Il niboR dooH della Valtellina

Le incongruenze della riforma fiscale Tremonti che ha un solo effetto sicuro: è a favore dei ricchi
Facciamo qualche conto, cercando di spiegarci con alcuni esempi, sul pacchetto di riforme fiscali annunciate dal governo (per una valutazione più generale della politica economica, vedi l’altro articolo).

Per quanto riguarda la riforma dell’Irpef un modo sintetico di valutare le misure proposte è quello di individuare i beneficiari diretti delle medesime: le categorie sono quelle dei piccoli imprenditori (rappresentati soprattutto da commercianti e gli artigiani), dei professionisti, dell’alta dirigenza pubblica. I piccoli imprenditori beneficeranno non tanto dalla ristrutturazione dell’Irpef (o Ir, come sembra che la chiameremo in futuro), quanto dall’eliminazione dell’Irap (ammesso e non concesso che si realizzi), nonché dal concordato preventivo (vedi la scheda). In effetti, la gran parte dei piccoli imprenditori ha vissuto l’introduzione dell’Irap come un ulteriore prelievo sui propri redditi, anche quando, dati alla mano, risultava a loro vantaggio una diminuzione del prelievo dei contributi ed imposte sostituite; molto spesso cioè non si sono resi conto che l’aumento del reddito lordo era dovuto proprio all’eliminazione dei contributi sanitari. Si potrebbe discutere a lungo sull’incidenza dei contributi (sui salari, sui prezzi o sui profitti?), ma è probabile che una riduzione dell’Irap verrà in buona misura incamerata nei redditi degli imprenditori.
 
Più che due scaglioni d'imposta di fatto è un'aliquota unica
Il messaggio forte della legge delega è quello della riduzione a due scaglioni, 23% e 33%, che sono quelli annunziati da tempo; poiché oltre il 99% dei contribuenti si troverà nel primo scaglione, si può anche parlare di un’aliquota (quasi) unica. Sembrerebbe una grande semplificazione quindi; all’obiezione circa la scomparsa della progressività Tremonti risponde: niente affatto, perché le detrazioni d’imposta saranno trasformate in deduzioni dal reddito e concentrate sui redditi bassi (e medi). La trasformazione da detrazioni a deduzioni, fino a 100.000 euro, è come il passaggio dalle lire all’euro: non cambia nulla, salvo effetti psicologici e possibilità di raggiri; permettere di dedurre 4347,83 euro dall’imponibile o 1000 euro dall’imposta è perfettamente uguale.
 
La cosa cambia se il reddito supera i 100.000 euro; in questo caso la deduzione dal reddito diventa più conveniente, perché il risparmio d’imposta diventa di 1434,78 euro. Cambia anche per le addizionali degli enti locali, nel senso che la base imponibile si riduce e quindi, per ottenere lo stesso gettito, devono aumentare l’addizionale, con qualche effetto psicologico negativo.
 
Che succede con le nuove aliquote: un confronto con le vecchie
Concentriamoci per il momento sulle aliquote, con riferimento a quelle applicate nella dichiarazione 2001 (redditi 2000). Esaminiamo come si modifica l’incidenza media (considerando le sole aliquote): intuitivamente è chiaro che i redditi più elevati ottengono cospicui guadagni. Ad esempio a 69.722 euro, livello dal quale parte l’ultimo scaglione con l’aliquota marginale più alta (45,5%), l’incidenza era del 34%, mentre scende al 23% con un guadagno di 7669 euro. Se il reddito è il doppio (139.443) l’incidenza scende dal 39,75% al 25,56%, cioè di 14,19 punti percentuali con un risparmio d’imposta di 19.787 euro. Al crescere del reddito la differenza si attenua leggermente (a 278.886 si passa dal 42,6% al 29,3%) scendendo lentamente verso il 12,5%.
 
Che cosa succede sul versante dei redditi medio-inferiori? A 18.850 euro l’incidenza 2000 è al 23%; quindi sotto quella cifra iniziano le perdite, che divengono tanto più forti quanto più scende il reddito. E’ da notare che questo reddito è molto vicino al reddito medio dei lavoratori dipendenti (al netto dei contributi a loro carico, mentre la media di tutti i redditieri è sui 14.470 euro) il che vuol dire che la maggioranza dei lavoratori dipendenti, nonché degli autonomi (che, con l’eccezione dei professionisti, dichiarano in media circa i due terzi del lavoro dipendente) riceve un aggravio.
 
