Il Pd s’innamora del part-time

Presentato da alcuni parlamentari un disegno di legge che dovrebbe estendere, anche con sgravi fiscali, questa forma di lavoro, che nella pubblica amministrazione diventerebbe addirittura la norma. Ma, a differenza delle esperienze condotte in Francia e Germania sulle riduzioni di orario, qui di vantaggi per i lavoratori non se ne vedono proprio

Anche i più inguaribili ottimisti, ormai convinti che la lunga e tormentata fase involutiva dell’ex Pci (già Pds e poi Ds) fosse definitivamente conclusa con l’approdo al Pd (quel partito il cui primo Segretario si vantava di non essere mai stato comunista e, chissà perché - mentendo - di non avere mai varcato la famigerata “Cortina di ferro”), dovrebbero, mestamente, ricredersi.

Prendere atto, quindi, che l’alleanza nata nel 2007 non rappresentò - come qualcuno, erroneamente, sosteneva - una “fusione a freddo”, ma solo un altro “step” nella marcia di avvicinamento all’ennesima formazione politica cui oggi, realisticamente, andrebbe attribuito l’acronimo PdcD (Partito di centroDestra). E l’assenza del - non è un refuso!

Non può essere considerato altrimenti un partito capace di fare apparire “di sinistra”, se non addirittura rivoluzionaria, la proposta della rappresentante del M5S che, in qualità di attuale ministra[1]delLavoro, ha ipotizzato - in considerazione della crisi innescata dal Covid/19 - una misura “a tempo” di riduzione generalizzata dell’orario di lavoro (senza alcuna riduzione di salario).

In estrema sintesi, se la proposta della Catalfo dovesse concretizzarsi si realizzerebbe, in sostanza, una riduzione delle ore di lavoro - a parità di salario - in cambio della partecipazione a percorsi di formazione professionale; magari di carattere digitale.

Le ore di formazione sarebbero integralmente finanziate dallo Stato attraverso un fondo istituito presso l’Anpal (Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del lavoro) e sulle aziende non graverebbe alcun costo.

Naturalmente, tanto la Confindustria quanto l’Ance (Associazione nazionale costruttori edili) si sono immediatamente dichiarate contrarie a qualsiasi ipotesi di questo tipo. E ciò già dimostra l’assoluto disinteresse che la - poco lungimirante - classe imprenditoriale italiana nutre nei confronti della formazione e della crescita professionale dei propri collaboratori. 

Intanto, però, il PdcD - anticipando quella che oggi fa apparire rivoluzionaria la posizione dei Cinque stelle - aveva già presentato alla Camera dei deputati (nello scorso gennaio) la proposta di legge numero 2327/2020 al fine di “ampliare il numero dei lavoratori a tempo indeterminato attraverso forme di redistribuzione delle ore di lavoro”.

I proponenti, tra i quali i più noti sono: Martina, Orlando, Serracchiani, Cantone (ex Cgil nazionale) e Fassino, attestano che le loro “Disposizioni per redistribuire il lavoro” sono dettate, tra l’altro, “dall’esigenza di ridurre le diseguaglianze nel mercato del lavoro, di garantire il mantenimento della competitività e di rispondere alle crescenti attese di vita buona”.

Confesso che la prima sensazione è quella di avvertire il riecheggiare dello stesso, asfissiante, ritornello che, ripetuto all’infinito - sin dai tempi dei governi Berlusconi e in gran voga anche con Monti e, in particolare, con Renzi - ha finito con il produrre nefaste conseguenze nel mondo del lavoro italiano.

A solo titolo di esempi, è sufficiente ricordare: 1) la flessibilità tradotta esclusivamente in precarietà, 2) lo stravolgimento dell’art. 18 dello Statuto (attraverso la sostanziale abrogazione della cosiddetta “giusta causa”, 3) l’invenzione del “contratto a tutele crescenti” (con il concreto addio all’ex contratto di lavoro a tempo indeterminato) e, dulcis in fundo, 4) tutti gli altri provvedimenti adottati attraverso le riforme di cui al Jobs-act.

Ma come si articola la suddetta proposta?

Nel merito della 2327/2020: già l’incipit della presentazione del testo contiene   un’affermazione che, a mio parere, è da definire, per lo meno fuorviante; se non proprio falsa.

La riporto testualmente: “Sono inoltre escluse soluzioni inefficaci, come quelle sperimentate in Francia: la legge sulle trentacinque ore settimanali (a parità di salario) fu infatti modificata dopo pochi anni, in quanto stava determinando un eccessivo aumento del costo orario del lavoro e quindi riducendo la competitività delle imprese”.

