Il futuro dopo la crisi: in cerca di un modello

E' prevedibile che il mondo non sarà più lo stesso, anche se ciò non significa una ritirata della globalizzazione. Bisogna dunque cercare di immaginare i cambiamenti e porsi il problema di una scelta di campo

La crisi cui stiamo assistendo potrà portare a un ritorno indietro del processo di globalizzazione? Che il fenomeno che indichiamo genericamente come globalizzazione sia all’origine della crisi è difficile negarlo. Ma è arduo – e probabilmente fuorviante – sostenere che ne possa derivare una crisi della globalizzazione.

 

Non c’è una diminuzione del volume di scambi mondiale ma un rallentamento della sua velocità di crescita. Non cambiano le tendenze di fondo del riassetto geopolitico e del riequilibrio nella dislocazione del potere su scala globale: le potenze emergenti (BRICS, Brasile, Russia, India, Cina, da intendere come l’intero sud-est asiatico, Sud-Africa) continuano a far registrare i più alti tassi di sviluppo del PIL.

 

C’è però qualche novità. Quella che sembra riguardarci più da vicino è che l’Europa sta entrando in recessione. Proviene tuttavia da una situazione che la vedeva, già da tempo, sostanzialmente stazionaria. La novità più grande è dunque un’altra: entra in crisi l’intero assetto della finanza mondiale e, insieme ad esso, entrano in crisi gli USA. Dunque, piuttosto che di crisi della globalizzazione, si dovrebbe parlare di grandi rivolgimenti per effetto della globalizzazione, le cui tendenze di fondo si stanno dispiegando in tutta la loro potenza.

 

Non è una novità di poco conto, significa che il mondo cambierà. La crisi degli USA non è solo la crisi di Wall Street e non è un episodio circoscritto e passeggero. Non è solo la crisi di un (solo) paese, sia perché si tratta del paese guida, dopo la fine del bipolarismo, sia perché investe tutto l’assetto delle relazioni internazionali, su piani molteplici (monete, finanza, economia reale, governance).

 

Il paragone storico più ricorrente è quello con la Grande Depressione del 1929, originata anche allora dall’esplosione di una bolla finanziaria. Assisteremo all’impoverimento di larghi strati di ceto medio dei paesi avanzati, potenzialmente in grado di produrre, tra gli esiti prevedibili, derive autoritarie (o, meglio, totalitarie) nel quadro di una recessione generalizzata? Invero, dobbiamo notare che, a differenza di allora, l’economia reale potrebbe non essere destinata a subire i contraccolpi della crisi con un’estensione e una profondità paragonabili. Perché non ha più il suo epicentro nel luogo stesso della crisi finanziaria (ormai è ampiamente delocalizzata verso i paesi emergenti) e non sarà condizionata in modo determinante dalle decisioni politiche di un singolo attore principale come avvenne allora. In quella occasione il mondo intero dovette scontare gli effetti di una politica USA centrata su una manovra dagli effetti fortemente recessivi, prima della svolta roosveltiana-keynesiana di cui è rimasta come emblema la costituzione della Tennesse Valley Authority. Ma, qui sta l’altra faccia della medaglia, per contro, per la soluzione della crisi non basterà che un solo protagonista (un Obama-Roosevelt) adotti decisioni efficaci ma si dovrà porre mano a un sistema in cui più attori hanno un ruolo globale. Non basterà un New Deal ma si dovrà passare ad un nuovo ordine mondiale.

 

Peraltro, che la vera novità, l’epicentro del terremoto, sia la crisi degli USA, non può farci dimenticare che gli USA restano la maggiore potenza militare del pianeta e la maggiore potenza economica, comunque ai vertici del reddito pro-capite, mentre il dollaro continua ad essere moneta di riferimento per le transazioni internazionali.