Nello schema di Tremonti cruciale il ruolo delle deduzioni
Questo vuol dire che nello schema di Tremonti diventa cruciale il ruolo delle deduzioni, in modo tale da poter distribuire il bonus fiscale in qualche misura anche ai redditi medio-bassi. Come fare le deduzione (che comunque avvantaggiano i redditieri più ricchi)? Eguali per tutti? A scendere col reddito (familiare?). La risposta è che le deduzioni saranno concentrate sui redditi medio-bassi per cui andranno a calare con l’aumento del reddito fino ad azzerarsi. Questo è già quello che accade con le detrazioni da lavoro, dipendente ed autonomo, con una numerosa serie di gradini. Però trasformare tutto l’ammontare delle detrazioni (stimabili nel 2001 a quasi 30 miliardi di euro) in deduzioni sul reddito a gradini determinerebbe dei salti di imposta bruschi, tali da fare stare peggio di prima chi riceve un aumento di reddito.
 
Per evitare questo inconveniente sembra che i tecnici di Tremonti abbiano optato per un sistema di deduzione che scende con continuità fino ad azzerarsi. Facciamo un esempio con riferimento ad esempi riportati dal Sole 24 Ore. Supponiamo quindi che un lavoratore dipendente sia esentato dall’imposta fino a 10.000 euro, tramite una deduzione dal reddito, ma che la deduzione si riduca costantemente fino ad annullarsi a 25.000 euro. Per fare questo si concede una deduzione di 16.667 euro, dalla quale però il lavoratore toglie una percentuale pari al rapporto tra il suo reddito e 25.000 euro. Pertanto se un soggetto ha un reddito pari a 10.000 euro toglierà dalla deduzione un 40% (10/25) e quindi toglierà 10.000 euro; quando il reddito diviene pari a 25.000 euro la percentuale diviene del 100% e la deduzione termina.
 
Questo sistema è certo più elegante dei gradini di riduzione, ma ha una inevitabile conseguenza: l’aliquota marginale tra 10.000 e 25.000 euro non è del 23%, ma a questa aliquota bisogna aggiungere la perdita di detrazione per ogni aumento del reddito; infatti per ogni 1000 euro in più si perdono 154 € di detrazione; pertanto l’aliquota marginale risulta del 38,4%. Si avrà quindi una struttura che non ha eguali al mondo: da 10.000 a 25.000 euro l’aliquota marginale sarà più alta di quella da 25.000 a 100.000 euro (cioè 23%), ed anche più alta di quella da 100.000 euro in poi (33%).
L’incidenza dell’imposta (cioè l’aliquota media) avrà quindi la forma esposta nella tabella allegata. Fino a 10.000 il lavoratore non paga, poi la sua aliquota cresce costantemente di un punto e mezzo ogni 1000 euro fino a 23% di incidenza; a questo punto abbiamo un lungo intervallo in cui la progressività dell’imposta scompare perché l’incidenza fino a 100.000 è al 23%. Dopo l’incidenza comincia a salire di nuovo fino al 33%(che non raggiunge mai, perché per quanto possa essere alto il reddito i primi 100.000 € sono tassati al 23%.
 
Un guaio risolvibile ma soltanto in teoria
C’è un modo di risolvere questo guaio? In teoria ce ne sono due: o si ripristinano gli scaglioni, o si fa una deduzione eguale per tutti. Ma la prima soluzione certamente non piace al ministro, mentre la seconda non se la può permettere, perché l’incidenza scenderebbe eccessivamente, e quindi la perdita di gettito sarebbe eccessiva. Per non perdere troppo gettito sarebbe necessario abbassare la deduzione, ma in questo caso verrebbero penalizzati i redditi più bassi, che addirittura si troverebbero a peggiorare rispetto alla prelievo del 2000. 
 
In sostanza lo sgravio di 18 o 20 miliardi di euro va per circa quattro quinti ai redditi medio-alti, e per un quinto ai redditi medio bassi; tra questi però il beneficio si concentra su una fascia specifica di redditieri (nell’esempio i lavoratori che stanno tra i 6200 euro di esenzione attuale e i 10.000 euro); la gran parte del redditi medi riceve solo delle briciole.
 