Su questo punto, infatti, è appena il caso di precisare che le 35 ore settimanali rappresentano ancora oggi, per tutti i lavoratori francesi, una realtà incontrovertibile. Ciò che (nel corso dei 18 anni di vita della legge[2]) è cambiato è soltanto relativo al tetto annuo delle ore di lavoro straordinario, alla gestione dello stesso e alle diverse modalità di retribuzione. È stata, inoltre, prevista - a livello di singole realtà produttive - una maggiore flessibilità nel siglare accordi cosiddetti “difensivi” o “offensivi”; con modalità diverse da quelle previste dalle norme del 2002.

Al riguardo,  è opportuno riportare che correva l’anno 2017 quando, sul quotidiano[3] della Confindustria italiana - nell’effettuare una sommaria ricostruzione di come erano intervenuti, rispetto alla legge sulle 35 ore, i governi francesi che si erano succeduti nei 15 anni precedenti - Marco Moussanet scriveva: “Se insomma sono in molti - a parole - a criticare le 35 ore, nei fatti la loro cancellazione raccoglierebbe ben pochi consensi. La destra, ma anche la sinistra e ora il “nuovo centro” di Macron preferiscono quindi aggirare l’ostacolo con misure che consentano maggiore flessibilità reale per le imprese, senza toccare il tabù. Così e d’altronde sempre andata in questi 15 anni”.

Tornando al Ddl, evidenzio che la proposta si articola, in sostanza, su cinque punti:

1)     Si concede, per tutti i nuovi contratti “a tutela crescente[4]” che prevedano un orario di lavoro non inferiore a 20 ore e non superiore a 30 ore settimanali, un taglio di 4 punti del cuneo fiscale - dal 33 al 29 per cento - equamente ripartiti tra datore di lavoro e lavoratore;

2)     Lo stesso sgravio si concede (sempre diviso in parti uguali, e non se ne comprende il motivo) - per i rapporti già in essere (sia pubblici che privati) - nell’ipotesi di passaggio volontario da full/time a part/time tra le 20 e le 30 ore settimanali.

3)     L’orario standard settimanale passa dalle attuali 48 ore (40 ore + 8 di straordinario) a 38 + 4; con una particolare compensazione semestrale nel caso in cui si sfori fino a un massimo di 50 ore settimanali.

4)     Si introduce il principio secondo cui i contratti a tempo parziale debbano diventare la modalità ordinaria di assunzione all’interno della pubblica amministrazione. Le nuove assunzioni nella P.A. dovranno essere effettuate con contratti che prevedano un massimo di 30 ore settimanali, non aumentabili prima del decorso di dieci anni e a fronte di comprovate esigenze.

5)     Si prevede la possibilità di inserire, tra i criteri per l’affidamento di commesse pubbliche, un punteggio specifico a favore dei datori di lavoro che ricorrano alle prestazioni di lavoratori assunti con contratti che prevedano non meno di 20 né più di 30 ore settimanali.

Detto questo, prima di esprimere qualsiasi giudizio di merito, credo valga la pena di tentare di descrivere, seppure in estrema sintesi, il contesto nel quale, eventualmente, andrebbe ad inserirsi un’ipotesi del genere.

Quando Pierre Carniti, negli anni ‘70, lanciò il famoso slogan “Lavorare meno, lavorare tutti” non poteva immaginare che il capitalismo avrebbe - faziosamente - tentato di realizzarlo, ma in modo molto diverso da quello che lui auspicava. Oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, la globalizzazione (per le modalità attraverso le quali si è voluto gestirla) ha posto in concorrenza i lavoratori dei paesi avanzati con alcuni miliardi di lavoratori di paesi poveri e, così come già scriveva Luciano Gallino[5], continuiamo ad essere bombardati da affermazioni che non lasciano scampo:” L’occupazione crescerà se ci sarà la ripresa; se i lavoratori accetteranno di venir licenziati più facilmente e di veder diminuire i salari reali (poiché ciò significa in ultimo la flessibilità che si richiede loro); se i giovani si scorderanno del posto fisso per accorrere invece nel nuovo Eldorado dei lavori atipici”.

