Il fantasma del 'centro'

Se la strategia del PD era l’allargamento dei consensi sul fronte moderato, l’obiettivo non è stato realizzato. Hanno vinto i partiti che hanno assunto le posizioni più nette, più “contrapposte”. Se qualche insegnamento se ne può trarre per il futuro è quello di abbandonare le chimere di una politica indistinta

Se la vittoria del centrodestra era stata largamente scontata, la débacle della sinistra dell’Arcobaleno ha reso la sconfitta più amara e allarmante. Nell’insieme le forze della sinistra non erano scese mai a un livello così basso. La imprevista disgregazione della sinistra radicale merita un’analisi approfondita per individuare dove si annidano gli errori e quali correzioni siano necessarie. Ma non è l’unico problema che ci consegna il risultato elettorale. Se è vero – come sostengono le analisi dei flussi elettorali - che circa il 40 per cento del voto che apparteneva alle componenti che hanno dato vita all’Arcobaleno è passato al Partito democratico con lo scopo di arginare l’offensiva di Berlusconi, si impongono altre considerazioni che riguardano anche il Partito democratico.

 

Se la strategia fondamentale del PD non era quella di svuotare la sinistra cosiddetta radicale, ma l’allargamento dei consensi sul fronte moderato, l’obiettivo non è stato realizzato. All’appello del PD è totalmente mancato il “centro”, la cui conquista era l’obiettivo strategico del nuovo partito. Lo era in termini di schieramento (la rottura a sinistra), di contenuti (si è detto, spesso sovrapponibili a quelli del centrodestra), di liste dei candidati (nelle quali si mescolavano, con spregiudicato spirito ecumenico, esperti del lavoro neoliberisti e operai delle vecchie fabbriche, sindacalisti e controparti padronali).

 

Intendiamoci, la corsa al centro è una caratteristica generale delle sfide elettorali. Sembra un’indicazione di buon senso. Ed è la raccomandazione di una vasta schiera di politologi. Puntare al centro significa conquistare gli indecisi, catturare il voto mobile, quello più moderato, meno ideologico, meno segnato dalle vecchie appartenenze. E Veltroni si è mosso con determinazione e coraggio in questa direzione, ma i risultati non sono venuti. Perché?  Insufficiente capacità di convincimento, non ostante i chiari e netti cambiamenti di approccio e di “stile” della sua campagna elettorale? Sono interrogativi sui quali la ricerca dei torti e delle ragioni non mancherà di svilupparsi dentro e fuori del Partito democratico.

 

Ma forse è venuto il momento di porsi anche un’altra domanda. Siamo sicuri che le campagne elettorali vittoriose sono governate dalla conquista del voto di centro, inteso come voto moderato, incline a un’offerta politica ragionevolmente rassicurante? La risposta a questo interrogativo è più complessa di quanto non indichi un approccio di apparente buon senso, ed è una risposta sostanzialmente negativa. Le ragioni sono molte. Partiamo dal fatto che  viviamo in una fase caratterizzata da profonde trasformazioni che incidono sulla vita individuale e collettiva. La globalizzazione dei mercati, la diffusa precarietà del lavoro e delle prospettive di futuro individuale, insieme con l’abnorme crescita delle diseguaglianze, colpiscono non solo le fasce sociali più fragili, ma anche gran parte dei ceti medi. La polarizzazione della ricchezza, che si accompagna all’avvento di un’élite globale, ha creato una superclasse staccata dal resto della società. Una parte dei ceti medio-alti che opera nella finanza, nelle professioni più elevate, nei media, nei servizi più sofisticati è collegata a questa superclasse. Ma la parte più vasta dei ceti medi subisce i contraccolpi della polarizzazione, vive in uno stato di incertezza e di ansia.

 

Nella nuova condizione di instabilità, la politica crea da un lato attese e, dall’altro, frustrazione, protesta, rabbia. Questi sentimenti sono tanto più marcati quanto più le persone si allontanano dai vecchi ancoraggi ideologici, dai porti sicuri dell’appartenenza. La decantata “fine delle ideologie” rende gli individui non meno, ma più esigenti verso la politica. I comportamenti politici, le scelte, l’agire concreto dei governi diventano oggetto di prese di posizioni forti, e la protesta verso ciò che, a torto o a ragione, è considerato politicamente sbagliato tende a radicalizzarsi. Molti si dichiarano scetticamente indifferenti alla politica, ma quando si recano al seggio elettorale ne profittano per esprimere sino in fondo radicalmente il loro scontento.

 

Il voto dei ceti che dovrebbero privilegiare il centro, lungi dal manifestarsi come voto calmo, moderato, rassegnato all’andamento delle cose, diventa sempre di più un voto reattivo. In questo quadro il “centro”, la presa di distanza dagli schieramenti che si contrappongono, un’opaca neutralità nella contesa politica, non esiste o esiste in misura sempre più esigua. Gli elettori tendono a privilegiare quelle che si presentano come identità forti che indicano con determinazione le ragioni della loro critica e delle loro  proposte di cambiamento. Se questo è vero in generale, lo è tanto più per una formazione come il PD che nasce dalla somma di esperienze culturalmente e politicamente diverse. Una vocazione ecumenica invece di rafforzare la novità la rende sbiadita e, con apparente paradosso, meno rassicurante.

I risultati elettorali sembrano andare chiaramente in questa direzione. Hanno vinto i partiti che hanno assunto le posizioni più nette, più “contrapposte”. Ha stravinto la Lega, pescando voti in tutto lo spettro politico. Ha vinto Di Pietro, senza nemmeno il vantaggio di un radicamento territoriale specifico, se si esclude il piccolo e ininfluente Molise, col suo antiberlusconismo senza se e senza ma. Casini, alla testa del partito di centro per antonomasia, si compiace di essere sopravvissuto, ma ha preso meno voti delle passate elezioni politiche.

 

Se qualche insegnamento se ne può trarre per il futuro è quello di abbandonare le chimere di una politica indistinta, della penombra in cui tutti i gatti sono bigi. Ha vinto il centrodestra, e ora provi a governare con la Lega trionfante al nord e il Movimento dell’autonomia in Sicilia. Con le sue promesse populiste senza fondamento in una situazione di blocco della crescita. Basteranno pochi mesi per rivelare il bluff. Poi si andrà alle elezioni europee che non possono cambiare i governi ma saranno una cartina al tornasole.  Il PD che ha oggi su di sé la maggiore responsabilità deve darsi una fisionomia precisa e credibile. Un’opposizione di “Sua maestà”, sbiadita, compromissoria e sostanzialmente subalterna, non aiuterebbe il Partito democratico a definire la propria identità, e a decidere  cosa vuole fare da grande. E’ un errore da evitare.

Mercoledì, 23. Aprile 2008
 

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