Il piano Colao: quanto è politico quel tecnico

Per le imprese sussidi a pioggia, scudi penali, detassazioni, sanatorie, condoni. Per i lavoratori solo riduzioni delle già scarse garanzie. La logica è quella dell’ideologia neoliberista, e infatti è piaciuta alla Confindustria e alle destre, mentre il governo per fortuna è rimasto freddo

Iniziative per il rilancio: “Italia 2020/2022”, il documento prodotto dalla Commissione Colao - cui il Premier Conte aveva affidato l’incarico di redigere le linee programmatiche per la “ricostruzione” del Paese, dopo l’emergenza Covid-19 - rappresenta l’ennesima conferma del principio secondo il quale non esiste alcuna “tecnica” da potersi definire asettica ed imparziale.

Esistono modalità diverse attraverso le quali osservare la realtà e altrettanti strumenti per produrre analisi e numeri a supporto di eventuali proposte; ma ciò avviene sempre - a mio parere - in ossequio a una logica “di parte”; cui corrispondono, comunque, interessi di carattere eminentemente politico.

In questo senso, considero oltremodo appropriata l’analogia - che qualcuno avverte - esistente tra la task force presieduta dall’ex amministratore delegato di Vodafone e quel “CIR” (Comitato interministeriale della ricostruzione1) istituito al fine di elaborare le linee guida per la ripresa economica e sociale dell’Italia del secondo dopoguerra.

Quegli anni, infatti, tra la politica di moderazione salariale promossa dalla Dc e la cocente sconfitta del Fronte democratico popolare (comunisti e socialisti) alle elezioni politiche del 1948, videro l’affermarsi del blocco centrista e l’isolamento del movimento operaio nelle fabbriche, nelle campagne, nel paese2.

Opero questo parallelo poiché, come tenterò di dimostrare, il combinato disposto tra il contenuto dei testi elaborati dal gruppo di esperti presieduto da Colao e le cose di cui, a mio avviso, si avverte la mancanza, ha finito con il produrre una proposta che, complessivamente, pare ripropone il classico schema liberista affermatosi negli ultimi anni nel nostro Paese: un capitalismo che guarda alla rendita e alla finanza piuttosto che all’innovazione e agli investimenti; al (sempre più esasperato) contenimento del costo del lavoro piuttosto che alla crescita dimensionale delle aziende e professionale dei lavoratori.

Ma come si rilancia l’Italia?

La strategia elaborata per “Un’Italia più forte, resiliente ed equa” prevede sei grandi aree di intervento: Imprese e lavoro; Infrastrutture e ambiente; Turismo, arte e cultura; Pubblica amministrazione; Istruzione, ricerca e competenze; Individui e famiglie.

Naturalmente, lo spazio disponibile e, soprattutto, la pazienza del lettore, non consentono una disamina completa delle 53 pagine del Rapporto e delle 121 dedicate alle schede; mi limiterò a esporre qualche considerazione di merito rispetto ad alcuni importanti temi; con particolare attenzione al primo capitolo che, personalmente, considero meritevole di particolare approfondimento.

A onore del vero, l’incipit non è proprio confortante. Si prevede, infatti, di escludere il contagio Covid-19 dalla responsabilità penale del datore di lavoro per le imprese non sanitarie e questo nel Paese in cui, prima dell’attuale pandemia, si registrava una media di oltre tre morti sul lavoro per ciascuna giornata lavorativa, non pare rappresentare un bell’esordio ai fini di una “rinascita”.

Assolutamente irricevibile la richiesta di una deroga, seppure temporanea, ai limiti di durata massima dei contratti di lavoro a tempo determinato previsti dall’ex decreto Dignità del 2018.

Non condivisibile, invece, il mix di meccanismi di premialità e sanatoria (fiscale e contribuiva) per le aziende con lavoratori “in nero”; soprattutto se in totale assenza di provvedimenti (dissuasivi, di controllo e di contrasto) tesi a contrastare un fenomeno dalle proporzioni vastissime.

