Il prof. Giddens e la morte del socialismo

Anthony Giddens, teorico della "Terza via" e consigliere di Blair, dopo aver affermato che la distinzione tra destra e sinistra non ha più senso proclama la morte del socialismo. Ma prima di ripetere le sue lodi al mercato farebbe bene a dare un'occhiata agli ultimi dati dell'ufficio di statistica americano
L'annuncio funebre della morte del socialismo, "Il socialismo è morto ma la sinistra no", fattoci pervenire attraverso le colonne di Repubblica dal prof. Giddens, in una calda giornata di agosto, era per fortuna temperato dall'assunto che la sinistra non è necessariamente condannata allo stesso infausto destino. La sinistra può salvarsi e perfino prosperare - ci informa l'eminente consigliere di Tony Blair e massimo teorico della Terza via - se fa propri i principi del libero mercato. I quali non sono né di destra, né di sinistra, ma la bussola  del progresso economico e sociale.
 
L'affermazione non è nuova e, a forza di ripeterla, dovrebbe apparire auto-evidente. Ma è proprio così? Lasciamo per un momento da parte l'Europa che non è certo considerata dal prof. Giddens un modello di economia liberale. Prendiamo gli Stati Uniti, dove è  fuori discussione la capacità del mercato, libero da fantasie socialiste, di creare ricchezza e progresso.
 
Il Census Bureau di Washington ha pubblicato nel mese di agosto i risultati dell'indagine annuale, riferita al 2005, sulla condizione sociale negli Stati Uniti. Ed ecco i dati essenziali che ci fornisce l'autorevole istituto di statistica americano. Nel 2005 il reddito mediano della famiglia americana (vale a dire, il reddito della la famiglia che si colloca a metà della graduatoria) è cresciuto dell'1,1 per cento. "E' una buona notizia" osserva il Wall Street Journal. Ma subito dopo, con correttezza professionale, il giornale della grande finanza americana aggiunge che l'aumento si verifica "dopo cinque anni di fila di riduzione", che  "il divario fra ricchi e poveri si è ancora allargato nell'ultimo anno, continuando il trend iniziato nei primi anni 70", e che il 20 per cento più ricco della popolazione americana ha incorporato il 50,4 per cento del reddito prodotto nel 2005 che rappresenta "la fetta più larga registrata dal Census Bureau, sin da quando nacque nel 1967". Stiamo parlando di 40 anni di inesorabile allargamento del divario fra ricchi e poveri nel paese dove trionfa la libertà di mercato, e il socialismo, sotto qualsiasi veste, suscita l'orticaria solo a parlarne.
 
Il Census Bureau ci informa, inoltre, che gli americani che vivono sotto la soglia della povertà sono  37 milioni, che diventano 50 milioni, pari al 17,7 per cento della popolazione, se si considera la quota che vive appena oltre la soglia della povertà ufficialmente definita. Commentando questi dati, il New York Times osserva che l'aspetto più inquietante sta nella crescente discesa nella sfera della povertà di fasce tradizionalmente appartenenti al ceto medio, che vede così svanire il "sogno americano".
 
Con la progressiva liquidazione dei sindacati, ridotti ormai a rappresentare meno del dieci per cento dell'occupazione dipendente nel settore privato dell'economia, non solo aumenta la precarietà del lavoro, ma si riducono i salari dei lavoratori stabili a tempo pieno. Sempre nel prosperoso 2005, "il reddito mediano di un lavoratore (a tempo pieno) è diminuito del dell'1,8 per cento e quello di una lavoratrice dell'1,3 per cento". Il prof. Giddens dice: essendo finito il socialismo, provate almeno a salvare la sinistra liberalizzando il mercato del lavoro: "oggi il compito dei governi è quello di favorire un miglior funzionamento dei mercati, di espandere il loro ruolo, piuttosto che ridurlo… "Non ha senso contestare come antioperaia la politica di liberalizzazione del mercato del lavoro". Bene, in America è stato fatto, e i risultati li abbiamo sotto gli occhi. La disuguaglianza è tornata- secondo l'Economist - ai livelli della fine del XIX secolo, e questo è troppo anche per l'autorevole rivista inglese, insospettabile vestale dell'economia di mercato.
 