Intanto, risale al dicembre 2017 un’attenta analisi di Carlo Clericetti[6] dalla quale si evinceva che, dal 1980 al 2010 i lavoratori nel mondo erano passati da 1,7 a 2,9 miliardi, ma, nel frattempo, nei paesi più economicamente avanzati si generalizzava una tendenza - fino ad oggi mai invertita - alla riduzione delle ore lavorate. In Italia, nel 2007, erano state pari a poco meno di 460 milioni, nel 2016 meno di 428.

Qualche altro dato[7] interessante è relativo al fatto che le ore lavorate per occupato sono passate, in Italia, dalle 1810 del 2009 alle 1722 del 2018; inoltre, mentre nel 2011 la quota di part-time involontari sul totale degli occupati era pari all’8,2 per cento, nel 2018 era arrivata all’11,9. Tra l’altro, tra tutti coloro che nel 2018 avevano un contratto part-time, ben il 64 per cento - rispetto al 52 per cento del 2011 - lo aveva sottoscritto per mancanza di alternativa.

Il risultato è che oggi i posti di lavoro recuperati dopo le più recenti crisi economiche sono stati tutti sacrificati in nome della “flessibilità”; tenacemente teorizzata e perseguita al fine, soprattutto, di ridurre il costo del lavoro.

In questo senso, è quindi evidente che le famigerate “riforme strutturali” - che avrebbero dovuto rilanciare l’economia e la produttività, oltre che aumentare, in particolare, l’occupazione giovanile - hanno finito con il generare un esercito di precari e di working-poor[8].

In questo quadro, se per alcuni[9] la proposta del PdcD “oltre ad assumer i connotati della farsa in cui i drammaturghi non conoscono l’oggetto del proprio copione, rischia di rivelarsi l’ennesimo boomerang contro i lavoratori per indurli a tremare”, rappresenta, a mio parere un atto semplicemente aberrante; con l’aggravante che a proporla sono politici che pretenderebbero di rappresentare la sola “sinistra possibile” del Paese.

Essa, infatti, costituirebbe - grazie ai due punti di sgravio fiscale - solo un enorme regalo ai datori di lavoro, incentivati, oltretutto, a proporre esclusivamente nuovi contratti part-time con il minimo delle 20 ore settimanali; salvo, poi, richiedere prestazioni lavorative fino alle 42, se non alle 50 consentite[10].

Senza contare che la cosiddetta “volontarietà”, da parte degli attuali lavoratori (pubblici e privati), nel passaggio dal tempo pieno al part-time, finirebbe per non essere più una opzione ma, nella stragrande maggioranza dei casi, un’imposizione da parte del datore di lavoro (sempre al fine di poter usufruire dello sgravio fiscale).

Tutto questo perché, come ben noto a qualsiasi matricola che avesse appena sfogliato un qualsiasi abecedario di Diritto del lavoro, se è vero che l’attuale normativa prevede che, qualora il dipendente non accettasse la riduzione dell’orario di lavoro (impostagli dal datore di lavoro) il suo rifiuto non potrà essere considerato un giustificato motivo di licenziamento, è altrettanto - clamorosamente - vero che il datore di lavoro ha la facoltà di imporre il passaggio da full-time a part-time se “esiste un giustificato motivo oggettivo per il cambiamento di orario”.

Tra l’altro, ancora rispetto al tema del passaggio pseudo “volontario”, è appena il caso di ricordare che la normativa vigente prevede che il lavoratore “può rifiutare il passaggio al part-time solo nel caso in cui la proposta del datore di lavoro sia effettivamente pretestuosa[11], altrimenti quest’ultimo avrà il pieno diritto di licenziarlo”.

Di conseguenza, considerata la linea di separazione fra licenziamento lecito ed illecito davvero molto labile, se ne deduce che trattasi di una questione ben più complicata di quanto paiono immaginare gli estensori del Ddl 2327/2020.

Infine, per concludere su questo delicatissimo aspetto, vale la pena rilevare che una recente sentenza della Corte Costituzionale[12] ha statuito:” Anche nel caso del contratto pieno le variazioni dell’orario di lavoro possono intervenire (come in regime di part-time) solo previo accordo tra le parti. Ma in questo caso la prova per cui le parti hanno concordato la riduzione della prestazione oraria può essere desunta dal comportamento successivo che le stesse hanno tenuto in costanza del rapporto: la dimostrazione sul consenso del dipendente può essere raggiunta per fatti concludenti. In pratica, ciò significa che se il dipendente si è limitato a rispettare gli orari richiesti dal datore senza mai opporre alcun tipo di rifiuto, il suo comportamento vale come consenso e può sostituire la firma di un patto scritto (che, invece,è obbligatorio nel part-time)”.

