinesi, hanno provocato la morte di otto israeliani negli ultimi cinque anni. Il confronto non è possibile - scrive il settimanale inglese - col numero di palestinesi assassinati dai missili israeliani. Dopo il rapimento del soldato israeliano, l'esercito israeliano con un'offensiva di terra, mare e aria ha arrestato otto ministri del governo palestinese e 60 funzionari dell'amministrazione; ha distrutto ponti e strade, le centrali elettriche e le principali sedi istituzionali del governo palestinese. Il numero delle case rase al suolo dai bulldozer e i morti provocati dagli attacchi dei carri armati e dai missili non si contano.

Anche Sergio Romano, nella pagina delle "Lettere" del Corriere (11 luglio), avanza cautamente dubbi sul comportamento di Israele che ha preceduto l'attacco Hezbollah: "Israele assedia la striscia di Gaza con operazioni di rappresaglia che coinvolgono direttamente la popolazione civile e tratta i membri del governo e dell'Assemblea legislativa palestinese, eletti dai loro connazionali, come esponenti di un'organizzazione terroristica… e non si accorge di trasformare il terrorismo in resistenza".
 
E' possibile che senza il silenzio e l'ignavia, dettati dal tabù, una mediazione internazionale avrebbe arrestato la marcia verso il disastro annunciato. Si è atteso che l'incendio si estendesse, e ora non si sa come spegnerlo. Il piccolo Libano sta andando in frantumi. Quale sarà la prossima mossa? Bombardare Damasco? E poi Teheran? Alcuni specialisti di cose mediorientali sostengono che Hezbollah è ormai sufficientemente radicato da potersi muovere anche senza l'impulso esterno di Siria e Iran. Rimane il fatto che è ormai in gioco tutta la polveriera mediorientale.
 
Scrive da Gerusalemme Sandro Viola (Repubblica 17 luglio): "Una dura risposta agli attacchi degli Hezbollah andava data. Ma la memoria del passato insegna che le rappresaglie israeliane sono servite a poco o niente. Semmai hanno peggiorato la situazione. Gli Hezbollah non esistevano prima che nell'82 l'esercito di Israele invadesse il Libano. (…) Ammesso che Israele dovesse difendersi impiegando la sua poderosa forza militare resta che il solo uso della forza - senza una ricerca di nuove aperture politiche, senza avere concrete concessioni - ha prodotto soltanto un progressivo, inarrestabile deterioramento del quadro regionale".
 
Ancora una volta non c'è altra possibilità che una forte mediazione internazionale. Ma l'America di Bush vive in una sorta di allucinazione che le impedisce di trovare una via d'uscita dall'Iraq e, probabilmente, vede nei nuovi fuochi del Medio Oriente un modo di annebbiare i suoi tragici fallimenti. Intanto, l'Europa sta a guardare. "Mentre l'ONU -scrive Le Monde - è impotente, rispecchiando la cattiva volontà di tutti".
Martedì, 18. Luglio 2006
 

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