Il pessimismo triste di Dahrendorf

L'Europa è destinata al declino, afferma il filosofo tedesco, se continuerà a rifiutare il capitalismo liberista per inseguire un modello che forse neanche esiste, ma è comunque troppo costoso nella nuova economia globalizzata. Ma prima di ripetere una serie di luoghi comuni cari alla destra avrebbe dovuto ricordarsi di alcuni incontestabili dati di fatto
Per Ralf Dahrendorf l'ostinato rifiuto tedesco di un capitalismo liberista è espressione di un pessimismo culturale, foriero di sciagura non solo per la stessa Germania, ma per tutta quella parte dell'Europa, che rimane romanticamente legata all'idea di un modello sociale che non vuol fare i conti con le leggi della globalizzazione. In verità, Dahrendorf  sulla Repubblica (21 luglio) pone una questione intrigante, quando chiede se poi esiste davvero questo tanto sbandierato modello sociale europeo. Esiste veramente o è solo una romantica fantasticheria? Il modello sociale europeo è un paradigma che, guardato da vicino, si frantuma in mille forme e colori, come in un caleidoscopio. Chi può ricomporre in un'unica tela cose così diverse come il sistema di protezione svedese, con quello francese, italiano o portoghese? Il modello appare sicuramente troppo vario per essere ricondotto a una chiara e distinta unità.
 
Eppure, non ostante tutte le articolazioni, se vi trovate a Washington e vi capita di citare il modello sociale europeo, come termine di paragone con quello americano o giapponese, nessuno avrà l'aria di stupirsi. Per un americano è chiara la differenza fra un mondo dove un lavoratore può essere licenziato ad libitum, da un giorno all'altro, come appunto è la regola negli Stati Uniti, e la "vecchia" Europa, paese dove i licenziamenti sono in un modo o nell'altro regolati da leggi e contratti. Come evidente appare al nostro interlocutore americano la differenza fra un sistema sanitario universale e uno che discrimina 45 milioni di cittadini, privi di assicurazione, come appunto accade nel suo paese. O anche un sistema dove la libertà di associazione a un sindacato è un diritto individuale e un paese come gli Stati Uniti, dove la procedura per costituire un sindacato è così complessa e proibitiva che da venti anni il sindacalismo americano non riesce a mettere piede dentro Wal-Mart, la più grande impresa commerciale del pianeta con oltre un milione di lavoratori. Per chi si occupa di questioni sociali in America, il modello sociale europeo esiste, eccome! Che poi sia giusto o sbagliato, in grado di durare o destinato a una lenta ma inesorabile estinzione è una valutazione diversa, in larga misura legata a una certa visione del mondo.
 
Ma, appunto questo dell'immancabile deperimento del  modello sociale europeo, è l'altro argomento di Dahrendorf. Un deperimento determinato dalla sua insostenibile voracità, dalla bulimia che ne rende inarrestabili i costi. Si tratta di un convincimento tanto diffuso, da apparire quasi indiscutibile. Ma è un convincimento fondato? Negli ultimi dieci anni, la media della spesa sociale dell'Unione europea è rimasta ferma intorno al 27 per cento del reddito nazionale. La popolazione invecchia - si obietta - e crescerà la spesa sanitaria. E' possibile. Ma intanto costatiamo che la spesa media per la sanità in Europa è dell'8 per cento del PIL, negli Usa (dove il sistema è in prevalenza privato) la spesa è del 14 per cento.
 
Ma l'argomento più insidioso contro il modello di protezione sociale europeo è, nel ragionamento di Dahrendorf, quello della globalizzazione. Potete veramente pensare che il modello sociale europeo nel quale il lavoro continua a essere circondato da quell'insieme di tutele che riflettono ancora i fantasmi di Bismark e Beveridge possano reggere la sfida della competitività dei mercati globali? Di fronte a questa ricorrente e quasi intimidatoria domanda la risposta si mostra, di primo acchito, negativa e senza possibilità di scampo.
 
Eppure, qualche modesto dubbio può essere sollevato. La Germania, da dove il discorso di Dahrendorf prende le mosse per denunciarne il pericoloso attaccamento al passato, è il paese industriale a più alta competitività nel mondo, la sua bilancia commerciale è perennemente attiva. Il contrasto non potrebbe essere più profondo con gli stati Uniti, che accumulano di anno in anno uno stratosferico disavanzo commerciale che, finora, non è esploso solo perché la Cina è disposta ad ammassare enormi quantità del debito estero americano denominato in dollari. La Germania è la dimostrazione che un alto grado di protezione sociale non contraddice un'elevata competitività nei mercati globali.
 
Il modello sociale europeo - prosegue il discorso - è destinato a fallire a causa del suo costo che devasta i bilanci pubblici e contribuisce a creare disoccupazione. E' così? Il modello sociale svedese che è il più "sfacciatamente" rappresentativo del famoso modello di protezione sociale "dalla culla alla tomba" dimostra il contrario. La Svezia ha il più alto tasso di tassazione e, insieme, il più elevato livello di occupazione (maschile e femminile) dei paesi dell'OCSE, un sistema di welfare senza paragoni e, al tempo stesso, esibisce un bilancio pubblico con un avanzo costante intorno al 2 per cento del PIL (oltre a una stupefacente capacità di competere nei mercati globali).
 
Significa che l'Europa è il paese di Bengodi, destinato a vivere senza problemi e senza ansia per il futuro? Certamente no. L'Unione europea cresce poco, presenta regioni come il Mezzogiorno italiano e i lander dell'est tedesco, con livelli intollerabili di disoccupati. Ma questo non ha niente a che vedere col modello sociale europeo, con i costi del welfare, con le rigidità del mercato del lavoro. I costi del welfare sono fermi. La rigidità del mercato del lavoro è una fandonia convenzionale, se si guarda alle flessibilità dell'organizzazione del lavoro che i sindacati hanno negoziato da vent'anni a questa parte e alle flessibilità (spesso ridondanti e perfino dannose per le aziende) del mercato del lavoro. Bisognerebbe interrogarsi sulle insufficienze e gli errori delle politiche economiche nazionali e dell'Unione europea, ma questo è un altro discorso, e Dahrendorf non lo sfiora nemmeno.
 
Insomma, da una mente solitamente lucida e brillante, come quella di Ralf Dahrendorf, ci si aspetterebbe qualcosa di più di un'analisi così malinconicamente convenzionale sui mali reali che affliggono l'Europa, offuscando quelli, per molti aspetti più gravi, che segnano l'apparentemente trionfale modello neoliberista.
 
Venerdì, 22. Luglio 2005
 

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