Il presidente che zittisce il Parlamento

Le Camere non possono dare indirizzi al governo, quando si tratti di una “scelta operativa”. Questo dice il comunicato del Consiglio supremo di difesa, pubblicato sul sito del Quirinale. Dal punto di vista formale questa tesi si potrebbe discutere, ma da quello sostanziale è l’ennesima forzatura che, se accettata, sminuirebbe il ruolo del Parlamento rispetto a presidente e governo

“(…)fermo restando che, nel quadro di un rapporto fiduciario che non può che essere fondato sul riconoscimento dei rispettivi distinti ruoli, tale facoltà del Parlamento non può tradursi in un diritto di veto su decisioni operative e provvedimenti tecnici che, per loro natura, rientrano tra le responsabilità costituzionali dell'Esecutivo”. Questa frase è contenuta nella relazione sulla riunione del Consiglio supremo di difesa pubblicata sul sito del Quirinale (com’è noto, il Consiglio è presieduto dal presidente della Repubblica). Si parla, pur senza nominarlo esplicitamente, dell’acquisto degli F35, riguardo al quale il Parlamento ha approvato una mozione della maggioranza secondo la quale si impegnava il governo a “non procedere a nessuna fase di ulteriore acquisizione senza che il Parlamento si sia espresso nel merito”. La mozione ha una storia tormentata (chi vuole può leggerne una cronaca qui), ma in sostanza bloccava a 14 aerei (quelli per cui già si sono sottoscritti i contratti) sui 90 previsti, mettendo in forse la decisione sugli altri. Il comunicato pubblicato dal Quirinale – prima ancora che fosse diffuso dalla agenzie – afferma però che quella mozione è carta straccia, perché il Parlamento non deve impicciarsi di decisioni che spettano al governo.

 

Si tratta di una affermazione certamente inusitata, e stupisce il poco rilievo che i mezzi di informazione abbiano attribuito alla vicenda. Intendiamoci, prima di adottare un frasario alla Grillo, tipo “golpe strisciante”, la strada è ancora molto lunga. Il nostro sistema istituzionale prevede numerosi strumenti che potrebbero riaffermare la sovranità del Parlamento anche in un caso di questo genere. Il primo e più ovvio è che il Parlamento in qualsiasi momento può sfiduciare il governo, affermando così che le sue supposte “prerogative” le ha esercitate male, o comunque in disaccordo con la maggioranza che lo sostiene. Certo, far cadere il governo in questa situazione non è una decisione da prendere a cuor leggero e produrrebbe una serie di altre conseguenze in gran parte poco prevedibili, ma comunque la possibilità esiste. Oppure si potrebbe sollevare un conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale. Oppure ancora, il Parlamento potrebbe tagliare i fondi alla Difesa: si tratterebbe di un atto di guerriglia nei confronti del governo che è del tutto improbabile, ma ciononostante rientra nel novero delle cose possibili. Insomma, se il governo esagera i modi istituzionali per frenarlo ci sono.

 

Questo però non toglie rilievo a quello che è accaduto. Un organismo governativo, seppure di rango costituzionale (art. 87) e presieduto dal presidente della Repubblica, rivendica il diritto di decidere eventualmente in contrasto con le decisioni parlamentari. La motivazione è che si tratta di una “scelta operativa”, dunque di competenza dell’esecutivo, e per questo il Parlamento non avrebbe su di essa un “diritto di veto”. D’altra parte però il Parlamento ha funzione di indirizzo politico, che esprime appunto con mozioni, ordini del giorno, risoluzioni. Insomma, dal punto di vista strettamente tecnico-istituzionale la cosa è discutibile. Non lo è, invece, dal punto di vista sostanziale: nel momento in cui una larga maggioranza parlamentare esprime un parere su un problema, il fatto che un organismo presidenziale-governativo dichiari preventivamente che non ha titolo per farlo costituisce una evidente forzatura, prefigurando una prevalenza di quell’organismo sul Parlamento, con una sorta di “censura preventiva”. Il governo avrebbe semmai un’altra strada, più rispettosa del ruolo delle Camere: nel momento di assumere la decisione controversa presenti il provvedimento e su di esso ponga la questione di fiducia.

 

L’atto del presidente Napolitano, dei ministri e dei generali presenti nel Consiglio supremo appare invece un tentativo di svolta nella “Costituzione materiale”, nel senso di un decisionismo di cui l’attuale inquilino del Quirinale ha già dato prova più volte, stressando i limiti delle sue prerogative, con l’acquiescenza – del resto – dei partiti e delle forze parlamentari. A cominciare dall’abbandono di Berlusconi della guida del governo, quando fu evitato un voto formale di sfiducia che – in quel momento era praticamente certo – avrebbe dato lo stesso esito ma con una procedura più corretta; proseguendo con il pilotaggio della sua successione; con il rifiuto, dopo le elezioni, di conferire un incarico pieno al leader della coalizione con il maggior numero di rappresentanti, perseguendo la prospettiva, poi concretizzatasi, della formazione di un governo di larghe intese. Un governo che sta dando una prova dopo l’altra di essere debole e inadeguato al compito che dovrebbe svolgere.

 

Nei programma di questo governo c’è tra l’altro una riforma costituzionale che cambierebbe radicalmente la forma istituzionale dell’Italia, istituendo il semi-presidenzialismo. E’ probabile – e per quanto ci riguarda lo speriamo vivamente – che questa riforma non arrivi a buon fine. In ogni caso è al di là da venire, e finché non sarà approvata la centralità del Parlamento nella vita politica del paese non deve essere messa in discussione. La parola passa ora ai deputati e ai senatori. Sta a loro decidere se incassare senza reagire lo schiaffo del Consiglio supremo (e del Quirinale) o ristabilire la sovranità del Parlamento anche in merito ai problemi di cui ritiene lecito occuparsi.

Giovedì, 4. Luglio 2013
 

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