Ivan Pedretti ha concluso la sua vicenda di Segretario generale di SPI (Sindacato pensionati della Cgil) con elezione al suo posto dell’ottima Tania Scacchetti, con un discorso bello e giusto, macchiato da uno svarione davvero grande.
Ha spiegato la sua militanza iniziale in Fiom ed Flm coincidente con la novità dei delegati e Consigli di fabbrica, motivata da una grande spinta e voglia di partecipazione democratica vissuta con uno scontro pesantissimo di “noi ragazzi dei Consigli” eletti su scheda bianca nei riguardi delle Commissioni interne “nominate dai sindacati”.
Avrebbe così partecipato ad una sorta di invenzione della democrazia fino ad allora non praticata dalle e nelle organizzazioni sindacali.
Ma davvero?
Proviamo a citare qualche caso.
La sconfitta di Fiom e Cgil alla Fiat nel 1955 non era perché si trattava di elezioni?
Aris Accornero non era stato eletto nella Commissione interna della Riv per essere poi condannato al reparto confino?
Parliamo della mia terra di Parma.
Le Commissioni interne erano per le aziende con più di 25 dipendenti. Come previsto dagli accordi nelle imprese più piccole si aveva diritto a un delegato d’impresa. Da agosto 1961 (17 anni) all’aprile 1963 lavoro alla filiale Fro (Fabbriche riunite ossigeno). Sono eletto delegato d’impresa; poi passo al sindacato proposto dalla Camera del lavoro.
Alle vetrerie Bormioli c’è la Commissione interna e arriva il tempo per la sua rielezione. Grande discussione per la lista Cgil. Il sindacato forza la mano per promuovere un rinnovamento e si arriva a non ricandidare uno dei cosiddetti “senatori”. Si trova poi il suo nome scritto su decine di schede che vengono naturalmente annullate.
Alla Barilla la Cgil non c’è. Tre persone si iscrivono alla Filziat-Cgil e cominciano a costruire l’organizzazione in fabbrica. I nomi: Miria Casamatti, Pedrelli e Mecatti). Nella Commissione interna non c’è nessuno di Cgil. Casamatti è la capopopolo del reparto confezionamento. Tutte donne. Quando si avvicina il tempo per la rielezione della Commissione interna viene promossa impiegata e dislocata a lavorare (a fare niente) in un ufficietto distaccato. Lei si porta un sacco di carte da studiare e leggere e ogni giorno si reca alla mensa in fabbrica. Viene candidata per gli impiegati fra i quali la Cgil non ha nessun iscritto oltre lei. Viene eletta. Si infuria anche il Direttore dell’Unione industriali, l’ottimo Giorgio Orlandini polemizzando con i capi azienda: con tutta la vostra scienza della selezione prima l’avete assunta e poi promossa fra gli impiegati e questi l’hanno votata.
Alla Salvarani la Fillea-Cgil è forte. Si arriva a negoziare un accordo aziendale quando al Nord è già cominciato il movimento dei Consigli contro le Commissione interne. Si inventa una soluzione così: rielezione della Commissione interna affiancandola con rappresentanti dei reparti più importanti costituendo una struttura unica.
Le differenti esperienze sono migliaia in tutta Italia. Hanno tutte la caratteristica di volere allargare la partecipazione e di essere unitarie; prevale il sistema di voto per reparti (o gruppi omogenei) su scheda bianca. Si arriva nel tempo a normative e sistematizzazioni unitarie.
Se ne discute molto a Bari all’VIII Congresso Cgil (2-7 luglio 1973) e poi si seguita a studiare, rielaborare, dirigere il fenomeno che è componente decisiva del processo di unità sindacale perseguito.
Si decide di analizzare le cose come effettivamente funzionano.