Aumenta il numero di chi non può sfruttare tutte le detrazioni
Un altro problema per Tremonti è dato dalla crescita dell’incapienza: tecnicamente il fenomeno si verifica quando le detrazioni di cui il soggetto gode sono superiori all’imposta lorda; in sostanza il reddito è troppo basso per usufruire pienamente delle detrazioni per lavoro, per carichi familiari, per oneri eccetera. La crescita dell’incapienza è avvenuta insieme al processo di aumento dell’aliquota del primo scaglione e di aumento delle detrazioni; essa ormai si attesta su alcuni miliardi di euro. La fissazione della prima aliquota al 23% e l’obiettivo proclamato di portare l’esenzione a circa 11000 euro (per chi non è chiaro, ma possiamo supporre che riguardi la famiglia di tre membri, che nel 2000 era esente fino a circa 8000 euro) determina una notevole crescita dell’incapienza, per una duplice ragione. Invece di un esempio numerico può essere utile un grafico.
 
Nel grafico poniamo il reddito sull’ascissa e l’imposta sull’ordinata; la retta continua indica il rapporto T/R che inizia ad essere positivo solo dopo A (essendo OA un reddito di 8000 euro, nell’esempio di sopra); continuando la retta sotto l’ascissa (il tratto AC) si individua un’area che rappresenta l’incapienza (vecchia incapienza o v.i., pari a OAC). Se il livello di reddito soglia viene aumentato fino a B (fino a 10000 euro), l’area dell’incapienza aumenterà per tutta la nuova incapienza (n.i.) per due ragioni: la prima è l’aumento della soglia (es. da 8000 a 10000), la seconda per via dell’aliquota più elevata, che passa al 23%.
 
I soggetti interessati si trovano tra i pensionati, tra i lavoratori precari, tra coloro che hanno più alti carichi familiari o oneri fiscalmente considerati. Nell’ambito quindi di una politica di lotta alla povertà l’aumento di quella che il Ministro chiama la “no-tax area” andrebbe accompagnata da un meccanismo di restituzione dell’incapienza. Ma ovviamente una spesa di questo genere non è compatibile con una struttura dell’imposizione delineata dalla legge delega.
 
La proposta di imposta a due scaglioni non è, per la verità, una pensata di Tremonti; vi è una letteratura economica che la indica come soluzione preferibile per contemperare efficienza ed equità. Ma a parte il fatto che non bisogna prendere per oro colato le indicazioni di quegli studi, va ricordato che secondo questa proposta nel secondo scaglione, con aliquota marginale più elevata, dovrebbe collocarsi una percentuale tra il 15% ed il 20% dei contribuenti, cioè una buona parte dei redditieri superiori alla media, non quindi lo 0,5%.
 
Professionisti e imprenditori beneficiati ma per motivi diversi
Si è accennato in precedenza che tra i beneficiari della riforma vi sono imprenditori (nell’accezione dell’anagrafe tributaria, cioè principalmente commercianti ed artigiani) e professionisti. Le ragioni sono diverse: per i professionisti infatti il beneficio deriva dall’eliminazione dell’Irap e dalla riduzione delle aliquote Irpef, di cui essi beneficiano perché in media hanno un reddito imponibile superiore alla media (chiaramente quanto più il redito è alto tanto maggiore sarà il beneficio). Per gli imprenditori il discorso è diverso: essi presentano redditi più bassi di quelli dei lavoratori dipendenti, e pertanto la revisione delle aliquote li danneggia; tuttavia dovrebbero trovare compensazione tramite le deduzioni, di cui dovrebbero usufruire in misura maggiore dei lavoratori dipendenti.
 
Ma il vantaggio di questa categoria è probabilmente un altro: nella relazione alla delega Tremonti, dopo aver fatto un generico accenno alla continuazione, anzi potenziamento, degli studi di settore, accenna ad un uso sistematico di un concordato “preventivo”; in sostanza l’idea sembra essere quella di una “catastizzazione” (triennale?) da concordare con le categorie interessate.
 
Ora va tenuto presente che gli studi di settore non sono una specie di bacchetta magica che fa scomparire in un attimo l’evasione; dovrebbero rappresentare uno strumento attraverso il quale innescare un processo graduale di eliminazione dei livelli di evasione più elevati, diminuendo quindi il grado di evasione media. Semplificando possiamo supporre che i contribuenti interessati debbano dichiarare due parametri: uno sono i ricavi, l’altro è un parametro fisico. Dato il secondo (che supponiamo accertato con precisione), per alcuni contribuenti i ricavi risultano “non congrui”.
L’adeguamento di questi contribuenti fa aumentare il livello medio dei ricavi, per cui il processo si ripete e porta tendenzialmente (il processo sarà più veloce all’inizio e poi sempre più lento, come in una curva logistica) i ricavi vicini a quelli “veri”. Congelare attraverso il concordato “preventivo” il livello raggiunto, e magari fare anche qualche sconto, porta alla paralisi del processo di adeguamento.
 
