Il reddito di base è possibile e necessario

Non vale la solita obiezione “non ci sono i soldi”: quella che manca è la volontà politica, le risorse si potrebbero trovare anche nei limiti ristretti imposti dalle norme europee. Anche a sinistra, comunque, non tutti sono d’accordo: la contro-prposta è che ciò che bisogna dare a tutti è il lavoro

La proposta di un reddito di base (RB = universale, condizionato esclusivamente alla prova dei mezzi) che permetta di superare la soglia di povertà a tutti i residenti sul territorio della Repubblica, incontra diversi tipi di obiezioni che hanno fin qui portato all’assenza di una misura di questo genere. I surrogati (SIA, ora ReI) non raggiungono che una parte ridotta della platea dei destinatari, come definiti all’inizio, per un importo ancora lontano dalla soglia di povertà assoluta (quella relativa non si intravede nemmeno all’orizzonte). Per caratteristiche, misura e impegno finanziario, anche nella ultima versione Poletti-Gentiloni, siamo relegati al penultimo posto tra i paesi UE, oltre tutto disattendendo il precetto costituzionale (art.38, uscendo dall’equivoco sull’inabilità al lavoro).

Credo che una considerazione seria sul significato di questo primato negativo, strettamente correlato (non solo per le evidenze statistiche ma per banali considerazioni socio-economiche) ai primati negativi nel campo dell’istruzione e della produttività totale dei fattori, imponga di esaminare con più rigore le obiezioni principali che vengono mosse alla proposta.

Quella più comune, usata di primo acchito da tutti i governi successivi al Prodi I (Commissione Onofri, 20 anni or sono) è che “non ci sono i soldi”. La mole infinita di pubblicazioni, studi, atti parlamentari che si sono accumulate nel tempo in merito alle possibili fonti, realistiche, di finanziamento (in particolare nella versione a cui mi sono riferito all’inizio) esimono dal destinare spazio inutile a questo argomento. È del tutto evidente che si tratta di una scelta squisitamente politica attorno alle risorse pubbliche disponibili. Idem dicasi per l’obiezione di quella parte della sinistra che considera il RB finanziabile soltanto nel momento in cui saranno abrogati SixPack, TwoPack, Fiscal Compact, articolo 81 della Costituzione e si sarà posto fine alla politica di austerità di matrice ordoliberista. Pur ritenendo tutti questi obiettivi condivisibili, si deve però dire che le risorse per il finanziamento della misura di cui si tratta sono reperibili anche all’interno dei margini, pur incontestabilmente ristretti, che la politica europea “mainstream” impone all’Italia.

Le scelte di bilancio che si sono succedute in questi anni hanno risposto tutte, anche per quello che riguarda la parte residuale lasciata alla disponibilità del governo nazionale, all’indirizzo dettato dal “pilota automatico” evocato da Draghi, la cui rotta è stata ben definita da qualcuno che appartiene al ristretto numero di fortunati che ne hanno tratto enormi vantaggi: “Non si fa nessuna guerra alla povertà ma si è fatta la guerra ai poveri e i ricchi l’hanno vinta” (Warren Buffett).

Qualche parola in più merita invece l’obiezione che proviene dalla sinistra di tradizione laburista (tradotta con qualche approssimazione in italiano): compito di una società democratica (e di una “Repubblica fondata sul lavoro”) è dare a tutti un lavoro più che un reddito. Si tratta dell’impostazione che ha storicamente dato vita a un welfare che protegge dalla perdita di reddito ma non dall’assenza, se non deriva da quella, ed è finanziato su base mutualistica (indennità di disoccupazione e Cassa Integrazione a cui corrispondono contributi versati dai datori di lavoro). Gli interventi, anche generosi, della fiscalità sono riservati ai soli casi di crisi strutturale in grado di sconvolgere l’equilibrio dei conti ovvero la tenuta sociale di un’intera area geografica. Selezionati perciò in base a discrezionalità politica (nazionale e locale), con conseguenze sotto gli occhi di tutti.

