L'istituzione di una retribuzione minima fissata per legge non avrebbe affatto gli effetti positivi che i suoi sostenitori ipotizzano. Ne avrebbe invece di negativi per i lavoratori, come dimostrano le esperienze dei paesi dove esiste questa norma
Soltanto i distratti (in buona fede) ed i miopi (per vocazione) potevano sostenere che la legge-quadro 14 febbraio 2003, nr. 30 ed il suo decreto applicativo 10 settembre 2003, nr. 276, rappresentassero la completa ed esaustiva trasposizione - in norme di legge - dei principi che avevano ispirato il "Libro Bianco". Penso, ad esempio: alla trasformazione del contratto collettivo nazionale di lavoro in "accordo quadro", al nuovo sistema dei diritti e delle tutele "a geometria variabile" - da disegnare "a cerchi concentrici" - ed ai salari reali "da rapportare alla produttività territoriale", con una più accentuata differenziazione tra Nord e Sud del paese.Tutte ipotesi di lavoro che i sostenitori del provvedimento governativo ritennero opportuno ignorare, sottovalutare o, addirittura, condividere ed avallare, attraverso la loro adesione.
D'altra parte, neanche al momento della pubblicazione del decreto legislativo 276/03, i distratti e i miopi - per restare al paradosso - avvertirono l'esigenza di manifestare la benché minima perplessità rispetto ad un articolato di legge che, per la prima volta nella storia del nostro paese, esordiva affermando il principio secondo il quale i bisogni delle aziende rappresentano "esigenze", mentre quelli dei lavoratori sono da considerare "aspirazioni"! In effetti, la moltiplicazione delle tipologie contrattuali, la consacrazione della flessibilità quale sinonimo di precarietà, la vera e propria contro-riforma del part/time, il superamento delle gerarchie contrattuali, nonché lo snaturamento del ruolo e delle funzioni del sindacato confederale, rappresentavano solo una parte degli obiettivi che gli estensori ed i sostenitori del Libro Bianco si prefiggevano.
Ma qui il tema sul quale vogliamo soffermarci è quello relativo all'ipotesi di adottare anche in Italia un "salario minimo". La premessa indispensabile è che, comunque, si tratta di una discussione ricca di insidie perché la sua (apparente) natura "tecnica" nasconde, in realtà, una serie di pregiudiziali di carattere eminentemente politico. Innanzitutto, si tratta di un tema sul quale la confusione è ricorrente, perché molti parlano contemporaneamente - e, talvolta, indifferentemente - di: salario minimo, reddito minimo, salario o reddito di cittadinanza, salario d'inserimento, smic "alla francese", ecc. E' perciò opportuno precisare che qui intendo fare riferimento a quello strumento che, nelle intenzioni dei suoi sostenitori, dovrebbe rappresentare un equo corrispettivo da corrispondere ai lavoratori, con funzione sostitutiva rispetto agli attuali livelli dei minimi salariali, previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro.
Si tratta, per intenderci, di quel tipo di salario - che trova la sua massima espressione negli Usa (dove, dal 1997 è fermo, a livello federale, a 5,15 $ all'ora; pari a poco meno di 4 Euro!), oltre che nella maggioranza degli altri paesi europei - al di sotto del quale non può andare nessuna remunerazione lavorativa. Esso può essere fissato da una specifica norma di legge (salario minimo legale), oppure avere natura contrattuale (perché definito dalla contrattazione collettiva).
Come si diceva in apertura, si tratta di un tema - già presente nel "Libro Bianco" - rilanciato dai suoi sostenitori come strumento ideale per l'allineamento della legislazione italiana alle normative previste negli altri paesi europei. Ma, a questo riguardo si può rilevare che in Europa non siamo gli unici a non prevedere un salario minimo; siamo, con Austria, Danimarca, Finlandia, Germania e Svezia, in "ottima compagnia". Tra l'altro, l'Osservatorio Europeo sulle Relazioni Industriali (Eiro) sottolinea che, nei paesi in cui prevale la contrattazione settoriale o intersettoriale (come in Italia e in Germania) - con un sistema di relazioni industriali che è essenzialmente a due livelli - la quota di lavoratori coperti da un contratto collettivo di lavoro è più elevata e più stabile nel tempo.