Ormai è cambiato il clima, si sente spirare aria di condoni
Ma c’è un altro aspetto preoccupante; l’applicazione degli studi di settore è avvenuto in un “clima politico” che dava un messaggio del tipo “conviene adeguarsi”. Da alcuni dati risulta in effetti che questo adeguamento ci sia stato, in una certa misura, e ciò ha portato a maggiori imposte pagate dai contribuenti; come ha dichiarato a chi scrive un barbiere: “prima il commercialista mi diceva che almeno quattro tagli al giorno dovevo dichiararli, adesso siamo arrivati a otto”. Alcuni indizi farebbero pensare che il clima stia cambiando, o almeno così pensano alcuni contribuenti. Non hanno tutti i torti; in fondo i provvedimenti sul sommerso contengono un condono, e quelli sul rientro dei capitali prende anche il nome rivelatore di scudo fiscale (ed in questo caso non si tratta dell’evasione del barbiere di una zona semipopolare, ma di “grossi” operatori).
Si potrebbe replicare a queste osservazioni dicendo che la riduzione delle aliquote sarà la migliore arma anti evasione, riducendo l’incentivo al comportamento illegale del contribuente tartassato; questa tesi, popolarizzata dal Sole 24 Ore, può essere esemplificata così: ho un reddito di 20.000 euro; dovrei pagarne 2000, ma ne voglio pagare solo 1000, e pertanto evado metà del mio reddito. Se l’aliquota viene dimezzata, non ho più bisogno di evadere.
 
Se passiamo alle aliquote 2000, un reddito di 10.000 aveva un’imposta lorda di 1850; con l’aliquota al 23% l’imposta sale a 2300; se il mio reddito è di 20.000, se non voglio aumenti di imposta devo aumentare l’evasione di quasi il 10%. Questo risultato non è sorprendente, in quanto è una conseguenza dell’aumento dell’aliquota rispetto a quella base dell’Irpef (che negli anni successivi al 2000 sarebbe scesa al 18%).
 
Sulla tassazione delle imprese “tabula rasa” delle norme di Visco
Passiamo ora alla riforma dell’Irpeg (che cambia anch’essa nome, ritornando ad essere imposta sulle società, visto che le non società vengono spostate sulla ex Irpef); qui la relazione cambia impostazione, perdendo quei toni alla “così parlò Zaratustra”, con citazioni bibliche, sproloqui sulla Tobin Tax (che non ci “azzeccano” nulla) e vaghezza estrema sui contenuti, che caratterizzano la parte sull’Irpef. Il discorso si fa più circostanziato e ragionevole, nel senso che permette una discussione di merito circostanziata, con cose condivisibili ed altre meno. Non volendo entrare nei dettagli, ci si può limitare ad alcune considerazioni generali.
 
La prima riguarda l’eliminazione della Dit a due aliquote e l’applicazione di un’aliquota unica; la logica della Dit, a regime, è quella di tassare il reddito dell’impresa dividendolo in due parti: una che corrisponde al rendimento che il proprietario del capitale investito otterrebbe se, invece dell’attività d’impresa, si limitasse a sottoscrivere dei titoli come i BTP a 10 anni (il tasso di rendimento può essere aumentato fino a tre punti per tener conto di un elemento di rischio); l’altra che rappresenta l’eventuale maggior profitto realizzato dall’impresa. Sulla prima l’aliquota è ridotta e, in teoria, dovrebbe corrispondere a quella che grava sui rendimenti dei titoli; sulla seconda l’aliquota è più elevata. La divisione viene effettuata prendendo il capitale di rischio dell’impresa e applicando il tasso di rendimento fissato dalle Finanze.
Nella relazione Tremonti afferma che così si favorisce la “dimensione d’impresa prevalentemente finanziaria o tecnologica”. L’affermazione, come a volte capita al ministro, è oscura; inoltre Tremonti ha più volte affermato che ritiene ingiusto che se uno investe in un capannone viene (tar)tassato, mentre se investe in BOT è (de)tassato. Ebbene, la Dit italiana va proprio incontro a questa ragionevole e condivisibile proposizione di Tremonti.
 
