Il nostro guaio non è il sovranismo, ma il provincialismo

Stupisce quanto poca importanza sia data alle novità del quadro politico europeo post elezioni: che non è quello che speravano i sovranisti ma nemmeno è più quello che ha retto l’Europa nel corso di questo secolo. E mentre in Europa ci si scontra su politica monetaria e investimenti da noi si litiga sulla tassa sulle merendine

La manovra di bilancio per il 2020 non è un atto di ordinaria amministrazione. Non lo è di per sé, ma stavolta ad accentuarne l’importanza vi sono le due novità dell’ultima estate, tra loro strettamente correlate: il nuovo assetto dell’Unione Europea dopo le elezioni e il nuovo governo nel nostro Paese.
Per il nuovo governo la legge di bilancio diventa il vero documento programmatico, più delle dichiarazioni alle Camere del Presidente del Consiglio: la sua sopravvivenza dipenderà non solo dall’esito del passaggio parlamentare ma soprattutto dal riscontro in termini di consenso popolare, che sarà influenzato dagli effetti distributivi che ne deriveranno. Correlati, se mai ve ne saranno, alla quantità di risorse che sarà messa in moto. Lo scoglio delle clausole di salvaguardia sull’IVA, cancellandole anziché, di nuovo, rinviarle di un anno, è stato superato, ma l’andamento dell’economia mondiale, in particolare quella tedesca, imporrebbe uno sforzo espansivo di grande portata.

Un impegno straordinario, anticiclico e fortemente mirato al rilancio della domanda interna (in attesa che la Germania si decida a fare altrettanto) e al rinnovamento del nostro sistema produttivo. Da intendersi non tanto nei termini consueti di aumento di produttività (che, se derivasse dall’innovazione tecnologica anziché dalla compressione delle retribuzioni, sarebbe già un passo avanti, a lungo atteso) ma, in epoca di emergenza climatica, come riassetto, per l’appunto, di sistema: dalle fonti energetiche e dalle materie prime fino ai modelli di consumo e di vita associata.

Entra in gioco qui l’altro elemento di novità. Serve un maggiore margine di indebitamento: sarà concesso, stanti i vincoli comunitari (più che quelli formali, scritti in patti e trattati, quelli posti dagli equilibri politici, in un sistema economico interconnesso ma privo di un governo unitario)? Dovrebbe essere la domanda al centro dell’attenzione ma non lo è, se non in un senso molto superficiale (sarà capace questo governo di “sbattere i pugni sul tavolo”)? Pesa qui, spiace dirlo, il provincialismo che distingue il nostro discorso pubblico e che gioca un ruolo determinante nell’alimentare la versione nostrana del sovranismo. Non che si possano confondere: uno è “un modo di fare, un atteggiamento culturale” l’altro una “posizione politica”, ma il primo influenza le fortune politiche del secondo, tanto più se è alimentato dalle élite economiche e dal potere politico, come la grande stampa e l’informazione radiotelevisiva dimostrano.

L’Europa, di cui siamo cittadini non più entusiasti come un tempo (avendo scalato la classifica degli scettici fino al primo posto) attira il nostro interesse perché ci vorrebbe far aumentare l’IVA o perché ha deciso di far nascere il governo Conte. Sviare l’attenzione verso il potere sovranazionale distoglie dalle responsabilità e evita di entrare nel merito delle scelte politiche che l’Europa ha di fronte.

Stupisce quanto poca importanza sia data alle novità del quadro politico europeo post elezioni: che non è quello che speravano i sovranisti ma nemmeno è più quello che ha retto l’Europa nel corso di questo secolo. Resta così sullo sfondo l’instabilità di questa fase di passaggio e la profondità delle questioni in campo. E non acquista rilievo il ruolo che vi ha giocato e vi gioca l’Italia. Non è una novità: è rimasto in ombra, in passato, anche il ruolo avuto dal berlusconismo nel cambio di fase di inizio secolo, l’offensiva liberista a cui i socialdemocratici si sono prima piegati e poi allineati. Eppure, se è innegabile che l’Europa abbia avuto un ruolo nell’evoluzione politica di questa estate, quello che l’Italia aveva avuto prima, nell’evoluzione politica dell’Europa dopo le elezioni, non era stato affatto di peso minore. E senza quella evoluzione l’Europa non avrebbe potuto svolgere quel ruolo.

