Per il fisco un po’ di amarcord

La politica fiscale è obbligata al sentiero stretto del consolidamento dei conti, visto che da patrimoniale, Tobin tax e dismissioni c’è poco da sperare, ma dovrebbe esserne rimodulato il peso. Potrebbero servire alcuni strumenti tributari del recente passato

Sulla diagnosi dei fattori strutturali della crisi mi sembra, come ho ricordato più volte, che vi sia una concordanza pressocchè unanime fra economisti e opinion makers a livello internazionale ed anche per quanto concerne il nostro Paese. Unanimismo che scompare quando si passi alle prognosi ed alle terapie.

    

Nell'articolo pubblicato in questa rivista, Guido Rey sottolinea gli "effetti reali della distribuzione funzionale, territoriale e personale del reddito sia sulla domanda effettiva che sulla crescita economica". Appare meno convincente la tesi secondo la quale la stretta monetaria sposterebbe la distribuzione del valore aggiunto "da profitti a salari". Almeno nel caso italiano (Istat) nel breve periodo sembra vero il contrario: al crollo dei profitti occorre comparare la perdita del potere d'acquisto, il salario zero dei disoccupati e quello ridotto dei cassaintegrati. In una pagina successiva, lo stesso Rey sembra peraltro dimenticare la redistribuzione "personale" del reddito. Infine, sull'importanza per la ripresa della redistribuzione della ricchezza, concorda, in buona compagnia, De Benedetti nel recente volume "Mettersi in gioco", Einaudi, 2012. In questa sostanziale vigilia pre-elettorale non mancano inoltre acrobazie tributarie, anche senza rete, di Alfano, Brunetta e, su altra sponda, Fassina e Camusso.

 

Alle tesi redistributive non pochi economisti obiettano che proprio la lunga recessione avrebbe parzialmente eroso la ricchezza personale e societaria. Cosicché se poco rimane da redistribuire, a che servirebbe una manovra di questo tipo? Meglio stimolare la concorrenza, ridurre i costi per le imprese, agevolare i movimenti di capitale, accrescere la flessibilità del lavoro.

    

La risposta a queste tesi è nei fatti. La dinamica dei consumi di lusso rimane alta. La flessibilità del lavoro, compreso quello nero, è già vicina o ha quasi superato la soglia della chiamata dei lavoratori ad horas di una nota parabola evangelica. La mistificazione della produttività centrata su un solo fattore di produzione è ormai reputata poco credibile (cfr. Donnini - Selan su questa stessa rivista). Le soluzioni monetaristiche appaiono insufficienti a risolvere crisi della durata e dell'ampiezza di quella attuale, anche se non dobbiamo dimenticare che proprio dall'eccesso di finanziarizzazione dell'economia la crisi stessa ha tratto spunto e vigore.

    

La leva fiscale, riverniciata come "fiscal compact" è stata utilizzata per riallineare le componenti macro gravemente squilibrate, viste come aggregati indistinti. Quando essa agisce in tempi brevi e senza particolari accorgimenti assomiglia più ad un intervento chirurgico che ad una terapia organica. Questa forma di accanimento terapeutico può essere fatale. Non vorremmo giungere alla paradossale situazione nella quale qualche illustre clinico dichiari che l'operazione è perfettamente riuscita, ma il paziente è purtroppo deceduto.

    

Se, dunque, la pressione fiscale è giudicata molto elevata, ma i parametri di equilibrio dei flussi di entrata e di spesa rimangono cogenti, non restano che due soluzioni: a) una ulteriore drastica riduzione della spesa pubblica, con il rischio di conseguire un precario equilibrio di bilancio fra le macerie dello Stato sociale e con un'economia reale decisamente anoressica; b) una radicale rimodulazione della struttura tributaria così da alleviarne il peso sui fattori socio-economici atti a favorire la ripresa. Se una notevole riduzione del peso fiscale è difficile in tempi brevi, occorrerà ricordarsi che quando il basto è pesante occorre appoggiarlo bene sulla schiena dell'asino.