 

La novità va dunque inquadrata in un processo in atto da tempo, di cui la manifestazione attuale rappresenta l’apice, il punto che in chimica si definisce come catastrofe nel senso che la tendenza non può proseguire senza una rottura, una soluzione di continuità. Occorre cioè partire dal fatto che nel corso della globalizzazione, già prima di ritrovarsi a svolgere il ruolo di unica superpotenza globale, gli USA avevano preso a finanziare la loro crescita, anche in virtù della loro potenza, con un doppio disavanzo: debito pubblico e bilancia dei pagamenti. Il risultato è che il dollaro si è andato deprezzando e se ne è accumulata una quantità straordinaria nelle riserve dei paesi da cui importa.

 

Il mondo ha finanziato fin qui l’American way of life ma gli USA hanno pagato un prezzo: la progressiva erosione del potere su cui si basava la loro leadership mondiale.  Non solo, ma il processo, essendo cumulativo, ha già richiesto una rottura di continuità senza la quale era destinato a entrare in crisi già in passato. Si intende dire che la bolla finanziaria degli ultimi anni può essere spiegata come un tentativo, molto sofisticato ma in definitiva illusorio, di aprire un terzo canale di finanziamento in deficit. Non essendo più sufficiente il debito pubblico e quello verso gli esportatori, si è acceso un gigantesco debito verso il risparmio privato internazionale con il meccanismo dei derivati privi di copertura reale.

L’artificio ha retto relativamente a lungo ma nel momento in cui è venuta meno la fiducia degli investitori è miseramente crollato, provocando grosse perdite tra i risparmiatori (con conseguenze ancora difficili da valutare nella loro portata finale, se solo si pensa a ciò che potrà avvenire nel sistema dei Fondi pensione) ma lasciando anche macerie ingombranti tra le grandi istituzioni finanziarie USA.

 

Ora, come guardare al futuro in presenza di una rottura di continuità irreversibile? Non ci sono trend a cui appellarsi, non basta prevedere ma occorre scegliere come determinare i percorsi futuri. Al riguardo, l’opinione corrente è che, oltre a cambiare il ruolo degli USA, sia destinato a modificarsi anche il ruolo dominante del mercato. Sembra essere, sorprendentemente, anche l’opinione di molti tra quelli che hanno fatto del mercato (e del primato dell’economia sulla politica e della finanza sulla produzione) una bandiera e un dogma. Solo incoerenza, o ravvedimento?

 

In realtà, il dogma, il cosiddetto Washington consensus, è stato, sì, formulato nei termini di una supremazia del mercato su qualunque altro sistema di allocazione delle risorse e di distribuzione della ricchezza prodotta (in termini di efficienza, allocativa e distributiva) ma non se ne è mai affermata né l’infallibilità né l’autosufficienza. Per inciso, è anche per questo motivo che la critica di Tremonti al “mercatismo” può essere tacciata di somma ipocrisia: il mercatismo era solo un espediente, la creazione di un bersaglio immaginario ad uso di un’operazione che è rivolta piuttosto ad un diverso nemico (l’Unione Europea) e che non ha nulla a che vedere con ciò che sta succedendo adesso. Tanto è vero che la crisi era stata bensì prevista, ma ritenendo che dovesse arrivare da est quando è invece nata nel cuore del profondo ovest.

 

La scelta di fondo che quel dogma ha inteso salvaguardare ha dunque riguardato, più che l’infallibilità e l’autosufficienza del mercato – cui nessuno ha mai creduto – il modo in cui il potere pubblico può e deve intervenire a correggerlo e surrogarlo:

-          se gli interventi straordinari (il potere di “sospendere” le regole del mercato per correggerne il funzionamento “spontaneo”) debbano favorire gli interessi di chi detiene le maggiori leve di accumulazione ovvero di chi paga le conseguenze sociali degli insuccessi

-          se dunque debbano rispondere ai canoni classici di un processo democratico (stato di diritto, uguaglianza – pari opportunità – dei cittadini e bilanciamento/controllo dei poteri) o a quelli dell’accumulazione proprietaria.

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Insomma, si è trattato sempre di una questione politica.