La seconda riguarda invece la logica della tassazione delle società da un punto di vista europeo. Sembra che il ministro propenda per l’applicazione della cosiddetta CIN (capital import neutrality), per cui tutti i redditi prodotti in un paese vengono tassati con l’aliquota del paese; l’altra soluzione è quella della CEN (capital export neutrality), criterio in base al quale tutti i redditi di una società, ovunque conseguiti, vengono tassati in base ai criteri del paese della casa madre.
 
Si tratta di criteri che hanno logiche e implicazioni diverse, sulle quali esiste da tempo una ampia discussione. La CIN esalta la concorrenza fiscale, e quindi la scelta di Tremonti sembra coerente con le visione generale della destra. Il problema nasce dal fatto che negli accordi europei di Feira dell’autunno 2000 sui redditi (solo i redditi) da attività finanziarie, il criterio ispiratore è quello della CEN. Nasce quindi il problema di come Tremonti possa coniugare la CIN sulle società e la CEN sui redditi finanziari.
 
Per quanto riguarda il reddito d’impresa le misure previste non alterano sostanzialmente il carico fiscale complessivo; l’eliminazione della DIT viene compensata dalla riduzione della base imponibile dell’IRAP (20% del costo del lavoro), anche se, ovviamente, ci saranno rilevanti effetti tra imprese ed imprese. Una cosa curiosa accade poi alle piccole imprese: se la politica dell’Ulivo era stata quella di equiparare le imprese individuali alle s.r.l., con quella del Polo invece queste ultime vengono trattate in modo più pesante delle prime, con la conseguenza di spingere le s.r.l. a trasformarsi (o ritrasformarsi) in imprese individuali. Infatti il reddito delle imprese individuali viene tassato al 23%; quello delle s.r.l. invece al 33%, mentre il reddito distribuito ai soci pagherà un 23% su una metà, con un’incidenza complessiva del 41,9%.
 
Per i redditi finanziari una misura buona e una pessima
Per quanto riguarda invece i redditi da attività finanziarie abbiamo una misura opportuna ed una invece pessima: quella positiva è l’eliminazione delle due aliquote (al 27% ed al 12,5%); quella negativa è che l’unica aliquota viene fissata al livello più basso, cioè del 12,5%.
 
Ma non basta, perché in realtà questo 12,5% sarà solo formale, mentre sostanzialmente si pagherà molto di meno. Infatti Tremonti, nella sua ansia di cancellare tutte le riforme fatte dal suo predecessore, vuole eliminare la novità più rilevante della riforma di Visco, che consisteva nella tassazione del risparmio gestito (Fondi d’investimento e gestioni patrimoniali) annualmente sul maggior valore conseguito (c.d. tassazione del maturato); in questo modo su redditi e plusvalenze di un anno cade un’aliquota del 12,5%.
 
L’implicazione di questa impostazione è (o meglio era) che sui rendimenti del risparmio amministrato (ovvero del non gestito) realizzati oltre l’anno veniva applicato un “equalizzatore” che in sostanza aveva la funzione di far gravare un’incidenza fiscale pari al 12,5% annuale anche sulle plusvalenze realizzate dopo due, tre o più anni. La legge delega cancella la tassazione sul maturato per tassare solo il realizzato: se in media il risparmio gestito viene ritirato dopo 5 anni, l’aliquota del 12,5%, che si applicherà al momento del ritiro del risparmio, avrà un peso effettivo, al presente, all’incirca dimezzato.
 
In sostanza quindi quello che Tremonti propone è una robusta detassazione di questi redditi da capitale; come conseguenza di questa scelta deve ovviamente concedere ulteriori sgravi fiscali al risparmio previdenziale (Fondi pensione e assicurazioni). Infatti se non vi è un sostanzioso trattamento fiscale di favore non vi è ragione (salvo il non fidarsi di se stessi) per la quale un lavoratore debba scegliere un forma di risparmio vincolato (sei obbligato a versare ogni anno e aspettare il momento del pensionamento) rispetto ad una forma di risparmio libero (versi quando vuoi e ritiri quando vuoi). Pertanto nella legge delega si prevede un trattamento di ancor maggior favore, che nella relazione viene concretizzato nel fatto che il montante finale del lavoratore viene diviso nelle due parti corrispondenti alla somma dei versamenti e all’insieme dei rendimenti; questa seconda parte viene tassata con un’aliquota più bassa di quella normale del 12,5%; in pratica è quasi una completa detassazione.
Lunedì, 24. Giugno 2002
 

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