Il Partito democratico e l'ambigua eredità del Novecento

Il Partito democratico porta a compimento il processo di definizione di una nuova identità del vecchio partito comunista e può essere un elemento di chiarificazione del sistema politico. Ma il programma rimane incerto tra "riformismi" e neoliberismo

 

E’ possibile ed augurabile che la nascita del Partito democratico si riveli, se avrà successo, un elemento di chiarificazione e razionalizzazione del sistema politico italiano. Anche se non se ne può anticipare un pieno successo, sarebbe anche ingeneroso e infondato il pronostico di un fallimento. Del resto, le sue componenti sono l’asse della coalizione politica che, nell’ultimo decennio, si è battuta contro la destra, e che oggi regge il paese. E dobbiamo augurarci per tutta la legislatura, onde evitare brutte sorprese: da confusi governi istituzionali al ritorno di Berlusconi.

 

L’obiezione principale  delle minoranze Ds alla nuova formazione è che il Partito democratico nasce staccandosi dalla tradizione socialista e socialdemocratica europea. Ma bisogna ammettere che sarebbe stato difficile condurre Rutelli, Marini o Parisi in una nuova formazione caratterizzata da un tratto socialdemocratico. La netta ostilità a entrare nel gruppo parlamentare socialista europeo – che, pure sarebbe una scelta di carattere più empirico che ideologico – ne costituisce una chiara testimonianza.  Ma questo i dirigenti e i militanti  che, con una vasta maggioranza, hanno scelto lo scioglimento dei Ds e la formazione del Partito democratico certamente non lo ignoravano. La nuova formazione deve essere giudicata per come intende collocarsi negli scenari culturali e politici nei quali si muovono le forze progressiste in Europa e in America, considerato che il Partito democratico americano ne rappresenta un esplicito punto di riferimento.

 

Se ci collochiamo in questa prospettiva più ampia, credo si potrebbe convenire sul fatto che la formazione del Partito democratico porta a compimento il lungo processo di definizione di una nuova identità del vecchio partito comunista, iniziato con la svolta della Bolognina, poco meno di vent’anni or sono. In effetti,  quella svolta, con la fondazione del PDS, e poi il passaggio ai DS, non  volevano essere una (tardiva) conversione al credo socialista. L’unica e vera tentazione in questa direzione fu, alla fine degli anni 90, quella della Terza via di Blair. Appunto una “terza via” che si riprometteva di liquidare la tradizione del vecchio laburismo, imboccando la strada di una sorta di  neoliberismo temperato o, potremmo dire,  dal volto umano (a differenza del neoliberismo selvaggio americano).

 

Ma la terza via divenne rapidamente improponibile, essendo diventato Blair (a fianco di Berlusconi) il più convinto assertore della politica avventurista di Bush in Iraq e nel resto del mondo. Credo, insomma, che svanita l’effimera terza via, i Democratici di sinistra (o una buona maggioranza) si siano orientati con piena coscienza  verso un partito democratico, liberato dal peso di una tradizione socialista, nella quale la maggioranza dei gruppi dirigenti comunisti e post-comunisti non si è mai riconosciuta. Non a caso, dopo l’89 si era preso atto della fine dell’esperienza comunista, ma nella convinzione che insieme si era esaurita l’esperienza socialdemocratica. Da questo punto di vista, la scelta del Partito democratico è la coerente conclusione di un lungo itinerario che si può non condividere, ma che non può essere considerato uno strappo imposto da un’oligarchia di partito.

 

Giunti a questo punto, l’interrogativo non riguarda tanto il rapporto del nuovo partito col socialismo quanto quello col liberismo. L’affermazione non deve apparire paradossale. Un tratto saliente del dibattito congressuale è stato il superamento del Novecento. Si è detto: il mondo è cambiato, bisogna voltare pagina e guardare al XXI secolo. Guardare al futuro è politicamente un atteggiamento saggio. Ma il fatto è che il Novecento non è affatto finito. Hobsbawn definì – nel suo famoso saggio storico -  il Novecento un “secolo breve”, iniziato in ritardo dopo la Grande guerra e con la rivoluzione d’ottobre e finito anzitempo con il crollo del comunismo. E’ un’interpretazione suggestiva. Ma l’eredità del Novecento non è affatto  finita, e con questa eredità la sinistra, comunque si definisca, non ha ancora fatto i conti.

 

E’ l’eredità maturata nel corso degli ultimi due decenni del secolo che ha riportato in auge una diversa concezione del mondo rispetto a quella che aveva egemonizzato la parte più vitale del XX secolo. In altri termini, è venuta affermandosi un’ideologia , sostenuta dalla forte ripresa del capitalismo americano su scala globale, che ha messo in causa il modello economico  e sociale, keynesiano, “beveridgiano”, socialdemocratico, neocorporativo (nel senso del capitalismo “renano”) tipico dello scenario europeo. Così come ha attaccato e disgregato il modello progressista americano promosso da Roosevelt col New Deal, e sviluppato negli anni Sessanta con Kennedy e con la “Grande società” di Johnson. Il neoliberismo recuperando e riverniciando la cultura economica e la concezione dello Stato di fine ottocento, è diventato il paradigma di riferimento di quello che oggi, con un rovesciamento semantico, si definisce “riformismo”.