 

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Se, dunque, ci si domanda quali cambiamenti si produrranno, un punto su cui non dovrebbero esservi dubbi è che sia destinata ad essere fortemente ridimensionata la supremazia della finanza sull’economia reale. Ma l’attenzione dovrebbe rivolgersi soprattutto ai rapporti tra le istituzioni della politica e i grandi attori economici. Da questo punto di vista si può sperare che la rivoluzione in atto porti ad abbandonare (o, quanto meno, a rivedere radicalmente) alcune facili certezze consolidate su questo tema. A partire dalla tesi, diventata una sorta di luogo comune, che nell’era della globalizzazione la politica in quanto tale non fosse in grado di manovrare le leve dell’economia e della finanza, per motivi intrinseci: perché soccombente sia nello spazio, a fronte della capacità degli attori in quei campi di varcare le frontiere nazionali entro cui si esercita il potere statale, sia nel tempo, per la velocità di decisione connessa a un modello di governance delle grandi corporation più accentrato e più snello.

 

Sta apparendo più chiaro, invece, come vi fosse una scelta squisitamente politica dietro la decisione di porre il potere statuale al servizio di chi deteneva le leve dell’accumulazione nel mondo globalizzato. Come, per altro verso, fossero immaginabili – e, di fatto, in campo – anche altri modelli e indirizzi politici. Semplificando molto, quello delle potenze emergenti (BRICS) e quello europeo.

 

La domanda preliminare che ci si deve porre nell’immaginare il futuro riguarda dunque il modo in cui i diversi modelli in campo sono esposti e destinati a subire le conseguenze dei rivolgimenti attuali (nonché, in definitiva, se possano proporsi come ipotesi di soluzione per gli stessi USA) e in che direzione siano anch’essi destinati a cambiare.

 

Se assumiamo come criterio di giudizio la velocità di crescita economica, il modello vincente appare quello BRICS. Tuttavia questa constatazione di un dato nudo e crudo può essere fuorviante:

- perché la velocità è, sì, maggiore ma il punto di partenza è molto più arretrato.

- perché si deve mettere nel conto, per una valutazione globale, il modello politico in quanto tale, dal punto di vista dell’equilibrio dei poteri, della trasparenza, dello Stato di diritto, o principio di legalità, delle libertà civili e, infine, dell’eguaglianza, da intendere, più che come principio astratto, come pari opportunità e non discriminazione. In definitiva, la scelta deve riguardare anche i parametri dell’equità e della coesione, in una parola, la sostenibilità (sociale, ma non solo). Ebbene, non uno solo di questi parametri può essere giudicato soddisfacente per nessuno dei cinque paesi/aree geopolitiche cui ci si riferisce con l’acronimo BRICS.

 

Quanto agli USA, lo scontro politico che vi si sta svolgendo ruota intorno a questi temi, dopo otto anni in cui la politica di Bush ha sistematicamente ristretto gli spazi di democrazia (nel senso specifico di cambiamenti in senso autoritario su ognuno degli ambiti indicati come determinanti). Non è in questione il maggiore o minore intervento pubblico nel mercato ma la maggiore o minore regolazione, i meccanismi di controllo e il loro incardinamento in un sistema di poteri accuratamente bilanciati, le opportunità di accesso e la limitazione delle asimmetrie, anziché la loro accentuazione, l’adozione di opzioni di valore, esplicite e trasparenti, alla base degli interventi di regolazione. Insomma, il rapporto tra politica e economia, tra democrazia e mercato, tra principi di efficienza e di uguaglianza.

 

E’ inevitabile dunque esaminare da vicino il modello europeo. Partendo dal porsi qualche domanda preliminare in proposito: esiste? è riconoscibile? è uno o più di uno?

