Il nuovo ordine di Obama

Le mosse del presidente fanno intuire che il suo obiettivo è di trasformare la leadership americana basata sulla potenza imperiale in una leadership basata sull’egemonia politica. Paradossalmente, potrebbe trovare più ostacoli in patria che fuori

Del recente G20 si può proporre, guardando ai commenti, un bilancio per titoli:

- Il mondo sta cambiando, ma non si sa ancora quanto, in che direzione e con che velocità.

- Resta aperto il dilemma: aggredire l’origine (finanziaria) del fenomeno-crisi e dunque imporre nuove regole o andare al nocciolo del problema (economico) e dunque governare un riassetto degli equilibri mondiali (sociali, economici, di potere).

- In ogni caso, Obama sta mantenendo le promesse e si candida a guidare il cambiamento anche in termini di ridimensionamento del ruolo guida degli USA.

- L’Europa resta indietro, incerta e divisa.

- L’Italia è ai margini, finanche dell’Europa, ma “punta molto sul fattore simpatia” (N.B. sono autorizzate traduzioni in linguaggio corrente della locuzione eufemistica, purché non pubblicate nel nostro paese).

 

Guardiamo più da vicino queste sintesi, tra loro concatenate.

 

Che non vi sia alcuna chiarezza circa la direzione, intensità, velocità del cambiamento è testimoniato, tra le altre cose, dall’ampiezza del ventaglio dei commenti attorno al risultato del G20: da svolta storica a risultato modesto (da attribuire alle pressioni cocciute di Sarkozy-Merkel). Ma all’origine di questa divaricazione di giudizi così ampia c’è il dilemma: se non basta affrontare l’epi-fenomeno (finanziario), le misure sui paradisi fiscali e la stretta sulle regole per il mercato finanziario sono solo interventi di contorno. Occorre andare alla sostanza dei rapporti di potere, delle asimmetrie (negli scambi, nei redditi, nei tenori di vita). Quelli devono cambiare e quel cambiamento bisogna gestire.

 

Ma allora, giudicato secondo questi parametri, il ruolo di Obama, tiepido sulle proposte europee di regole per la finanza, è di freno o di avanguardia? Apertura all’Islam e a quelli che fino a pochi mesi fa erano definiti “stati canaglia”, appello alla condivisione e “pentimento” sulle vocazioni egemoniche unilateralistiche del suo predecessore, asse privilegiato (benché tormentato e conflittuale) con la Cina: cosa altro sono se non un chiaro segnale di voler affrontare il nocciolo e non solo la superficie dei problemi?

 

In questo senso, una lettura lucida e obiettiva delle posizioni espresse da Obama (al G20, a Praga, a Istanbul) porta a dire che i messaggi che ha lanciato sono chiaramente spostati sull’asse dell’economia reale, della democrazia, degli equilibri internazionali piuttosto che delle regole di mercato. Ne consegue che l’Europa, che voleva sembrare intransigente e severa sul campo della battaglia per mettere le briglie al capitalismo e al mercato, finisce per apparire indietro, inadeguata, attenta solo alla superficie dei problemi, vittima di divisioni che la allontanano ancor più dal nocciolo e dalla radice dei problemi.

 

Se così si ritiene che stiano le cose, restano pur tuttavia da spiegare i primi scricchiolii che si sono palesemente registrati nella base di consenso di Obama. C’era da aspettarselo, in realtà, che dopo gli ultra-conservatori, anche una schiera di ultra-radicali denunciasse una progressiva assimilazione di Obama a Bush. Ma era invece meno prevedibile che anche una significativa schiera di supporter della prima ora affermassero, già allo scadere dei cento giorni, la loro delusione. La spiegazione potrebbe trovarsi nel fatto che la crisi è ben più profonda di quanto l’opinione pubblica (USA, ma si potrebbe estendere il discorso a quella europea) sia disposta ad immaginare. In una certa misura si può dunque spiegare la delusione che fa capolino con la difficoltà a prendere atto fino in fondo della dura realtà della crisi.

