Il lavoro precario secondo Zapatero

In Spagna governo e parti sociali hanno firmato un accordo di riforma del mercato del lavoro che mette paletti contro l'eccessiva flessibilità e incentiva il tempo indeterminato. E' urgente farlo anche in Italia, anche se non si tratta di copiare ricette altrui. Alcune proposte specifiche
La reforma laboral nell'acuerdo social spagnolo del maggio 2006
Il governo Zapatero, molto attivo e coraggioso in una serie di settori (dalla politica estera ai diritti civili, alle autonomie nello Stato) era stato fin qui alquanto inerte sulle politiche del lavoro.
 
Anche in questo caso tuttavia Zapatero ha applicato puntualmente quanto scritto nel suo programma, dove aveva annunciato che il nuovo governo avrebbe adottato le misure di contrasto alla precarietà del lavoro concordate sul piano della concertazione sociale. Ci sono voluti quasi due anni di negoziazione. Ma ora l'acuerdo social c'è (vedi il testo, in spagnolo, nella sezione Documenti). Alcuni amici spagnoli dicono che "la montagna ha partorito il topolino". Il punto di vista italiano, dopo cinque anni di governo Berlusconi e di enfasi sulla flessibilità del lavoro intesa come valore in sé e taumaturgico fattore di sviluppo, è alquanto differente.
 
Di quell'accordo va infatti colto il messaggio essenziale. Lo stesso che è venuto dalla rivolta degli studenti della Sorbona contro il contratto di "primo impiego", fondato sulla libera licenziabilità per due anni dei neo-assunti, che il governo francese ha dovuto poi ritirare (vedi J.Freyssinet, La rivolta in Francia e le origini del CPE). Lo stesso messaggio venuto dal "no" del referendum francese alla proposta di nuova Costituzione europea, largamente fondato sulla preoccupazione che dietro a quel testo si celasse la politica di dumping sociale espressa dalla direttiva Bolkestein, quella di prima versione fondata sulla normativa del "paese d'origine", e simbolicamente espressa nella figura dell'"idraulico polacco".
 
Tutti questi messaggi hanno un significato univoco: l'Europa continentale non tollera la destrutturazione del suo modello sociale. Questo modello può essere riformato, ma non distrutto. All'Europa serve quindi una politica di valorizzazione e stabilizzazione del lavoro, non una politica di generalizzata flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro, ad imitazione del modello americano, per un motivo anzitutto culturale e poi materiale: l'Europa può vincere la sfida della competitività globale solo puntando sul livello alto, della qualità del lavoro, della qualità sociale e produttiva, mentre la competizione bassa, fondata sul taglio delle garanzie e dei diritti sociali la vede perdente.
 
In questa direzione si collocano le misure di contrasto alla precarietà e di incentivo alla stabilizzazione dei rapporti di lavoro previste nell'acuerdo social, che possono essere riassunte nei seguenti termini. In sostanza vengono stabiliti una serie di interventi diretti a favorire la stabilizzazione dei rapporti di lavoro. Si introducono vari incentivi, in termini di fiscalizzazione degli oneri contributivi e anche di diretto finanziamento alle imprese che assumono lavoratori con contratti a tempo indeterminato ovvero convertono rapporti a termine in rapporti stabili. A questo fine si introduce la regola per cui se un contratto di lavoro temporaneo è stato reiterato per più di 24 mesi entro 30 mesi con la stessa impresa e per lo stesso posto di lavoro, quel contratto viene obbligatoriamente trasformato in un contratto a tempo indeterminato.
 
Si prevede poi, per contrastare le politiche di esternalizzazione fraudolenta, oltre a introdurre una serie di previsioni in materia di diritti sindacali nelle unità produttive coinvolte nella catena dei subappalti, di introdurre nello Statuto dei lavoratori una norma sulla cession illegal de los trabajadores che assomiglia come una goccia d'acqua al divieto delle "mere prestazioni di lavoro" contenuto nella legge italiana n.1369/1960, e poi abrogato dalla legge n.30/2003. Infine si prevedono una serie di interventi diretti a potenziare l'attività dei servizi pubblici dell'impiego, degli ispettorati del lavoro e le politiche di intervento attivo sul mercato del lavoro, a partire dalla formazione.
 
Da segnalare è il fatto che nessuna misura è prevista rispetto al lavoro parasubordinato o para-autonomo, cosiddetto sans prhase. Tutti gli interventi riguardano il lavoro subordinato, che è il vero oggetto della precarietà, non solo in Spagna, dove l'attività economica è trainata soprattutto dalla edilizia e dal settore turistico, e dove quindi fioriscono i lavori subordinati nelle forme più tradizionali, compreso l'impiego clandestino dei lavoratori extracomunitari, a dispetto delle eleganti disquisizioni sul post-fordismo. Resta invece nel cassetto una proposta di intervento legislativo sul "trabajo autonomo dependiente",  talora enfatizzata in Italia, mentre procede alle Cortes un disegno di legge di regolamentazione degli appalti in edilizia, fondato tra le altre cose sul divieto di superare tre subappalti nella catena del decentramento delle imprese edili.
 