 

Sgombriamo preliminarmente il campo da tre feticci che incombono un po' artificiosamente sui dibattiti in materia di politica fiscale. Il fantasma della patrimoniale turba i sonni dei furbetti del quartierino e di qualche giovane politico rampante con biglietti prenotati per le Cayman. Non sembra destinato a materializzarsi, soprattutto per obiettive difficoltà tecniche. Per quanto riguarda la Tobin tax, essa è la tipica imposta-cancello: quanto più sarà efficace nel frenare la speculazione, tanto minore sarà il suo gettito. Le dismissioni del patrimonio pubblico non daranno a breve risultati eccezionali: il loro cammino procederà lentamente nella foresta delle modifiche delle destinazioni d'uso. Comunque per ogni miliardo di euro di patrimonio pubblico venduto il disavanzo corrente potrà ridursi solo di una quarantina di milioni.

 

Ritornando ora all'alternativa precedentemente indicata, potremmo formulare una proposta sintetizzabile nell'espressione francese "réculer pour mieux sauter": rinverdire, cioè, sistemi tributari del recente passato, parzialmente annientati dalle ventate iconoclastiche del tremontismo. Esamineremo alcuni di questi strumenti nei loro aspetti non solo formali.

    

Iniziamo con l'Irpef. Il ventaglio delle aliquote era notevolmente più ampio, in basso come in alto (dal 10% al 72%). Probabilmente le aliquote massime (alla Hollande) risulterebbero eccessive; ma è possibile una revisione in aumento, anche ampliando gli scaglioni. L'operazione si accompagna naturalmente con una sostanziale emersione di imponibile evaso. Con l'occasione si potrebbe correggere un'iniquità, equiparando la no tax area tra lavoro dipendente e pensionati.

    

L'Irap potrebbe essere abolita. Essa fu introdotta per venire incontro alle richieste di semplificazione delle associazioni imprenditoriali. Subentrò ad un certo numero di tributi e inizialmente risultò inferiore al loro gettito complessivo. Oggi non sembra essere gradita e viene additata come un vampiro che succhia il sangue (blu?) degli imprenditori italiani. Essa va di pari passo con l'odiato cuneo fiscale, nel quale vengono maliziosamente cumulate poste contabili diverse, come quote di salario differito, assicurazioni infortuni sul lavoro, etc. A questo punto si potrebbe riproporre l'Ilor (a suo tempo un tipico tributo locale). Paradossalmente esso era più equo ed efficace di quello che lo ha sostituito. Prevedeva, infatti, la discriminazione qualitativa dei redditi, colpendo in maggior misura quelli da puro capitale; in misura minore quelli misti di capitale e lavoro, e cioè di impresa ed ancora minore quelli di solo lavoro.

 

Ma se la leva redistributiva deve agire con efficacia, sia pure con gradualità, occorrerà accentuare gli elementi di progressività anche in altre due principali imposte: Iva ed Imu.     L'Iva già attualmente è abbastanza progressiva, perchè taluni beni primari hanno aliquote più basse. Si può fare di più? Probabilmente sì. Anche questo governo sembra stia muovendo qualche passo felpato in questa direzione. Si potrebbe abolirla sui beni primari per stimolare la domanda ed accrescerla sensibilmente su quelli di lusso (la curva di domanda delle Maserati risulta piuttosto rigida rispetto al prezzo). L'azione va comunque concordata a livello comunitario e ben calibrata per evitare l'insorgere di quasi-rendite nei settori fungibili.

    

Per quanto riguarda l'Imu l'opinione pubblica non è sempre consapevole del fatto che alcuni provvedimenti del governo Monti sono ereditati da quello precedente. La trasformazione dell'Ici (introdotta, ridotta e poi abolita) in Imu fu voluta dalla Lega Nord e prevista nell'ultima finanziaria di Tremonti attualmente in vigore. Si sono perse, però, due grandi occasioni, non avendo voluto o potuto tener conto del proverbio popolare secondo il quale "la gatta presciolosa fece i figli ciechi".

 

Si sarebbe potuto in primo luogo aggiornare gli estimi non con un uniforme 60%, ma correggendo le anomalie tra centro e periferie soprattutto urbane. Superfluo procedere al previsto macchinoso ricalcolo: i dati sono perfettamente disponibili presso le agenzie immobiliari. I modelli matematici che consentono di tener conto degli scostamenti di valutazione non sono diversi da quelli applicati per il cosiddetto "forfettone" (imponibili presunti per i piccoli imprenditori).

