Gli indicatori congiunturali indicano che, a livello internazionale, il fondo è stato toccato e che, a partire dall’estate, si è avviata la ripresa. In particolare, il PMI (Purchasing Manager Index, l’indice che misura il sentiment dei direttori agli acquisti dell’industria e dei servizi) è in crescita un po’ ovunque. Negli Stati Uniti, dove il Pil nel secondo trimestre è diminuito del 9,1% congiunturale, il PMI composito (industria e servizi) ha superato da un paio di mesi quota 50, il valore che separa la fase di contrazione da quella di espansione, con un deciso aumento in agosto (54,7 da 50,3 di luglio). In Cina la produzione industriale è ripartita ancora prima e si sta consolidando su un trend di crescita stabile. Anche il commercio mondiale ha invertito la tendenza negativa, che l’ha visto diminuire nel secondo trimestre del 12,5%, registrando a giugno un rimbalzo del 7,6% rispetto a maggio. Naturalmente occorre molta prudenza prima di lasciarsi andare all’ottimismo. Anche perché non sono ancora ripartiti settori importanti, come il trasporto aereo e il turismo, e incombono i rischi di nuovi lockdown, dato che il Covid-19 non ha certo rallentato la corsa.
Anche nell’area dell’euro, dopo il crollo del Pil nel secondo trimestre del 12,1% sui tre mesi precedenti e del 15% tendenziale, è in corso la ripresa, che però appare meno robusta rispetto a Stati Uniti e Cina. Il PMI composito rimane sopra 50, ma è sceso da 54,9 di luglio a 51,9 di agosto, con differenze rilevanti fra i principali paesi. La Germania è davanti a tutti con un valore di 54,4, seguita dalla Francia con 51,6. Ma, mentre la Germania registra un buon andamento dell’indice sia nell’industria che nei servizi, la Francia rallenta nei servizi, pur restando in territorio positivo, e arranca nell’industria, dove rimane sotto quota 50.
In Italia, dove il Pil nel secondo trimestre è diminuito del 12,8% rispetto al primo trimestre e del 17,7% tendenziale, il PMI composito ad agosto è a 49,5, poco sopra la Spagna (48,4). Sul dato italiano pesa l’andamento del terziario, fermo a 47,1 dal precedente 51,6, mentre l’industria manifatturiera ha raggiunto quota 53,1 da 51,9 di luglio. Il PMI manifatturiero italiano è superiore sia a quello medio dell’eurozona (51,7) sia a quello della Germania (52,2), per non parlare di Spagna (49,9) e Francia (49,8). Sembra quindi che nel nostro Paese l’industria sia in fase di recupero, mentre i servizi ancora stentano. Lo confermano i dati della produzione industriale, che a luglio è cresciuta del 7,4% rispetto a giugno, realizzando il terzo aumento congiunturale consecutivo.
Indicazioni più chiare sulle strategie di ripresa si attendono dalla politica economica. Il governo, che ha finora varato soprattutto dei provvedimenti-tampone, come l’estensione e la proroga della cassa integrazione, deve adesso passare alla fase due, quella della ricostruzione, affidata principalmente agli investimenti pubblici da finanziare grazie ai 209 miliardi del Recovery Fund. Anche il Recovery Fund dovrà però seguire un iter di approvazione e di erogazione degli interventi non semplice e non breve.
In attesa dei fondi europei e in vista della legge di bilancio, la politica economica è chiamata a trovare gli spazi fiscali necessari a supportare il sistema produttivo in questa difficile fase di rilancio. Fino a quando non ripartiranno veramente gli investimenti pubblici, le imprese restano il principale motore della ripresa. L’attenzione deve essere quindi rivolta soprattutto a quelle politiche “orizzontali” che consentano alle imprese di reagire alla crisi non solo sopravvivendo, ma ponendosi su sentieri di sviluppo più avanzati e sostenibili dal punto di vista tecnologico, organizzativo, finanziario, sociale e ambientale.
Le unità produttive sono state profondamente colpite dal lockdown, durante il quale soltanto un terzo delle imprese ha continuato ad operare, in molti casi a ritmo ridotto. Come rileva la nota mensile di maggio-giugno dell’Istat, quasi il 40% delle imprese italiane si è sentita, e probabilmente si sente tuttora, a rischio di sopravvivenza per il crollo del fatturato e i conseguenti problemi di liquidità. Un rischio che aumenta per le imprese più piccole e meno dinamiche. La crisi ha colto le imprese di sorpresa. Oltre un terzo (il 36,5%) non è stato in grado di opporre nessuna strategia e circa il 20% ha reagito predisponendo strategie di riduzione dell’attività. Più di un quarto (il 26,5%) si è dovuta riorganizzare, mentre soltanto il 17% ha intrapreso strategie di espansione dell’attività.