In più, non è marginale il dato relativo al fatto che, laddove, in Europa, il salario minimo è di natura legale - Irlanda, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito e Spagna - esso riguarda, in sostanza, un numero molto contenuto di lavoratori; si va, infatti, da un massimo del 5,5% per il Portogallo ad un minimo di appena lo 0,8% per la Spagna. In una situazione di questo tipo, appare già inopportuno assegnare al salario minimo legale un potere "di svolta" rispetto all'auspicata esigenza di "riallineamento" alle norme vigenti in Europa.
Le questioni più degne di attenzione sono, tuttavia, rappresentate dalle motivazioni addotte da quanti sostengono l'esigenza di adottare il salario minimo legale anche nel nostro paese; tra queste, ancora una volta - come nelle più recenti discussioni relative alla riforma del rapporto di lavoro a tempo indeterminato - appare particolarmente determinata la posizioni espressa da Tito Boeri e dal suo collega Pietro Garibaldi. Il punto più interessante attraverso il quale Boeri ritiene di poter meglio argomentare l'esigenza della predeterminazione legale di un salario minimo, è rappresentato dal convincimento secondo il quale, al fine di proteggere le categorie di lavoratori più a rischio di emarginazione - che, altrimenti, avrebbero come unica alternativa solo il "sommerso" - è indispensabile superare l'attuale condizione della cosiddetta "compressione salariale"; fenomeno dovuto, a suo parere, alla pratica giurisprudenziale che, nel definire il salario equo, fa unicamente riferimento ai livelli minimi indicati dai contratti collettivi nazionali di lavoro. Una volta adottato, il salario minimo legale - inferiore al salario minimo indicato dal contratto collettivo di lavoro - diventerebbe il nuovo punto di riferimento (obbligato) per la giurisprudenza.
Naturalmente, a parere di Boeri, la determinazione di un salario minimo legale sufficientemente basso, andrebbe abbinata a salari differenziati rispetto ai livelli di produttività presenti - anche nell'ambito della stessa azienda - nelle diverse realtà (regionali) territoriali. A questo andrebbe aggiunto "un decisivo" decentramento della contrattazione collettiva, sia territoriale che aziendale. Tra l'altro, l'adozione di un salario minimo legale rappresenterebbe, secondo l'auspicio di Boeri e Garibaldi, un (ulteriore) incentivo per le aziende ad uscire dal "sommerso".Ora, rinviando ad altra occasione uno specifico approfondimento sui motivi che concorrono a determinare gli attuali "differenziali di produttività" tra le diverse regioni italiane - cause che, contrariamente a quanto (probabilmente) pensano Boeri e Garibaldi (e, ufficialmente, denuncia Montezemolo), non sono certo imputabili "tout court" all'incapacità ed al lassismo dei lavoratori meridionali, e che, di conseguenza, non si capisce perché debbano determinare retribuzioni diversificate - è opportuno approfondire gli altri elementi della discussione.
Un punto importante è rappresentato dalla "pratica giurisprudenziale": l'impressione di chi scrive è che si finga di ignorare che mai nessuna giurisprudenza ha (automaticamente) assimilato l'equa retribuzione ai minimi salariali dei contratti collettivi. Anzi, di norma avviene che i giudici - in particolare nelle regioni meridionali - nell'indicare un salario "sufficiente" (ai sensi dell'art. 36 della Costituzione), adottino parametri "al ribasso", nell'ordine del 25-30%, rispetto ai salari minimi previsti dai contratti collettivi nazionali. Ciò, evidentemente, per i sostenitori del salario minimo legale non è ancora sufficiente; probabilmente, il valore di riferimento, in casi del genere, dovrebbe essere rappresentato, piuttosto che dal "costo della vita" - criterio cui, evidentemente, si rifanno i giudici - dai diversi "indici di produttività". E siamo, di nuovo, al precedente punto.