Disuguaglianze che crescono e ricchezze estreme contribuiscono al cambiamento degli stili di vita. In un elegante e spiritoso articolo nella pagina economica del New York Times, Robert Frank - economista della Cornell University e coautore col nuovo governatore della Federal Reserve, Ben Bernanke, di "Principles of economics" - racconta che la straripante crescita della ricchezza nelle mani di pochi ha fatto tornare di moda gli anni Venti del secolo scorso, gli splendori dell'"età del jazz". E, non senza provocargli un certo imbarazzo, si è trovato a dover tenere una lezione agli studenti della facoltà di economia sul famoso "Grande Gatsby" di F. Scott Fitzgerald, dove si racconta di un giovane e misterioso signore dotato di una stupefacente (sia pure di dubbia origine) ricchezza, eppure destinato a una vita relativamente infelice e a una morte precoce e solitaria. Il romanzo, che non ebbe fortuna quando fu pubblicato con grande delusione dell'autore, è diventato un best seller. Oggi, come negli anni 20, le classi alte (la "Leisure class" di Veblen) vivono in una condizione di tale esuberante ricchezza - scrive Frank - da far tornare di moda nelle ricerche socio-psicologiche il quesito se la ricchezza sia sufficiente a creare la felicità: domanda la cui risposta rimane, tuttavia, ambiguamente sospesa.
 
Dice ancora il prof. Giddens, nella sua orazione funebre sul socialismo, che la sinistra per salvarsi deve abbandonare i vecchi paradigmi statalistici del welfare state per restituire ai cittadini la libertà e la responsabilità  di tutelarsi rispetto ai rischi dell'esistenza: "In un'era di libertà individuali e di aspirazioni sempre maggiori, dobbiamo investire nelle persone per aiutarle ad aiutarsi da sé". Il welfare americano corrisponde fondamentalmente a questo principio di responsabilità individuale. Prendiamo la sanità. L'assistenza pubblica è limitata ai poveri e agli anziani. Tutti gli altri cittadini sono liberi (con o senza il contributo dei datori di lavoro) di assicurarsi privatamente. Ebbene, libertà e responsabilità individuale in contrapposizione ai tradizionali sistemi universalistici delle socialdemocrazie europee forniscono i seguenti risultati. Il numero degli americani  privi di assicurazione sanitaria è in continua crescita: con l'ultimo aumento registrato nel 2005, i cittadini americani privi di qualsiasi forma di assicurazione contro le malattie sono saliti a 46,6 milioni, pari al 16 per cento della popolazione americana.
 
Non trattandosi di poveri o di vecchi, i quali fruiscono della sanità pubblica, il dato riguarda - secondo il Washington Post - circa un quarto di lavoratori giovani e un quinto di lavoratori adulti che hanno un reddito da lavoro pari o superiore al reddito mediano, vale a dire fasce di ceto medio che non possono consentirsi un'assicurazione privata. Tutto questo sarebbe semplicemente scandaloso, dal punto di vista del benessere collettivo, se non si aggiungesse beffardamente il fatto che la sanità (sommata insieme pubblica e privata) costa in America circa il doppio della media europea, attestandosi introno al 15 per cento del reddito nazionale.
 
Ma, indipendentemente dalle disavventure del mercato, delle quali per equanimità bisognerebbe quanto meno affermare che non sono minori di quelle della socialdemocrazia, il prof. Giddens  non crede più alla vecchia divisione fra destra e sinistra. Non a caso il suo saggio più famoso s'intitolò  a metà degli anni 90: "Oltre la destra e la sinistra", aprendo la strada alla "Terza via", intesa come superamento, al tempo stesso, del thatcherismo e della socialdemocrazia.
 
La destra e la sinistra sono ovviamente paradigmi molto larghi e storicamente mutevoli, dentro dei quali albergano ambiguità e contraddizioni, dall'imperturbabile colonialismo di Guy Mollet alla visione progressista del mondo di Olof Palme. Perfino l'amministrazione Bush contiene all'interno concezioni diverse della destra, oscillanti fra un conservatorismo classico e il fondamentalismo ideologico neo-imperiale dei neocon. E non meno eterogenee si presentano a uno sguardo disincantato le attuali  visioni politiche interne alla socialdemocrazia europea o ai governi di centro-sinistra (quello italiano compreso). Ma togliete la distinzione destra-sinistra dalla scena politica e avrete cancellato la politica così come l'abbiamo conosciuta nel corso degli ultimi due secoli. In pratica, la proposta equivale alla fine della politica come prosecuzione della "Fine della storia", che il politologo americano Francis Fukuyama annunciò, con avventata profezia, all'inizio degli anni 90.
 