A questi diversi tipi di reazione corrispondono differenti profili di dinamismo delle imprese. Sulla base del Censimento permanente sulle imprese realizzato dall’Istat a fine 2019, le aziende italiane con almeno 10 addetti si possono classificare in cinque diversi livelli di dinamismo, in base alla propensione sia ad investire in tecnologia, digitalizzazione e formazione del personale sia a modernizzare l’organizzazione e i processi produttivi tenendo conto delle esigenze legate alla sostenibilità. Si tratta in totale di 215 mila imprese, che impiegano 9 milioni di addetti (circa il 55% del totale) per un valore aggiunto di 557 miliardi (il 71,4% del totale). E’ bene ricordare che la parte “restante” è formata da ben 4,1 milioni di aziende con meno di 10 addetti, che impiegano 7,5 milioni di persone.
Sulla scorta di tali parametri, il 18% circa delle imprese si può classificare a dinamismo “basso”, oltre il 37% a dinamismo “medio-basso”, il 27,6% a dinamismo “medio”, il 13% a dinamismo “medio-alto” e soltanto il 4% a dinamismo “alto”. Semplificando, il 65% delle imprese con almeno 10 addetti (137 mila unità che impiegano 4,2 milioni di addetti e producono il 40,2% del valore aggiunto) si colloca nella fascia media e medio-bassa. Al di sotto e al di sopra si situano due fasce di imprese quasi equivalenti in termini numerici: le imprese a basso dinamismo (39 mila unità, pari al 18% del totale) e le imprese ad alto e medio-alto dinamismo (oltre 35 mila unità, pari al 17% del totale). Le prime impiegano quasi un milione di addetti e producono il 7% del valore aggiunto, mentre le seconde impiegano 3,8 milioni di addetti e realizzano più di un quarto del valore aggiunto complessivo.
In sostanza, quasi il 20% delle imprese da 10 addetti in su è a rischio chiusura, c’è un’ampia fascia intermedia che sta in mezzo al guado, mentre la parte più competitiva del paese non supera di molto il 15%. Da questa ripartizione derivano due conseguenze per la politica industriale. La prima è quella di orientare gli strumenti di policy in maniera differenziata, tenendo conto delle diverse caratteristiche del tessuto produttivo. La seconda è quella di favorire l’innalzamento del grado di dinamismo complessivo del sistema.
Lo stesso Istat dà indirettamente importanti suggerimenti al policy maker, indicando come il passaggio per ogni impresa al gruppo di dinamismo superiore potrebbe essere la chiave per un significativo avanzamento del sistema produttivo italiano in termini sia di valore aggiunto sia di maggiore “qualità” dei prodotti e dei processi produttivi. I driver di questi “passaggi di fascia” sono indicati, con livelli e intensità diverse a seconda delle imprese, nell’innovazione tecnologica, nella ricerca e sviluppo, nella digitalizzazione, nella formazione, nell’internazionalizzazione, nella finanza. Le difficoltà in termini di upgrading della transizione aumentano con l’innalzarsi della fascia di dinamismo. Ma questo significa anche che il passaggio da un regime di dinamismo medio-basso a un regime di dinamismo medio non richiede ingenti investimenti in innovazione, digitalizzazione, formazione, organizzazione. Richiede invece una maggiore visione strategica da parte dell’imprenditore e spesso una struttura manageriale e finanziaria meno chiusa all’interno del recinto della famiglia e più aperta verso l’esterno. Secondo le elaborazioni dell’Istat, la platea delle imprese che potrebbero fare il salto di categoria, presentando dei parametri non lontani da quelle di profilo superiore, sarebbe di 45 mila unità, rappresentative del 24% dell’occupazione e del valore aggiunto. Un potenziale quindi di tutto rispetto.
Se l’impresa da sola non è in grado di compiere il salto necessario, deve intervenire la politica industriale mettendo a disposizione dell’azienda strumenti finanziari e servizi reali finalizzati alla modernizzazione e allo sviluppo sostenibile. In quest’ottica strumenti che già esistono, come Impresa 4.0, il sostegno alla R&S, all’innovazione e alle start-up, la nuova legge Sabatini, il Fondo centrale di garanzia, vanno rafforzati e ampliati nell’ambito della prossima legge di bilancio. Ulteriori passi avanti devono essere fatti nel concepire incentivi che facilitino la transizione energetica delle imprese e a favore dell’economia circolare. Il tutto deve avvenire entro una cornice organica e in una logica di “personalizzazione” e di adattamento degli strumenti secondo le esigenze specifiche di ciascuna impresa. Senza peraltro dimenticare l’enorme platea delle 4 milioni di microimprese, per le quali vanno disegnati strumenti più semplici e ad hoc, a cominciare dalla semplificazione degli adempimenti amministrativi e dagli sgravi fiscali.