L'altro elemento, altrettanto rilevante, è rappresentato dall'enfasi con la quale Boeri e Garibaldi sostengono che, una volta stabilito un salario minimo legale ("sufficientemente basso"), i lavoratori potrebbero - grazie al contemporaneo (e robusto) decentramento della contrattazione - più facilmente, ed in misura maggiore rispetto a quella attuale, garantirsi migliori condizioni, soprattutto di tipo salariale.
Questo convincimento, ad onor del vero, appare, come minimo, velleitario; se non ingenuo! Infatti, ancora l'Osservatorio europeo delle relazioni industriali (Eiro) certifica che nei paesi in cui prevale la contrattazione aziendale, il grado di copertura contrattuale è più basso e tende a diminuire, come dimostrano il Regno Unito e i nuovi paesi comunitari dell'Europa centro-orientale.
In più, non si può dimenticare che proprio nelle regioni meridionali e nelle zone più depresse del nostro paese, già oggi la contrattazione decentrata ("di secondo livello") - nonostante sia prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro - è quasi del tutto assente. Tra l'altro, questo è il motivo grazie al quale - contrariamente a quanto da molti sostenuto - in Italia esiste già, a parità di prestazioni lavorative, una sostanziale disparità di trattamento retributivo, a svantaggio dei lavoratori meridionali. E' conseguentemente difficile ipotizzare che le controparti datoriali meridionali - una volta rese ancora "più forti" dalla norma di legge (grazie alla istituzione del salario minimo legale) - possano automaticamente convertirsi all'esercizio di una pratica contrattuale tendente alla valorizzazione del salario.
D'altra parte, neanche al momento della pubblicazione del decreto legislativo 276/03, i distratti e i miopi - per restare al paradosso - avvertirono l'esigenza di manifestare la benché minima perplessità rispetto ad un articolato di legge che, per la prima volta nella storia del nostro paese, esordiva affermando il principio secondo il quale i bisogni delle aziende rappresentano "esigenze", mentre quelli dei lavoratori sono da considerare "aspirazioni"! In effetti, la moltiplicazione delle tipologie contrattuali, la consacrazione della flessibilità quale sinonimo di precarietà, la vera e propria contro-riforma del part/time, il superamento delle gerarchie contrattuali, nonché lo snaturamento del ruolo e delle funzioni del sindacato confederale, rappresentavano solo una parte degli obiettivi che gli estensori ed i sostenitori del Libro Bianco si prefiggevano.
Ma qui il tema sul quale vogliamo soffermarci è quello relativo all'ipotesi di adottare anche in Italia un "salario minimo". La premessa indispensabile è che, comunque, si tratta di una discussione ricca di insidie perché la sua (apparente) natura "tecnica" nasconde, in realtà, una serie di pregiudiziali di carattere eminentemente politico. Innanzitutto, si tratta di un tema sul quale la confusione è ricorrente, perché molti parlano contemporaneamente - e, talvolta, indifferentemente - di: salario minimo, reddito minimo, salario o reddito di cittadinanza, salario d'inserimento, smic "alla francese", ecc. E' perciò opportuno precisare che qui intendo fare riferimento a quello strumento che, nelle intenzioni dei suoi sostenitori, dovrebbe rappresentare un equo corrispettivo da corrispondere ai lavoratori, con funzione sostitutiva rispetto agli attuali livelli dei minimi salariali, previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro.