Lo sa Salvini, che sta pagando caro la sua boria e l’aver giocato d’azzardo, e lo sa Conte, che sfotte i fascisti di FdI invitandoli a chiedere a Orban come mai il “capitano” sia isolato in Europa. Ma di quel passaggio importante, con tutto il peso che ha sulle vicende odierne, si è parlato ben poco, anche se Il nuovo assetto nasce da un patto tra i popolari e una parte dei “sovranisti” (quelli al loro interno e il gruppo Visegrad) a cui aveva aderito, convinta, anche la Lega. Ancora poche ora prima dell’elezione della von der Leyen dichiaravano che l’avrebbero votata, avendo trattato e ottenuto contropartite, di linea e di poltrone. Ma all’ultimo momento il gruppo europeo cui appartengono, fondato dalla Le Pen ma con la Lega componente di gran lunga maggioritaria (nonché unico partito al governo, saldamente, e in crescita secondo i sondaggi) aveva deciso per il voto contrario.

Dunque Salvini ha rotto con quella intesa tra popolari e sovranisti perché nel suo raggruppamento europeo non comanda lui ma la Le Pen. Lo ha fatto ben prima di aver rotto con il governo Conte, tanto che l’ira contro di lui (solo in parte contro i 5S) risale alla sera stessa dell’elezione della nuova Presidente della Commissione. Certo, se i Cinquestelle si fossero comportati come nell’anno appena trascorso, come nel voto sulla Diciotti, la von der Leyen sarebbe stata bocciata e il nostro avrebbe potuto giocare un ruolo di primo piano. Ma la loro dichiarazione di voto a favore era già sulle agenzie di stampa e Conte aveva preso in mano le relazioni con l’Europa. Di lì a un mese Salvini ha dovuto varcare il Rubicone a ritroso, nel tentativo (rivelatosi disperato) di prendersi la rivincita in Italia.

Su tutto questo la componente nostrana dei Socialisti & Democratici, il PD, sceglie di glissare: l’accordo tra 5S e popolari europei sembra non riguardarli, così come deve far finta di niente Forza Italia. Ma ora è proprio al PD, ancora alla ricerca di una strategia politica, che tocca il compito di reggere il confronto con i paesi del nord e quelli (sovranisti) dell’est, uniti nel fare da guardiani dell’ortodossia liberista e della linea dell’austerità: devono sperare che le difficoltà della Germania, che pure rallentano l’economia mondiale, aprano tuttavia uno spiraglio per politiche più espansive.

In tutto questo c’è chi coltiva la speranza, inconfessabile, che possa essere la Lega, con l’appoggio della Le Pen, a mettere in crisi la dottrina liberista imperante in Europa. Ma se avvenisse, se tra PD e Cinquestelle la confusione prendesse il sopravvento regalando a Salvini un’altra crisi, stavolta senza soluzioni, l’Europa “se ne farebbe una ragione”: concluso il riassetto degli equilibri politici ritiene di saper convivere con le eccentricità che non minacciano i suoi affari “core”, tanto più che (ormai lo si è capito) Salvini è ora costretto a mettersi sotto l’ombrello della componente PPE in Italia.

Le conseguenze di un ritorno in auge di Salvini sarebbero dunque disastrose per l’Italia e per la nostra democrazia, molto meno per l’Europa. Ma se non ci si vuole rassegnare ad essere semplici spettatori, si dovrebbe avere in mente una strategia che funzioni da terapia preventiva.

Invece no. Quando Draghi, come suo ultimo atto in BCE, ripristina il bazooka monetario spaccando il board e alla parte che gli rimprovera l'inefficacia di un uso prolungato di questa misura risponde che, sì, ha perso gran parte della sua efficacia ma è la sola cosa che una banca centrale può fare perché è alla politica che spetta di modificare lo stato delle cose e le prospettive, in Italia si discute sul 2,2% deficit/pil rispetto al 2,04. Mentre i monetaristi, anche a sinistra, insistono che a stampare moneta a gogò sia la Banca d'Italia invece della BCE, perché così il mondo produttivo farebbe il miracolo di attingere a quei soldi, a cui oggi non fa ricorso non avendo in cantiere nuovi investimenti.

E se la von der Leyen decide come suo primo atto di attribuire alla Banca Europea degli Investimenti la missione di attivare mezzo trilione di investimenti ad alto impatto sull'equilibrio ambientale, mentre Conte all'ONU dichiara che l'Italia sarà in prima linea nel Green New Deal, il dibattito si concentra sulla tassa su merendine e bibite gassate (che dirà Big Food and Beverage? come la prenderanno le mamme?) piuttosto che su come recuperare i 18,7 miliardi di euro di incentivi alle fonti fossili per destinarli al Green (che diranno gli autotrasportatori?). Intanto cose ben più importanti incombono: Renzi lascia il PD, un direttorio affianca Di Maio, Salvini annuncia un referendum sulla legge elettorale: per la quinta volta in quindici anni gli italiani, non sapendo più per chi votare, potranno accapigliarsi sul come votare.

 

Giovedì, 24. Ottobre 2019
 

SOCIAL

 

CONTATTI