Ma si tratta di annunci senza fondamento. Diamo uno sguardo al welfare state. Da settanta anni è, in America, al centro di una battaglia incessante fra destra e sinistra. L'assicurazione contro la disoccupazione, l'assistenza ai bambini delle madri single, il sistema pensionistico pubblico furono introdotte col New Deal dopo la grande depressione, e Franklin D.Roosevelt fu accusato dalla destra americana di essere un pericoloso sovversivo con idee socialiste, mentre le sue riforme si scontravano con gli anatemi della ultra-conservatrice Suprema corte di giustizia. Per proseguire nel cammino del welfare bisognò attendere le presidenze di Kennedy e Johnson degli anni 60, quando fu introdotta la sanità pubblica per i poveri e i vecchi nell'ambito del programma della Great Society.
 
Nei 40 anni successivi la destra americana ha cercato in tutti i modi di smontare le riforme che venivano appunto criticate per essere di stampo socialista, contrarie alla libertà e alla responsabilità individuale. Quando Clinton tentò, durante il suo primo mandato presidenziale, di promuovere la riforma sanitaria per farne un diritto universale di cittadinanza, secondo lo schema europeo, il Congresso a maggioranza repubblicana fece miseramente fallire il progetto. Quanto a Bush, un punto centrale del suo programma è stato e rimane la tendenziale privatizzazione della Social Security, il sistema pensionistico pubblico, risalente al New Deal.
 
Ora è di moda portare a esempio la Svezia, come modello di combinazione fra efficienza economica e benessere sociale.  Peccato che il prof. Giddens che ce lo ricorda trascuri di  menzionare il fatto che la Svezia negli ultimi 75 anni è stata retta per 65 da governi socialdemocratici; che una larga parte dell'economia è sotto il controllo statale; che il settore pubblico occupa il 30 per cento della forza lavoro;che il più ampio stato sociale conosciuto è finanziato da un altrettanto alto prelievo fiscale.
Anche quando la sinistra, nella sua versione socialdemocratica, deve acconciarsi alla Grande Coalizione, come attualmente in Germania, la sua influenza continua a condizionare alcuni principi fondamentali dell'organizzazione sociale. E' di queste settimane l'annuncio che la signora Merkel, rispettando il patto stabilito con la SPD e l'impegno assunto verso i sindacati, si accinge a respingere l'annosa richiesta della destra tedesca di ridurre il ruolo della  codeterminazione - la famosa Mitbestimmung - che prevede nei Consigli di sorveglianza delle grandi imprese la presenza paritaria delle rappresentanze dei lavoratori. Si tratta di conquiste sociali che fanno inorridire la destra europea (per non parlare di quella britannica).
 
Sarebbe inutile richiamare alla mente del prof. Giddens questi fatti di cui è perfettamente  al corrente. La sua è una legittima posizione ideologica, ispirata a un neoloiberismo temperato e, per così dire, dal "volto umano". Quando nella seconda metà degli anni 90, elaborò la Terza via, questa nuova frontiera della politica fu accolta con sollievo tra quanti avevano difficoltà a orientarsi in un'Europa afflitta da molti anni di stagnazione e di disoccupazione di massa. Si annunciava come il superamento dell'arcigno thatcherismo e, al tempo stesso, del vecchio laburismo. Il successo di Blair e lo splendore della presidenza di Clinton, assistito dalla New economy, interpretata come il superamento delle ricorrenti crisi cicliche del capitalismo, sembrarono dare una conferma fattuale alla nuova teoria politica. Poi, al volgere del secolo, le cose sono rapidamente cambiate con l'avvento della destra neocon in America e la progressiva eclissi di Blair aggravata dalla disavventura irachena. La destra americana al governo ha causato con Bush junior incalcolabili danni alla stessa America. Mentre la stella di Blair è offuscata in Europa. Ma questi fatti non hanno minimamente scalfito le convinzioni di Giddens, sociologo reso famoso, molto prima della ricorrente scoperta della Terza via, dall'acuta osservazione dei cambiamenti sociali e degli stili di vita di fine secolo.
 
Detto questo, va, tuttavia, riconosciuto al vecchio direttore della prestigiosa London School of Economics il merito di presentare le sue tesi senza ambigui velami, con trasparente e provocatoria chiarezza. Non altrettanto si può dire dei suoi molti cultori sparsi nella sinistra italiana, quando spacciano per "riformismo" di sinistra un più o meno malcompreso americanismo e un neoliberismo mascherato da buone intenzioni. Ma questo è un altro discorso, e meriterebbe di essere affrontato, per capirne di più, quando si parla della costruzione di un futuro (e sconsolatamente vago) Partito democratico.
Lunedì, 4. Settembre 2006
 

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