Si tratta, per intenderci, di quel tipo di salario - che trova la sua massima espressione negli Usa (dove, dal 1997 è fermo, a livello federale, a 5,15 $ all'ora; pari a poco meno di 4 Euro!), oltre che nella maggioranza degli altri paesi europei - al di sotto del quale non può andare nessuna remunerazione lavorativa. Esso può essere fissato da una specifica norma di legge (salario minimo legale), oppure avere natura contrattuale (perché definito dalla contrattazione collettiva).
Come si diceva in apertura, si tratta di un tema - già presente nel "Libro Bianco" - rilanciato dai suoi sostenitori come strumento ideale per l'allineamento della legislazione italiana alle normative previste negli altri paesi europei. Ma, a questo riguardo si può rilevare che in Europa non siamo gli unici a non prevedere un salario minimo; siamo, con Austria, Danimarca, Finlandia, Germania e Svezia, in "ottima compagnia". Tra l'altro, l'Osservatorio Europeo sulle Relazioni Industriali (Eiro) sottolinea che, nei paesi in cui prevale la contrattazione settoriale o intersettoriale (come in Italia e in Germania) - con un sistema di relazioni industriali che è essenzialmente a due livelli - la quota di lavoratori coperti da un contratto collettivo di lavoro è più elevata e più stabile nel tempo.
In più, non è marginale il dato relativo al fatto che, laddove, in Europa, il salario minimo è di natura legale - Irlanda, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito e Spagna - esso riguarda, in sostanza, un numero molto contenuto di lavoratori; si va, infatti, da un massimo del 5,5% per il Portogallo ad un minimo di appena lo 0,8% per la Spagna. In una situazione di questo tipo, appare già inopportuno assegnare al salario minimo legale un potere "di svolta" rispetto all'auspicata esigenza di "riallineamento" alle norme vigenti in Europa.
Le questioni più degne di attenzione sono, tuttavia, rappresentate dalle motivazioni addotte da quanti sostengono l'esigenza di adottare il salario minimo legale anche nel nostro paese; tra queste, ancora una volta - come nelle più recenti discussioni relative alla riforma del rapporto di lavoro a tempo indeterminato - appare particolarmente determinata la posizioni espressa da Tito Boeri e dal suo collega Pietro Garibaldi. Il punto più interessante attraverso il quale Boeri ritiene di poter meglio argomentare l'esigenza della predeterminazione legale di un salario minimo, è rappresentato dal convincimento secondo il quale, al fine di proteggere le categorie di lavoratori più a rischio di emarginazione - che, altrimenti, avrebbero come unica alternativa solo il "sommerso" - è indispensabile superare l'attuale condizione della cosiddetta "compressione salariale"; fenomeno dovuto, a suo parere, alla pratica giurisprudenziale che, nel definire il salario equo, fa unicamente riferimento ai livelli minimi indicati dai contratti collettivi nazionali di lavoro. Una volta adottato, il salario minimo legale - inferiore al salario minimo indicato dal contratto collettivo di lavoro - diventerebbe il nuovo punto di riferimento (obbligato) per la giurisprudenza.
Naturalmente, a parere di Boeri, la determinazione di un salario minimo legale sufficientemente basso, andrebbe abbinata a salari differenziati rispetto ai livelli di produttività presenti - anche nell'ambito della stessa azienda - nelle diverse realtà (regionali) territoriali. A questo andrebbe aggiunto "un decisivo" decentramento della contrattazione collettiva, sia territoriale che aziendale. Tra l'altro, l'adozione di un salario minimo legale rappresenterebbe, secondo l'auspicio di Boeri e Garibaldi, un (ulteriore) incentivo per le aziende ad uscire dal "sommerso".Ora, rinviando ad altra occasione uno specifico approfondimento sui motivi che concorrono a determinare gli attuali "differenziali di produttività" tra le diverse regioni italiane - cause che, contrariamente a quanto (probabilmente) pensano Boeri e Garibaldi (e, ufficialmente, denuncia Montezemolo), non sono certo imputabili "tout court" all'incapacità ed al lassismo dei lavoratori meridionali, e che, di conseguenza, non si capisce perché debbano determinare retribuzioni diversificate - è opportuno approfondire gli altri elementi della discussione.