Dalla Spagna all'Italia
Con questo non si vuole dire che dalla Spagna venga un insegnamento da applicare meccanicamente. E' del resto sbagliata ogni attitudine scolasticista nel diritto del lavoro comparato. Non faremo quindi ciò che abbiamo rimproverato agli altri quando ci raccontavano la favola della flessibilità come panacea, ammonendoci che "in Olanda, in Gran Bretagna e più in generale in Europa si fa così".
 
Va segnalata, intanto, una prima rilevante differenza tra Italia e Spagna. Zapatero ha atteso per quasi due anni, quindi forse troppo a lungo, l'acuerdo social. Ma lì l'accordo, pure preceduto da una lunga e complessa negoziazione, è stato firmato dal governo, dalla Confindustria spagnola e da due sindacati, Commissiones Obreras e UGT, perché in Spagna esiste una legge sulla rappresentatività sindacale tale da legittimare al tavolo della concertazione, appunto, solo due grandi confederazioni sindacali. Quante associazioni sindacali e di interessi si devono convocare invece in Italia nelle sedi  della concertazione? Il governo D'Alema nel 1999 ne convocò ben 40, e altrettanto ha fatto poi il governo di centrodestra, avendo quindi buon gioco nel dividere gli interlocutori e nel togliere ogni effettività a una prassi seria di concertazione.
Se ne deduce, a contrario, che in Italia una seria concertazione può essere rilanciata solo da una forte decisione politica del governo. Tocca quindi in Italia alla politica assumersi una specifica responsabilità, da esercitarsi tempestivamente anche in ragione delle molte attese suscitate dal programma sulla base del quale è stato eletto il nuovo governo.
 
A giudizio di chi scrive la decisione politica essenziale del governo Prodi dovrebbe quindi consistere in questo. Non fare intanto nessun nuovo "libro bianco del lavoro", ma semmai riassumere in un documento sobrio e succinto le intenzioni di fondo del governo in materia di politica del lavoro per la corrente legislatura. Quindi adottare subito, per decreto-legge, alcune misure abrogative delle parti della legge n. 30 del 2003  più segnate dalla criterio della flessibilità indiscriminata del lavoro: il lavoro a chiamata, la somministrazione a tempo indeterminato, la liberalizzazione del lavoro straordinario nel part time, la definizione degli enti bilaterali come "soggetti privilegiati nella gestione del mercato del lavoro", tanto per limitarsi ad alcuni esempi.
 
In questo stesso decreto-legge occorrerebbe adottare la misura essenziale per contrastare l'uso eccessivo dei contratti di lavoro precario e per riabituare le imprese a considerare che il fattore lavoro è il primo, e non l'ultimo, requisito di una efficace gestione aziendale:  l'innalzamento del costo, in termini anzitutto contributivi, per i contratti a termine e precari, nelle varie tipologie, comprese le collaborazioni coordinate e continuative e i lavori a progetto, come annunciato nel programma elettorale del centrosinistra.
 
Poi presentare un disegno di legge in cui affrontare alcune questioni di fondo delle politiche del   lavoro per cui si richiede una riscrittura e non una semplice abrogazione. Di tali questioni si  possono qui citare solo i titoli: ridefinizione del campo di applicazione del diritto del lavoro (art.2094 c.c.), riforma del lavoro a termine, del lavoro interinale e in generale del lavoro in appalto, delle esternalizzazioni e dei trasferimenti d'impresa,  dei servizi pubblici dell'impiego (per approfondimenti rinvio alla mia Introduzione a "Dopo la flessibilità, cosa? Le nuove politiche del lavoro", Il Mulino, 2006). In ogni caso non si dovrebbe presentare un ennesimo disegno di legge-delega: la tecnica del legge delega, con il successivo reiterarsi di pletorici decreti legislativi, poi sottoposti a successive modifiche, va scongiurata una volta per tutte, essendo all'origine della sviluppo caotico delle normative.
 
Su questo disegno di legge e sul documento politico che lo accompagna andrebbe  aperto il confronto in sede di concertazione sociale e di Parlamento. Fare entro l'anno una buona legge di riforma del lavoro, scritta in 30-40 sobri articoli,  e stipulare un nuovo accordo di concertazione: questo mi sembra un buon programma di governo.  
Mercoledì, 24. Maggio 2006
 

SOCIAL

 

CONTATTI