 

Da questo punto di vista, il Novecento è tutt’altro che finito. Il suo lascito è duplice. Da un lato, le conquiste (se è consentito ancora considerarle tali) nel campo delle condizioni di lavoro, della giustizia sociale, della democrazia partecipativa; dall’altro, la riaffermazione di una cultura politica neoconservatrice fondata sul ritiro dello Stato dall’economia, lo smantellamento progressivo dello stato sociale, l’emarginazione del lavoro salariato, la deregolazione che consegna agli automatismi di mercato i rapporti sociali. La nuova ideologia, mascherata da “fine delle ideologie”, ha avuto il suo centro d’irradiazione in America e si è diffusa in Europa, ma qui incontrando forti e diffuse resistenze. Le stesse resistenze che, di volta in volta, fanno definire conservatori e “anti-riformisti” gli Stati o, al loro interno, le elite politiche che rifiutano quello che fu definito il “pensiero unico”.

 

Sotto quest’aspetto la partita col Novecento è tutt’altro che chiusa. Considerare che si può scrivere il futuro su una pagina bianca, al di fuori delle costrizioni dell’ideologia neoliberista largamente dominante, è un autoinganno. Il paradosso è che le analisi più chiare e limpide del dominio politico e ideologico del neoliberismo e dei suoi disastri sociali si possono trovare proprio all’interno della cultura democratica americana. Non a caso, l’ala liberal (radical-progressista) del Partito democratico considera l’eredità ideologica del Novecento la sfida con la quale debbono confrontarsi le forze progressiste. Ma il nuovo Partito democratico, che nasce in Italia per affrontare le sfide del nuovo secolo, non dice nulla sul merito di queste sfide e su come si vuole affrontarle. Si fa un rituale riferimento alla globalizzazione, ma non c’è un’analisi della crisi della globalizzazione neoliberista  e del modo di contrapporvisi.

 
Eppure le analisi non mancano. Basterebbe rivolgersi agli istituti di ricerca dell’area del partito democratico americano e ai magazine della sinistra liberale. Jeff Faux, fondatore del più autorevole istituto di ricerca sui problemi del lavoro negli Stati Uniti – l’Economic Policy Institute - , ha intitolato il suo più recente libro “The global class war” (come dire: la guerra di classe nell’era della globalizzazione). Robert Reich, ministro del Lavoro nella prima amministrazione Clinton, considera il modello sociale europeo un punto di riferimento per uscire dalla crisi  che investe ormai non solo gli strati più poveri, ma gli stessi ceti medi americani. Jeremy Rifkin, con l’enfasi che lo distingue, ha dedicato un volume al “Sogno europeo”, riferendosi proprio ai modelli di organizzazione sociale della “vecchia” Europa. L’elenco potrebbe continuare con le critiche di Stiglitz e, perfino, di Soros alla globalizzazione di stampo neoliberista . Quello che voglio dire è che il Novecento non può essere ripudiato. La sua eredità è ambiguamente complessa. Parlare di cambiamento, non ha senso se non si indica la direzione del cambiamento. E’ un peccato che il nuovo partito nasca senza dirci cosa consideri morto e cosa vivo del Novecento.

 

Questo è il lato oscuro dell’ operazione politica destinata all’approdo del Partito democratico. Operazione che pure, come abbiamo detto all’inizio, può svolgere una funzione di semplificazione e razionalizzazione dell’intricato e opaco scenario politico italiano. Se sarà così, allora gli interrogativi si spostano dal destino del Partito democratico a quello delle forze di diversa estrazione che si collocano alla sua sinistra. Se continueranno a presentarsi in un caleidoscopio frammentato di partiti, partitini e movimenti (come accade in Francia per i sei partiti che si pongono alla sinistra di Ségolène Royal, ottenendo insieme l’11 per cento dei voti), sarà questa la vera sconfitta della sinistra.

 

Stranamente, il futuro della sinistra italiana non dipenderà questa volta da ciò che farà una sua parte, ma da quello che faranno, nelle loro distinzioni, le due parti: quella che ha scelto l’unità nel Partito democratico e quella frammentata che si colloca alla sua sinistra. Non è uno scandalo che la sinistra si presenti divisa. Succede in tutta l’Europa. Ciò che conta è che la divisione sia trasparente e chiara nei presupposti e in ciò che propone. E che riesca a ricomporsi su accettabili mediazioni programmatiche  – come del resto succede oggi col governo Prodi – quando bisogna respingere l’attacco della destra, e trovare soluzioni plausibili ai problemi più urgenti dello sviluppo, del lavoro, della  giustizia sociale, della laicità dello Stato. Da questo punto di vista ha avuto ragione Mussi quando ha scelto di concludere il suo intervento congressuale augurando “buona fortuna” a entrambi: alla nuova formazione e a quelli che ne rimangono fuori. Un gesto che, senza offuscare la chiarezza del dissenso, può essere, forse, colto come testimonianza di realismo politico oltre che di nostalgica solidarietà..

 

 

 

Venerdì, 27. Aprile 2007
 

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