Dopo l’apertura a 27 è più difficile riconoscere quello che in “brussellese” si definiva come l’”acquis” europeo, un corpo consolidato di principi che si traducono in indirizzi su cui basare l’impianto normativo nazionale al di là delle specificità di ogni genere. L’allargamento ha portato le specificità a diventare soverchianti rispetto al sostrato comune e la prima reazione alle avvisaglie della crisi (già riconoscibili da qualche tempo) aveva accentuato la chiusura particolaristica. Tuttavia, che venga o no data una veste formale (G4, Eurozona o altro) all’”Europa a due velocità” nella forma della cooperazione rafforzata, è abbastanza plausibile che un “nocciolo duro” si consolidi attorno all’asse franco-tedesco. Se ne è avuto un assaggio con il vertice di Parigi del 12 ottobre.

 

Paradossalmente, proprio il fatto che in questi due paesi sia al governo un partito di destra moderata (in Germania all’interno di una coalizione ma con un chiaro peso preponderante) rende più facile identificare i tratti acquisiti nel modello sociale e nel sistema politico. Se andrà avanti questo processo, quali evoluzioni potrà avere? quali correzioni di rotta potrà realisticamente proporre lo schieramento europeo di centro-sinistra, attualmente minoritario?

 

Quanto all’esistenza di un possibile modello alternativo, non è dato vederlo. Si può invece rilevare come alcuni Stati membri siano maggiormente permeabili – se così si può dire – rispetto ai due modelli alternativi, su scala globale, che abbiamo esaminato:

-          quello USA influisce sia sull’UK che (prendiamone atto) sull’Italia (con le notevoli singolarità, nettamente peggiorative, del berlusconismo),

-          quello autoritario BRICS sui paesi di più recente democrazia.

A questo riguardo può valere la pena di notare come due dei tre paesi con le peggiori performance economiche in Europa siano proprio UK e Italia, laddove il terzo (Spagna) ha però alle spalle ritmi di crescita molto elevati nell’ultimo decennio. Che infine, ma non è certo la considerazione meno importante, il modello sociale in UK e più ancora, dobbiamo dire, in Italia, si sta rivelando sempre più caratterizzato, in questi ultimi anni, da un ampliamento poderoso: a) delle diseguaglianze sociali, b) delle discriminazioni.

a)     Aumenta la povertà assoluta, oltre che relativa, si  amplia la forbice dei redditi e si assiste a un processo – cumulativo, non episodico - di distribuzione asimmetrica delle ricchezze.

b)     Il razzismo e la xenofobia sono una manifestazione estrema, molto preoccupante, ma da molti altri segnali – si pensi alla campagna contro il sesso a pagamento o all'intolleranza (e alla violenza) omofoba – è facile attendersi una recrudescenza delle discriminazioni di genere nel segno del peggiore maschilismo.

 

In un certo senso, l'aspetto specifico dei fenomeni di discriminazione (che per la loro misura non ci accomunano all'UK), potrebbe portarci a dire che il nostro paese rivela una sorta di permeabilità all'altro modello in campo, autoritario anch’esso, tanto più se si prende in considerazione anche il ruolo e la diffusione della criminalità mafiosa e lo stato dell’etica pubblica. Ciò che può giustificare dunque un parallelo tra Berlusconi e Putin complementare a quello con Bush, che resta comunque dominante e caratterizzante. 

 

Per insistere sull’influenza del modello conservatore USA, si deve rimarcare come l’Italia abbia ripercorso tutte le tappe dell’involuzione autoritaria del sistema politico democratico prodotta da otto anni di Bush, finanche con qualche anticipazione / accelerazione e con tratti peculiari che compongono un quadro, se possibile, peggiorativo.

- Per restringere le libertà individuali, introdurre “sospensioni” (nel senso di K. Schmitt) delle garanzie costituzionali e alterare l’equilibrio dei poteri tra esecutivo e legislativo non ha atteso il verificarsi di un fatto, come il crollo delle Twin Towers, con la potenza emotiva che ha avuto nella sua oggettività esposta agli occhi di tutto il mondo, ma lo ha provocato ad arte (pur di portata ben minore, il G8).