Un punto importante è rappresentato dalla "pratica giurisprudenziale": l'impressione di chi scrive è che si finga di ignorare che mai nessuna giurisprudenza ha (automaticamente) assimilato l'equa retribuzione ai minimi salariali dei contratti collettivi. Anzi, di norma avviene che i giudici - in particolare nelle regioni meridionali - nell'indicare un salario "sufficiente" (ai sensi dell'art. 36 della Costituzione), adottino parametri "al ribasso", nell'ordine del 25-30%, rispetto ai salari minimi previsti dai contratti collettivi nazionali. Ciò, evidentemente, per i sostenitori del salario minimo legale non è ancora sufficiente; probabilmente, il valore di riferimento, in casi del genere, dovrebbe essere rappresentato, piuttosto che dal "costo della vita" - criterio cui, evidentemente, si rifanno i giudici - dai diversi "indici di produttività". E siamo, di nuovo, al precedente punto.
L'altro elemento, altrettanto rilevante, è rappresentato dall'enfasi con la quale Boeri e Garibaldi sostengono che, una volta stabilito un salario minimo legale ("sufficientemente basso"), i lavoratori potrebbero - grazie al contemporaneo (e robusto) decentramento della contrattazione - più facilmente, ed in misura maggiore rispetto a quella attuale, garantirsi migliori condizioni, soprattutto di tipo salariale.
Questo convincimento, ad onor del vero, appare, come minimo, velleitario; se non ingenuo! Infatti, ancora l'Osservatorio europeo delle relazioni industriali (Eiro) certifica che nei paesi in cui prevale la contrattazione aziendale, il grado di copertura contrattuale è più basso e tende a diminuire, come dimostrano il Regno Unito e i nuovi paesi comunitari dell'Europa centro-orientale.
In più, non si può dimenticare che proprio nelle regioni meridionali e nelle zone più depresse del nostro paese, già oggi la contrattazione decentrata ("di secondo livello") - nonostante sia prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro - è quasi del tutto assente. Tra l'altro, questo è il motivo grazie al quale - contrariamente a quanto da molti sostenuto - in Italia esiste già, a parità di prestazioni lavorative, una sostanziale disparità di trattamento retributivo, a svantaggio dei lavoratori meridionali. E' conseguentemente difficile ipotizzare che le controparti datoriali meridionali - una volta rese ancora "più forti" dalla norma di legge (grazie alla istituzione del salario minimo legale) - possano automaticamente convertirsi all'esercizio di una pratica contrattuale tendente alla valorizzazione del salario.
Quanto all'auspicio di Boeri e Garibaldi, secondo i quali la semplice introduzione del salario minimo legale potrebbe (anche) concorrere ad "incentivare" la fuoriuscita delle aziende dal "sistema sommerso", a parere di chi scrive, si tratta di un'altra aspettativa che sarebbe destinata ad essere disattesa. Il tema del lavoro sommerso non è riducibile al costo del lavoro, coinvolgendo complessi aspetti del contesto meridionale: a partire dalle questioni legate alla carenza di infrastrutture, alla insufficienza degli investimenti, alle difficoltà di "accesso al credito", all'inefficienza della pubblica amministrazione, ai fenomeni di macro e micro criminalità. Ma su questo converrà ritornare con maggiore approfondimento. Il salario minimo legale, mentre da una parte non contribuisce alla soluzione del "sommerso", dall'altra può solo privare il sistema di relazioni industriali italiano di alcuni punti fermi, la cui pratica merita di essere migliorata, ma non ribaltata per imitare modelli i cui risultati si sono rivelati palesamente inadeguati sia dal punto di vista dell'equità che della rappresentanza.
(Renato Fioretti è responsabile del Dipartimento Politiche Attive del Lavoro della Cgil Campania)
Martedì, 2. Gennaio 2007