E’ del 15-16 gennaio 1975 un Convegno nazionale Cgil su DELEGATI E CONSIGLI DI FABBRICA E DI ZONA (relazione e conclusioni di Aldo Giunti; tutto nella collana “atti”). Ci si arriva con un lavoro importante e di tipo un poco nuovo. Da giugno 1974 si costituisce un gruppo di ricerca mobilitando alcuni studenti (Anna Maria Ajello, Umberto Gordini, Barbara Pettine, Luisa Rosati, Claudio Treves). Ne sono il coordinatore. Si mettono a punto cinque pagine di schema dell’indagine. Si vuole “fare il punto” sui fatti e le opinioni che costituiscono la realtà. Il risultato è un malloppo di 193 pagine dattiloscritte che viene presentato ad una sorta di seminario svolto ad Ariccia nei giorni 18-19 novembre 1974 in preparazione del convegno previsto per gennaio. Nella relazione da me letta, che è davvero frutto di un lavoro collettivo, si denunciano i ritardi di diversi settori e territori domandandosi “quanto su questo ritardo hanno influito cause derivanti dalla situazione oggettiva di questi settori, come queste cause oggettive si intrecciano con limiti nostri.”
E poi “proprio perché si tratta di conquista permanente dobbiamo guardare con attenzione e preoccupazione a tendenze troppo frequenti a fare dell’assemblea soltanto una sede di ratifica delle decisioni, o soltanto l’occasione per orientare i lavoratori o peggio per fare il comizio. Non minore attenzione va affidata ai fenomeni di burocratizzazione nel rapporto fra esecutivi e consigli e, a loro volta, fra delegati e lavoratori. Sottovalutare questi rischi può significare per il sindacato distruggere con le sue stesse mani la forza che è riuscito a conquistarsi con le lotte e il processo unitario di questi anni.”
Nel testo di Rassegna sindacale (n. 305 del 27 febbraio 1975) si trova questa denuncia ragionando del rapporto tra strutture sindacali e Consigli: “hanno preso piede, fino in certi casi a prevalere, due metodi indubbiamente sbagliati che vanno combattuti:
- Spiattellare alle riunioni ed assemblee una minestra sempre pronta e cucinata in tutti i suoi particolari;
- Far arrivare alla base il dibattito che si svolge dentro i gruppi dirigenti in termini falsati e distorti.
“Se guardiamo alla vita di alcune strutture unitarie, anche dove una sostanziale unità politica è riuscita ad affermarsi, constatiamo un calo nella dialettica e nella discussione. Molti compagni che prima prendevano puntualmente la parola non parlano quasi più. Non hanno forse niente da dire? In realtà non offriamo loro la sede adatta per discutere. Infatti si è deciso, in diverse situazioni, che non si facciano più le riunioni degli organismi e dei compagni della Cgil (lo stesso vale per la Cisl e l’Uil) per portare direttamente il dibattito e le decisioni nelle sedi e negli organismi unitari. Questo è certamente positivo se noi riusciamo a portare nella sede unitaria una dialettica reale, una possibilità di confronto fra le posizioni ed infine una capacità di decisione effettivamente unitaria”.
“Se, invece, il metodo diventa quello di concordare sempre e tutto nelle segreterie per poi presentarsi al Comitato direttivo, all’attivo, al consiglio o all’assemblea sempre con la minestra pronta, allora questo non è un passo avanti, ma un passo indietro, con il risultato che la gente – e spesso la gente più responsabile – non parla per non mettere in questione un accordo unitario che, bene o male, già è stato raggiunto. Questo non significa – ce ne guardiamo bene – che non si devono fare mediazioni e compromessi. Il problema è in realtà di come partecipa, a queste mediazioni e compromessi, il massimo di strutture e di delegati, anche perché questo modo di partecipare alla vita del sindacato è il solo che può formarli per essere, ad un tempo, rappresentanti e dirigenti dei lavoratori.”
Purtroppo le pieghe successive non sono andate per il verso giusto.
(Aldo Amoretti è presidente di Professione in Famiglia)