- Per costruire sulla paura del nemico il consenso alla svolta autoritaria non si è basata su un fatto, volutamente ampliato nella sua portata ma pur sempre reale (l’offensiva terroristica contro l’occidente) ovvero, se costruito su menzogne - non a caso prodotte dai servizi italiani – selezionando quelle con maggiore potere ansiogeno (il caso della “pistola fumante” per le armi di distruzione di massa irachene) ma ha scelto piuttosto di alimentare artificiosamente un clima di odio, immediatamente contiguo al puro razzismo, in termini che il resto dell’occidente considera intollerabili e ingiustificabili, oltre che di scontro sociale.

- Non si è limitato ad un accentramento di poteri nell’esecutivo rispetto al legislativo ma ha destabilizzato tutto il sistema di divisione dei poteri attaccando frontalmente e tentando di delegittimare la magistratura.

- Ha utilizzato massicciamente il controllo dei media (sottratti a una legislazione anti-monopolistica paragonabile a quella vigente in tutto il resto del mondo democratico) per scongiurare qualunque forma di controllo / bilanciamento da parte di un’opinione pubblica informata.

- Ha sistematicamente divelto ogni possibile strumento di controllo (interno o esterno) e di garanzia a tutela delle minoranze non solo in campo politico ma nello stesso ordinamento economico a esclusiva tutela degli interessi dei più forti, per procedere spedito su una strada che l’Amministrazione Bush ha invece dovuto seguire con molta maggiore prudenza e subendo poderosi contraccolpi (Enron insegna, prima e più ancora della crisi attuale).

 

Se vogliamo, gli epigoni nostrani sono stati inferiori al maestro solo nella gestione delle operazioni elettorali, dovendo così subire una parentesi all’opposizione (per meno di due anni): una inadeguatezza ampiamente compensata dalla capacità di destabilizzare e esautorare il governo in carica, pericoloso inciampo sulla strada della “presa del potere”.  

 

E’ possibile cominciare ad azzardare qualche conclusione?

 

Le considerazioni che precedono sono, ovviamente, tesi da confrontare, dibattere, confutare o argomentare, adottare o respingere. Se però il quadro che delineano fosse una rappresentazione – per quanto approssimata, suscettibile di arricchimenti e correzioni e dunque perfettibile – comunque vicina alla realtà delle cose, imporrebbe tuttavia come conseguenza operativa che l'azione, l'impegno dovrebbe avere inevitabilmente la precedenza sulla riflessione e l'approfondimento analitico (senza mai soppiantarlo). Occorrerebbe compiere una scelta netta di campo in primo luogo quanto ai modelli a confronto. Con tutti i suoi limiti, se questo fosse il quadro si dovrebbe recuperare un ancoraggio al modello europeo. Se si riconoscesse come una priorità assoluta l’impegno per contrastare il rischio concreto e attuale di una deriva autoritaria, così come ci si deve legittimamente attendere che faccia Obama in caso di vittoria a novembre per sgombrare il campo dalle macerie dal modello autoritario che si è imposto con il bushismo, sarebbe insufficiente, se non reticente, fare appello solo ad una correzione di rotta dall'egemonismo verso il multipolarismo (astenendosi dall’entrare nel merito di quello che ciascuno dei poli rappresenta) ma occorrerebbe un passo deciso verso un restringimento della distanza attuale tra le due sponde dell'Atlantico. Occorrerebbe impedire che prendesse il sopravvento un sentimento di estraneità (o, peggio, di avversione) dell'opinione pubblica italiana rispetto all'Europa. Dal modello europeo occorrerebbe invece partire per riaprire una dinamica politica in senso democratico.

 

Collocandosi senza incertezze in questo campo, si porrebbe quindi l'esigenza specifica, come sinistra italiana, di fornire tutti i necessari elementi di conoscenza che permettano

-          di rendere evidente che cosa può derivare per il continente dai concreti pericoli di contagio con il modello italiano

-          di immettere nel nostro contesto politico e sociale gli elementi preziosi di riflessione e di conoscenza che la cultura europea di sinistra (democratica) va elaborando.

In una parola, l’imperativo sarebbe quello di fare rete.

Martedì, 21. Ottobre 2008
 

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