Il lavoro in frantumi non nobilita più

Dove stiamo andando/7 – E’ messo radicalmente in discussione il principio centrale al quale l’idea della “piena occupazione” era legata. Essa includeva infatti una relativa sicurezza per le persone, compresa la possibilità di progettare la propria vita. Un’evoluzione che lo rende sempre meno in grado di offrire il perno intorno al quale legare la definizione di sé e ha anche effetti disastrosi sul tessuto democratico di un paese

(Settimo articolo di una serie – il primo – il secondo – il terzo – il quarto – il quinto – il sesto)

 

Malgrado i cosiddetti esperti del “palazzo” rimangano inclini a sostenere il contrario, si può ritenere che ci si sia ormai incamminati verso la fine della società della “piena occupazione”. Quanto meno intesa nel senso classico. Vale a dire quella auspicata e garantita nella seconda metà del secolo scorso. In particolare nei i paesi occidentali.

 

In effetti, nella cultura politica e sociale di quegli anni, il principio ed il significato di “piena occupazione” coincideva sostanzialmente con “lavoro normale”, “stabile”. Stabilità che consentiva ad ognuno di apprendere e praticare un mestiere. Sia manuale che intellettuale. Con la ragionevole speranza di poterlo effettuare per tutta la vita. O, tutt’al più, con la probabilità di cambiarlo al massimo un paio di volte. Il che gli avrebbe comunque garantito, assieme alla realizzazione di stesso, le condizioni materiali dell’esistenza. Non esclusa una plausibile speranza di miglioramento nel futuro.

Ora il lavoratore si ritrova invece in una condizione totalmente diversa. Perché quella modalità di occupazione è stata completamente rivoluzionata: dal nomadismo del capitale e dalla sedentarietà del lavoro, dalla tecnologia informatica, dalla globalizzazione economico-finanziaria, dalla frammentazione del mercato del lavoro. Una delle principali conseguenze è che il lavoro si è flessibilizzato, spezzettato, nelle sue dimensioni: spaziali, temporali, contrattuali. Si assiste così al dilagare del lavoro intermittente, precario, falsamente autonomo, a tempo determinato. A volte persino senza alcun contratto. Posto cioè nella zona grigia del lavoro informale. Crescono infatti i “lavoretti”. Quelli di poche centinaia di euro al mese. Lavoretti che si stanno diffondendo a macchia d’olio. E non solo in settori, come l’agricoltura o alcuni ambiti dei servizi, in cui può essere richiesta una bassa qualificazione.

 

La diffusione di queste forme di attività mette quindi radicalmente in discussione il principio centrale al quale l’idea della “piena occupazione”, perseguita nel corso della società industriale, era legata. Essa includeva infatti una relativa sicurezza per le persone, compresa la possibilità di progettare la propria vita. Questa rottura ha contribuito in maniera significativa al mutamento della natura e del significato del lavoro dipendente. Tanto nella sfera individuale, che in quella sociale. Al punto che il termine “arrabattarsi” può risultare persino più adatto a caratterizzare la mutata sostanza del lavoro. Sia perché, valutato realisticamente e nei suoi termini attuali, lo sfronda dal mito di riscatto universale per il genere umano e da quello non meno grandioso di una vocazione lunga una vita. Poi perché, liberato dai suoi orpelli escatologici e recise le sue radici metafisiche, il lavoro ha definitivamente perso la centralità attribuitagli all’epoca della società e del capitalismo industriale. Proprio questa evoluzione lo rende sempre meno in grado di offrire il perno intorno al quale legare la definizione di sé. La propria identità, i propri progetti di vita: individuale, familiare e sociale. Naturalmente il risultato di questo mutamento rende anche sempre più difficile immaginarlo nel ruolo di fondamento etico della società. O di asse etico della vita individuale. Malgrado l’uno e l’altro aspetto continuino a restare preminenti nella retorica del discorso pubblico e nella letteratura sul lavoro.

 

Considerati i termini reali dell’evoluzione in atto, non sorprende affatto quindi che per molti, inclusa soprattutto una buona parte di giovani, il lavoro abbia acquisito (insieme ad altre attività della vita) un significato principalmente estetico. Essi si aspettano infatti che possa essere gratificante di per sé, anziché essere valutato in base agli effetti reali o presunti che può arrecare al prossimo, allo sviluppo del paese. Per non parlare di felicità delle generazioni successive. D’altra parte, solo pochissime persone e solo assai di rado, possono vantare il privilegio, il prestigio, l’onore, di svolgere un lavoro importante e vantaggioso per l’intera comunità. Oltre tutto, sempre più raramente ci si può attendere che il lavoro (che nella maggior parte dei casi è appunto spezzettato, frantumato, privo di significati percettibili) “nobiliti” chi lo esercita. Lo renda cioè una persona migliore. Tant’è vero che piuttosto infrequentemente c’è chi può essere ammirato ed elogiato per tale motivo. Mentre, sempre più spesso, molti misurano e valutano il lavoro soprattutto in base alla capacità di “intrattenere e divertire”. Di “soddisfare”. Non tanto la vocazione etica del produttore, quanto i bisogni estetici del consumatore. In particolare di chi cerca sensazioni e colleziona esperienze. Resta il fatto che poiché i lavori creativi e gratificanti per chi li svolge sono piuttosto rari, in molte persone tende a crescere la delusione, l’insoddisfazione, la frustrazione. Sia per il lavoro che manca, che per la qualità del lavoro effettivamente disponibile.