 

In secondo luogo si poteva introdurvi elementi più decisi di progressività, non solo fra prima e seconda casa e fra seconde uniche e seconde plurime, ma anche rispetto al valore. Attualmente l'unico fattore di progressività molto lieve è dato per la prima casa dalla detrazione fissa e per figli a carico. Basterà un esempio. Ponendo uguale a 1000 la rendita di un piccolo appartamento il cui titolare abbia due figli a carico, l'imponibile sarà di 700: l'aliquota del 5% diventa il 3,5%; una villa del valore decuplo, avrà un'aliquota effettiva del 4,85% con un incremento non molto sensibile. Ma soprattutto l'aliquota rimane uguale per le seconde case sia rispetto al valore che rispetto al numero. Equiparando così con palese iniquità il proprietario di una bicocca del padre contadino con l'immobiliarista proprietario di un intero quartiere urbano.

 

Sulla tassazione dei dividendi azionari e delle rendite obbligazionarie alcuni sostengono che essendo distribuiti dagli utili after taxes anche un'aliquota moderata rappresenta pur sempre una doppia tassazione. Secondo altri invece l'acquirente di azioni e obbligazioni sul mercato sconta nel prezzo di acquisto la precedente tassazione: dovrebbe dunque equiparare il suo imponibile a quello dei redditi da lavoro dipendente. Di fatto questa soluzione è impraticabile: la giustizia in senso tomistico cozza contro la mobilità di capitali e l'attuale debolezza del mercato azionario e delle imprese.

 

Questo ritorno al passato disegna una struttura tributaria ispirata a criteri redistributivi, e cioè una politica fiscale non neutrale. Nel suo ambito, però, si offrono spazi per sgravi a favore delle imprese nascenti. L'esenzione pluriennale delle imprese nuove è a costo zero, perchè prima non esistevano, a patto che un ferreo controllo impedisca le metamorfosi di Ovidio, con morti e resurrezioni di aziende già esistenti. Occorre comunque tener conto dell'ovvia constatazione che l'Italia del 2013 non è quella degli anni '70. Conseguentemente ogni modifica o ritorno al passato dovranno essere ponderati alla luce di alcuni criteri, quali: a) distinzione tra imponibili delocalizzabili o non; b) valutazione degli effetti di traslazione in avanti (da produttore a consumatore), all'indietro (sui fattori di produzione) o obliqua, con la creazione di quasi rendite in settori paralleli. Ciò richiederà l'impiego di modelli di simulazione, che tengano anche conto del fatto che le reazioni del corpo sociale non sono sempre conformi a quelle dell'uomo razionale di Chicago, come dimostrano le anomalie dei sondaggi elettorali.

    

Questa riesumazione di alcuni elementi del precedente sistema tributario non rappresenta dunque un ritorno ad una mitica età dell'oro, ma solo una radicale correzione dei guasti prodotti da un ventennio di falsi idola tribus (sempre pronti a risorgere) che hanno provocato quei fallimenti del mercato dei quali tutti noi o "quasi" tutti noi stiamo pagando le conseguenze.

 
Commenti
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Guido M. Rey - Il mio riferimento è alla quota dei salari sul valore aggiunto e non alla retribuzione reale  del lavoratore. Quando la stretta monetaria impedisce l’aumento dei prezzi e fa diminuire le quantità,  il valore aggiunto totale diminuisce e il monte salari non si adegua immediatamente perché i salari non diminuiscono e l’occupazione ha un ritardo nell'aggiustamento.  La distribuzione non si modifica nei settori monopolistici che aumentano i prezzi quando diminuiscono le quantità aggravando la posizione degli altri settori ma si tratta di settori a alta intensità di capitale e l’effetto sulla distribuzione aggregata è modesto. L'esempio è il 2009 che ha visto un aumento di un punto  a favore della quota del lavoro (42, 8 rispetto al 41,8 del 2008). In seguito l’adeguamento alla situazione di crisi avverrà a scapito del monte salari come sinteticamente mostra la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto. Indubbiamente ho “dimenticato” la distribuzione personale perché richiede uno schema di analisi diverso da quello utilizzato nel mio articolo in quanto andrebbero considerati  anche la distribuzione della ricchezza, le rendite, la remunerazione del capitale finanziario, i guadagni e le perdite in conto capitale, ecc. Non analizzo la politica tributaria perché confesso la mia ignoranza.
Ringrazio Selan per l’attenzione.
Lunedì, 12. Novembre 2012
 

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