Non sorprende la proposta di dotare le aziende di uno “scudo penale” in caso di reati di natura fiscale. Oggi, in effetti, a fronte di irregolarità fiscali, le aziende sono sottoposte anche a un’azione di carattere penale. L’ipotesi Colao prevede, invece, che in caso di future contestazioni non scatterebbero più le sanzioni penali.

Ciò che però appare insopportabile e, a mio parere, inficia alla base il lavoro della Commissione - compromettendone la credibilità - è la rituale previsione di un nuovo condono.

Per l’occasione, la task force di Colao ricorre all’ennesimo inglesismo - voluntary disclosure - per proporre, in sostanza, una sanatoria sull’emersione del contante (con benefici premiali in ambito penale) e altri valori derivanti da redditi non dichiarati (anche se connessi al lavoro nero).

Il tutto a fronte del pagamento di un’imposta sostitutiva e dell’impiego di una parte dell’emerso in attività funzionali alla ripresa3.

Naturalmente, come prevedibile, da parte di un gruppo di lavoro “tecnico” presieduto da un noto manager privato, alle suddette ipotesi va aggiunta una serie di interventi - dal rinvio delle imposte 2019 e acconto 2020 alle agevolazioni “a pioggia” a favore di settori produttivi diversi - votati quasi esclusivamente a soddisfare le esigenze delle imprese.

Manca, a mio avviso, qualsivoglia riferimento (ed interesse) a problemi fondamentali del mondo del lavoro oggi in Italia.

Un Paese nel quale la flessibilità è divenuta sinonimo - irreversibile - di precarietà, con salari reali tra i più bassi dell’Ue, con filiere inestricabili di appalti e sub-appalti e, dulcis in fundo, con un crescente numero di “working poors4”.

Un’Italia, in definitiva, che sembrerebbe voler “ripartire” dimenticando milioni di connazionali in condizioni di grave handicap socio-economico; con il concreto rischio che le ricette proposte ne acuiscano il disagio. In particolare, dal punto di vista dei diritti e delle tutele (a partire da quelle previste sui luoghi di lavoro).

Naturalmente, a valle di una pandemia che ha sconvolto l’intera economia del mondo, sarebbe da irresponsabili contestare che, in uno stato di diritto, ci si ponga il problema di mettere in atto tutte le misure possibili per cercare di sostenere la ripresa economica delle imprese; delle medio-piccole al pari delle grandi. Il punto è, però, che le proposte di cui alla Commissione Colao paiono essere indirizzate in un’unica direzione.

Mancano, a mio parere, concrete ipotesi per sostenere anche, se non soprattutto, le condizioni economiche e normative di milioni di lavoratori subordinati, para-subordinati, “partite Iva”, iper/flessibili (perché precari) e a “rischio povertà”; tutti soggetti che corrono il concreto rischio di essere sacrificati in nome di un fantomatico “mercato” che, quando necessario, ripropone l’idea liberista con lo Stato al servizio del privato.

Concludo rilevando che, almeno personalmente, non so se ai componenti la task force di Colao fossero state impartite delle direttive particolari o se lasciati liberi di operare in assoluta autonomia.

Sottolineo che, dalle prime reazioni politiche, “Italia 2020/2022” non pare avere suscitato particolare entusiasmo a Palazzo Chigi.

Contemporaneamente, al sostanziale “assordante” silenzio di Conte ha corrisposto il plauso da parte del famigerato duo Salvini/Renzi e questo, in effetti, già rappresenta un soddisfacente motivo di cauto ottimismo.

NOTE

1)     Istituito nel gennaio 1945 e presieduto da Meucci Ruini; già Ministro nel governo Parri

2)    Fonte “Basta salari da fame”, di Marta e Simone Fana; Ed: Tempi nuovi

3)    L’imposta prevista è tra il 10 e il 15 per cento e la quota da impegnare, per almeno 5 anni, tra il 40 e il 60 per cento di quanto “emerso”

4)    “Lavoratori poveri”; cioè coloro che, pur avendo un’occupazione, si trovano a rischio di povertà e di esclusione sociale

Domenica, 14. Giugno 2020
 

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