Al riguardo, sfido chiunque a trovare un lavoratore - in costanza di rapporto di lavoro subordinato - in grado di opporre un reale rifiuto a un’imposizione datoriale di questo tipo.

Senza, peraltro, neanche dimenticare che, dal 2012 - grazie al governo Monti e all’indimenticabile ministra del Lavoro Elsa Fornero - la variazione dell’orario di lavoro, da part-time a full-time e viceversa, può avvenire con accordo scritto tra le parti senza più la presenza dei sindacati.

In conclusione: un’amenità e quella che, se fossi nato nella Città eterna, definirei una “fregnaccia”.

Relativamente alla prima, sarebbe interessante chiedere a Stefano Lepri (co-presentatore del Ddl 2327/2020) a quale Germania intendesse riferirsi quando, nell’illustrare la proposta, affermava: “Ci ispiriamo al modello tedesco, prevedendo non più di 42 ore settimanali, straordinari inclusi……..”.

Forse a quella Germania nella quale, nel febbraio 2018, l’IG-Metal (sindacato dei metalmeccanici) e l’associazione datoriale Sudwestmetall siglarono un accordo attraverso il quale fu previsto un aumento dei salari pari al 4,3 per cento e un bonus di 100 euro (più altri 400 dal luglio 2019) - che, a partire dal 2020, sarebbero entrati a fare parte dei minimi tabellari - oltre alla possibilità di ridurre l’orario di lavoro settimanale dalle 35 “ordinarie” fino a un minimo di 28? E, contemporaneamente: “Qualora la richiesta, da parte del lavoratore, di riduzione oraria, sia accompagnata da comprovate ragioni familiari …….., l’assistenza di parenti malati o anche nel caso di lavori usuranti…..quest’ultima non comporterà la riduzione della retribuzione precedente e oltretutto, i lavoratori avranno la possibilità di tornare alla settimana di 35 ore in qualsiasi momento”.

Ma di cosa (stra)parla Stefano Lepri?

La seconda è motivata da un’altra “battuta”, dello stesso deputato PdcD che - come riportato da Clio Giusti[13] - nell’illustrare i benefici che i lavoratori trarrebbero dallo sgravio fiscale dei 2 punti loro spettanti dichiarava: “Per uno stipendio di 2 mila euro lordi parliamo di 80 euro di sconto al mese”!

Anche qui, se ne valesse la pena, sarebbe stuzzicante chiedergli a quale lavoratore intendesse alludere nell’indicare una retribuzione (foss’anche lorda) di 2 mila euro mensili a fronte di un rapporto di lavoro che prevedesse - grazie alla sua improvvida e irresponsabile proposta - una prestazione lavorativa di appena trenta ore mensili.



[1] Nunzia Catalfo; già nota per essere stata, nel corso della precedente legislatura, presentatrice, insieme ad altri senatori del M5S, del disegno di legge nr. 658/2018; per l’istituzione di un salario minimo orario (pari a 9 euro lordi)    

[2] In vigore, per tutte le aziende, dal gennaio 2002

[3]Fonte: “Riforma del lavoro in Francia: Macron all’attacco delle 35 ore”; pubblicato da “Il Sole 24 Ore Mondo” (rivista on-line), in data 29 giugno 2017

[4]Contratti che, come ben noto, nulla prevedono rispetto alle garanzie offerte dagli ex rapporti di lavoro a tempo indeterminato ante riforma dell’art. 18 dello Statuto

[5]“Se tre milioni vi sembran pochi: sui modi per combattere la disoccupazione”; Editore Einaudi, 1998

[6] Già responsabile di “Affari e Finanza”, settimanale del quotidiano “La Repubblica”

[7]  Fonte: “Coniare rivolta: collettivo di economisti”; pubblicato, in data 11 maggio 2020, sul blog di “LavoroeSalute” 

[8] Coloro che appartengono alla categoria dei lavoratori poveri, cioè coloro che, pur avendo un’occupazione, si trovano a rischio di povertà sociale a causa del livello troppo basso del loro reddito

[9] Vedi nota 7

[10]Vanificando, nei fatti, la pia intenzione dei proponenti la riforma di disincentivare il ricorso al lavoro straordinario che, anzi, rispetto all’attuale normativa, aumenterebbe

[11]Fonte “La legge per tutti, informazione e consulenza legale”

[12]Sentenza 1375/2018

[13]Fonte “Il Denaro.it” del 7 maggio 2020

Giovedì, 11. Giugno 2020
 

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