 

Non sorprende perciò più di tanto che in una conferenza sul significato del lavoro esso sia stato definito da un giovane come “quella cosa che preferiremmo non fare”. In effetti, a dispetto di quanti sostengono di amare il proprio lavoro, questa definizione negativa appare la più aderente ai sentimenti di gran parte dei lavoratori. Per lo meno della maggioranza di chi ogni mattina è costretto ad abbandonare di malavoglia il letto. Osserva nello specchio con rassegnazione le proprie borse sotto gli occhi. Si scaraventa fuori dalla porta di casa. Mugugna frustrato ad ogni ingorgo. Oppure è costretto a lottare per un posto su un treno dei pendolari sporco, sovraffollato, e quasi sempre in ritardo. Poi per riuscire a prendere posto su un autobus. Questa descrizione della vita quotidiana calza probabilmente a pennello per coloro che, nel corso della giornata, rivolgono sguardi speranzosi alla lancetta dei minuti che avanza, lenta ma inesorabile verso l’ora d’uscita. Per coloro che temono l’arrivo alle spalle del capo. Per coloro, e sono probabilmente la maggioranza, che si ritrovano a compiere una lavoro parcellizzato, ripetitivo, assolutamente privo di senso.

 

Sappiamo bene che questa rappresentazione, per quanto realistica, non trova nessun riscontro nella retorica sul lavoro che dilaga nel dibattito pubblico. Non trova riscontro nella sua enfasi etico-epica. Questo cosa significa? Che rispetto alle sensazioni, ai sentimenti veri delle persone il problema è inutilmente amplificato? Assolutamente no. Per almeno un duplice ordine di ragioni. La prima è che, malgrado tante cose siano cambiate e stiano cambiando – inclusi la cultura del lavoro, il rapporto tra l’uomo ed il lavoro, l’organizzazione e la qualità del lavoro – il lavoro (anche nella società contemporanea) continua a restare un elemento essenziale per la definizione di sé. Della  propria identità. Infatti nei rapporti sociali continuiamo ad “essere” anche in rapporto a ciò che facciamo. A cominciare dal fatto che abbiamo o non abbiamo un lavoro. Anche perché esso rimane un elemento insostituibile per il proprio reddito e per i propri progetti di vita.

 

Naturalmente essere senza lavoro non significa morire necessariamente di fame, come spesso capitava invece alle generazioni precedenti. Ma significa sempre sentirsi personalmente e socialmente esclusi. Il che spiega perché, nelle purtroppo sempre maggiori situazioni di chiusure di imprese, i lavoratori coinvolti esprimano tutta la loro angoscia, il loro sconforto. Che, in alcuni casi, arriva fino ad ipotizzare gesti disperati. Soprattutto quando le persone implicate non riescono più ad immaginare come fare fronte  alla sequela di disavventure che possono ricadere sulla propria vita e su quella dei propri familiari.

 

Collegata a questa, ed è la seconda ragione, la perdita e la mancanza del lavoro ha effetti disastrosi sul tessuto democratico di un paese. Purtroppo questo aspetto non viene normalmente discusso con la necessaria consapevolezza. Infatti, come ha spiegato largamente e chiaramente Ulrich Beck, il lavoro retribuito è la precondizione perché una democrazia possa essere vitale. In fin dei conti le sicurezze sociali, compresa una relativa assicurazione per i rischi del mercato del lavoro, sono il presupposto perché i diritti e le libertà politiche diventino una realtà effettiva. D’altra parte la società del lavoro (che in Italia è sancita niente meno che nel primo articolo della Costituzione) presuppone il lavoro e, dunque, cittadini lavoratori. Ed il “cittadino lavoratore” è colui che, da un lato, cerca di costruire condizioni di vita accettabili per sé e per la sua famiglia. Dall’altro, partecipa alla vita politica e democratica con l’intento di rendere praticabili speranze condivise. Da questo punto di vista non si sottolineerà mai abbastanza che lo Stato sociale non è soltanto una assicurazione contro i rischi del mercato del lavoro. Ma è la pietra angolare della democrazia. Perché se una persona non ha un lavoro e quindi un reddito, non ha un tetto sulla testa, non può vestire e nutrire adeguatamente i suoi figli, è piuttosto difficile aspettarsi che possa impegnarsi attivamente come cittadino.

                                                                                                                                                          (segue)

Martedì, 4. Settembre 2012
 

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