Un primo passo poteva essere rappresentato da un collegamento alla ricerca di lavoro, senza escludere chi non lo ha perso in precedenza, come avviene nella maggior parte dei paesi che hanno un sistema di welfare di impronta socialdemocratica (reddito minimo garantito condizionato alla ricerca attiva di un’occupazione). Oggi quel passo sarebbe del tutto insufficiente non solo per le trasformazioni che ha subito il mercato del lavoro, con un’enorme espansione dell’area degli scoraggiati che vede l’Italia con uno dei rapporti peggiori in Europa tra disoccupati e inattivi in età lavorativa, ma per una debolezza intrinseca dell’impostazione classica socialdemocratica. A cui si aggiunge però, nel nostro Paese, l’assenza di un sistema funzionante di accompagnamento al lavoro.

Dalla fine degli anni Novanta, quando ho cominciato ad occuparmi della riforma degli uffici di collocamento e del decentramento di funzioni alle Province e alle Regioni, prima della riforma del titolo V (e prima della legge Del Rio) mi sono scontrato con il problema dell’arretratezza delle strutture pubbliche deputate al contrasto della disoccupazione. La riforma di allora non ha cambiato gran che, le riforme successive hanno solo aumentato il disordine. Oggi mediano una quota risibile delle assunzioni (3% del totale, 12% di quelle intermediate) e questo è diventato l’argomento principe contro il RB: collegare il sussidio alla ricerca di lavoro (dichiarazione di disponibilità e presa in carico da parte dei Centri per l’impiego) è un’ipocrisia.

Qui sta il punto. È senz’altro un’ipocrisia ma va rovesciato il paradigma: me ne sono proprio convinto in questi 20 anni. L’inattività non è una scelta né una colpa. A parte il caso dei seguaci delle teorie sull’ozio creativo, se ve ne sono, e quelli che rientrano nel novero del disagio (di varia origine), in genere nessun disoccupato è inattivo. Dalle donne ai lavori domestici (non pagati) agli hobby “utili”, al volontariato, ai lavoretti sommersi (o “jobactati”), fino ai lavori in nero totale, spesso richiesti dalla criminalità mafiosa. Se di colpa ha senso parlare, questa va attribuita al mercato.

I teoremi e le teorie dell’equilibrio che si sono imposte nei centri del potere economico-finanziario (e. bisogna dire, nell’accademia: agli appassionati del tema consiglio, se fosse sfuggita, una lectio brevis di Luigi Pasinetti di qualche anno fa, recentemente ripubblicata, si fondavano su presupposti indimostrabili per giungere a conclusioni che sono state per lo più smentite dalla realtà. In ogni caso la storia ci dice che il mercato non solo non garantisce l’equilibrio ma senza un potente intervento pubblico provoca crisi economiche producendo effetti sociali che contraddicono i principi basilari, costituzionali, su cui poggiano le democrazie moderne.

A dimostrazione di questo sta anche la trasformazione in obiettivo desiderabile di un puro concetto matematico statistico come il NAIRU (il tasso di disoccupazione compatibile con una inflazione stabile) al posto della piena occupazione: ammissione di colpa in piena regola. E da anni l’obiettivo della piena occupazione è stato “elevato” al rango di utopia irrealizzabile.

Rovesciare il paradigma significa dunque adottare un RB che non sia vincolato alla ricerca di lavoro da parte del disoccupato ma all’accompagnamento al lavoro da parte del pubblico. Significa investire risorse ingenti (comunque rientranti nei calcoli più accurati sulle coperture) per una campagna di assunzioni di operatori: non amministrativi che “timbrano il libretto” come un tempo o controfirmano la presa in carico (fittizia), né formatori allo sbando in enti speculativi del sottobosco politico-sindacale, ma operatori del sociale, della formazione “Long Life” in tutte le varie forme che il moderno welfare conosce, nonché del tutoraggio nella miriade di laboratori, incubatori e in particolare in quelli dove si sperimentano forme nuove di economia condivisa. E lasciamo pure alla selezione da parte degli interessati (una volta tanto la concorrenza libera) la scrematura tra quelli che producono risultati e quelli che richiederebbero invece accompagnamento a loro volta.

Resterebbe un’ultima obiezione, anch’essa piuttosto frequente, sul rischio che si finisca per sussidiare anche evasori e criminali senza una sufficiente capacità di prevenzione né di sanzione. A chi avanza questa obiezione sottoporrei una considerazione che vale anche per quanti, partendo dal fatto che le condizioni politiche non sono date, ne deducono che si tratta di misure irrealizzabili: quale idea si può avere del futuro del nostro Paese se si ha questa immagine del suo sistema democratico, della sua vitalità e della sua autorità.

Domenica, 8. Ottobre 2017
 

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