 

E’ però anche vero che i nodi più grossi da sciogliere sono ancora lì in tutta la loro complessità: Palestina e Israele, tra fragile tregua e risultato elettorale. Afghanistan, annunciato come il Vietnam prossimo venturo. Iran, tra diplomazia e armamento nucleare. Cina, la partita più difficile da giocare sul terreno economico: non c’è misura di politica economica interna che possa reggere senza un accordo di fondo con il paese che più di ogni altro condiziona l’economia americana. Con la sua concorrenza può decidere del futuro della capacità produttiva USA. Per quanto si possa spingere in là il processo di terziarizzazione e di finanziarizzazione, il sistema industriale resta una componente fondamentale del potenziale di crescita della ricchezza di quel paese (il rischio di fallimento GM insegna). A sua volta la dinamica di crescita dell’economia cinese, con il peso crescente sui flussi di scambio nel mercato mondiale, può avere un peso determinante sul volume di esportazioni e quindi anche sulla bilancia commerciale. Può quindi condizionare il tasso di cambio della moneta e dunque le chiavi della decisione sulla sopravvivenza del dollaro come moneta principale nelle transazioni internazionali, senza contare l’enorme quantità di dollari accumulata nelle riserve cinesi che ne fanno una sorta di creditore di ultima istanza del Tesoro USA.

 

Le sfide decisive che attendono il presidente USA sono perciò queste. E le critiche, anche da sinistra (scontando tutta la particolarità del significato di questo termine nella realtà americana), sono un segno premonitore della difficoltà che il suo impegno potrà incontrare. Perché si possa ragionevolmente ritenere che anche le mosse successive, al cospetto dei nodi più grossi, seguano un sentiero orientato verso un nuovo ordine mondiale all’insegna della democrazia, dell’eguaglianza, della coesione sociale, della pace, ci si deve porre con chiarezza – e senza facili concessioni al sentimento della speranza – la domanda scabrosa: riuscirà Obama a gestire il declino americano? Perché di questo si tratta. In un intervento ospitato su questo sito qualche mese fa (Il futuro dopo la crisi: in cerca di un modello) avanzavo qualche ipotesi di lavoro centrata su una descrizione della crisi in atto come manifestazione del terzo (e probabilmente finale) stadio di evoluzione della crisi dell’egemonia americana. L’American way of life ha resistito alle dinamiche, a un tempo livellanti e squilibranti, della globalizzazione grazie al massiccio ricorso al deficit pubblico, al deficit commerciale e infine alla bolla finanziaria. Tre strumenti in successione, tra loro concatenati, finalizzati in definitiva al medesimo scopo di permettere all’America benestante di vivere al disopra dei propri mezzi permettendosi anche un po’ di “compassionevolezza” nei confronti dei “meno fortunati”.

 

La crisi può far collassare l’uno sull’altro, dopo il crollo delle sovrastrutture finanziarie più ardite, tutti i sistemi con cui gli USA imponevano al mondo intero di accollarsi almeno una parte dell’onere del suo alto reddito. Naturalmente non è immaginabile un processo catastrofico, né in senso biblico né in senso matematico (rottura di continuità). Peraltro, il resto del mondo ha tutto l’interesse a evitare un collasso della maggiore potenza planetaria. Ma non è certo la stessa cosa se è il mondo a decidere di sostenere gli USA anziché essere gli USA a imporre al mondo le regole del gioco nel suo esclusivo interesse.

 

Di questo in definitiva si tratterà sin dagli sviluppi di questo G20, destinato non a caso a relegare in secondo piano l’ormai arcaico G8 (ma l’Italia sarà l’unico paese al mondo che non se ne accorgerà vista la consegna rigida per tutta l’informazione di suonare fanfare e grancassa per lo storico evento di cui sarà protagonista il suo presidente del Consiglio). Il sogno di Obama potrebbe essere proprio quello di attutire il colpo trasmutando poco a poco la leadership basata sulla potenza imperiale in una leadership basata sull’egemonia politica.

 

Ma ci si potrebbe accorgere un giorno non lontano che si tratta di un sogno tutt’altro che facile da realizzarsi e che, paradossalmente, potrebbe suscitare consensi più ampi fuori dai confini USA che dentro. Perché potrebbe non corrispondere al sogno della grande pancia americana, che potrebbe chiedere a Obama tutt’altre priorità.

 

In definitiva, questo quadro che vede Obama alla testa, ogni giorno di più, dello schieramento che mira ad un nuovo ordine mondiale e non solo a nuove regole di mercato (e che lo vede oggetto di critiche, paradossalmente, soprattutto da parte di teorici di un nuovo ordine mondiale) può lasciare aperta la porta alla speranza. Non autorizza però nessun facile ottimismo.

Sabato, 25. Aprile 2009
 

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