Il declino dell'impero americano

La globalizzazione ha cambiato qualità, non è più sotto il segno degli Stati Uniti. La politica neocon ha fatto perdere il consenso, e quindi l'egemonia. L'economia mondiale si regionalizza attorno a nuovi poli: Cina, India, Brasile. Solo l'Europa, in taoria la più ricca, rimane ferma
Il secolo scorso si è chiuso all'insegna della globalizzazione sotto il segno americano. Il 2005 ha visto avanzare sul proscenio mondiale la Cina, a proposito della quale non si contano più i saggi e i libri che cercano di interpretarne il miracolo, al punto da definire il nuovo secolo come il secolo della Cina. Così assistiamo al sorprendente succedersi dei primati cinesi. La più recente occasione è stato il sorpasso del Pil italiano e l'annuncio che già nel 2005 potrebbe realizzarsi, una volta verificati i consuntivi, il sorpasso della Francia e della Gran Bretagna. In altri termini, la Cina è prossima a collocarsi al quarto posto dopo Stati Uniti, Giappone e Germania.
 
Ma non basta. Se entriamo nelle statistiche del Fondo monetario internazionale, possiamo scoprire che, calcolando il PIL non al valore del cambio ma sulla base del potere d'acquisto interno, la Cina si colloca già oggi al secondo posto, dopo gli Stati Uniti e prima del Giappone. Ma per quanto sorprendenti, questi dati sono ben lontani dall'oscurare la supremazia americana. Rimane il fatto che il Pil degli Stati Uniti - vale a dire la nuova ricchezza prodotta annualmente - è sei volte superiore, mentre la popolazione americana è circa 5 volte inferiore. In altri termini, il reddito pro-capite cinese calcolato in dollari è circa venti volte inferiore a quello americano, e la distanza da colmare si misura ancora in termini di decenni.
 
Gli Stati Uniti conservano un'incomparabile potenza imperiale. Le sue multinazionali - insieme con alcune giapponesi ed  europee - estendono i loro investimenti su scala planetaria. Non ostante la crisi dei vecchi colossi industriali, come General Motors e Ford, lo sviluppo della ricerca e delle tecnologie nei settori di punta, dall'informatica alla biotecnologie, ha nelle Università americane un punto di ineguagliabile eccellenza. Il dollaro, per quanto indebolito da un crescente disavanzo commerciale, rimane la principale moneta di riferimento. Per non parlare, della supremazia militare, sostenuta da una spesa per armamenti che è poco meno della metà della spesa registrata a livello mondiale.
 
Il tarlo che insidia l'impero americano va cercato non tanto nell'economia e nell'inarrestabile ascesa della Cina, quanto nel rapporto col resto del mondo. Una potenza globale si regge non solo sulla supremazia economica e militare, ma anche sulla capacità di mantenere una rete di consenso, un'egemonia culturale e politica. Quest'egemonia accusa i segni di un impressionante declino, se non di una vera e propria crisi. La svolta dal decennio di Clinton all'era Bush si è rivelata fatale. L'ideologia lungamente elaborata dagli intellettuali neocon e l'arroganza politica hanno preso il posto di quella che era un'egemonia praticata in termini pragmaticamente flessibili.
 
Gli attacchi terroristici dell'11 settembre sono stati utilizzati per praticare una forma estrema di unilateralismo aggressivo, fino all'incredibile rottura con una buona parte dei vecchi alleati europei. La guerra in Iraq, dopo l'Afganistan, è stata imposta all'ONU sotto il ricatto del suo svuotamento e di un destino simile a quello della Società delle Nazioni. Una vittoria rapida, del tipo proclamato dall'inconsapevole Bush, avrebbe dato, almeno apparentemente, ragione ai nuovi ideologi della superpotenza globale e al presidente ombra  Dick Cheney. Ma la guerra si è rivelata un disastro, al punto che i suoi promotori non sanno più come uscirne. L'esito più probabile è un paese lacerato fra la maggioranza shiita strettamente collegata all'Iran (ricordate la triade dell'asse del male?), il separatismo curdo e la  guerriglia della minoranza arabo-sunnita. Mentre quella che doveva essere l'irradiazione della democrazia in Medio Oriente si presenta sempre di più come l'avanzata del radicalismo islamico alimentato da un dilagante  risentimento antiamericano.
 
Ma non si tratta solo del Medio Oriente. Condoleeza Rice deve correre da un paese all'altro della vecchia (e disprezzata) Europa per cercare di giustificare i voli segreti della CIA e le prigioni nascoste dove si consumano maltrattamenti e torture. Bush ha compiuto di recente un viaggio in Asia, il cui maggiore successo sembra sia stata l'accoglienza in Mongolia. Ancora più disastrosa si è rivelata la spedizione in America latina, dove alle contestazioni politiche  si è aggiunto il rifiuto di procedere sulla strada dell'ALCA, l'associazione per il libero commercio che avrebbe dovuto inglobare, all'insegna della globalizzazione americana, il continente dall'Alaska alla Terra del fuoco.
 
Non era mai successo che la rivolta contro l'egemonia americana si manifestasse con tanta virulenza perfino nel "cortile di casa". Il distacco segue vie diverse quanto insospettabili. Basta considerare che Brasile e Argentina hanno deciso di restituire in anticipo i prestiti ricevuti dal FMI - 25 miliardi di dollari complessivi, pari a circa il 40 per cento di tutti i prestiti del Fondo - per liberarsi definitivamente dalla sua tutela. Si dissolve così il potere di controllo esercitato dal FMI (insieme con la Banca Mondiale), all'insegna del "Washington consensus": vale a dire, dell'influenza determinante esercitata dal Tesoro americano nel dettare le regole a cui dovevano sottostare i paesi che facevano ricorso al Fondo. E non è un caso che il fallimento della conferenza del WTO di Hong Kong sia stata scongiurata solo in virtù dell'accordo, per quanto di basso profilo, con il Brasile e l'India, in rappresentanza dei paesi emergenti.
 
Una grande quantità di segni convergenti ci dice che la globalizzazione avanza, ma i suoi percorsi sono cambiati. Al centro non vi sono più gli stati Uniti. In realtà non vi è più un centro capace di esercitare una sua egemonia e di essere riconosciuto come punto di coordinamento e di equilibrio. "Gli Stati Uniti - scrive Mark Mazower, professore di storia della Columbia University - sono largamente visti come una delle maggiori minacce all'ordine esistente".
 
Col declino della potenza egemone in grado di dettare le regole di un neoliberismo aggressivo e senza frontiere, la nuova faccia della globalizzazione ha un carattere regionale. La Cina sviluppa, con la prudenza classica della sua diplomazia,una rete di rapporti economici e commerciali con i paesi vicini. Alle spalle cresce a vista d'occhio il ruolo dell'India che negli ultimi anni ha accelerato il passo della sviluppo con risultati di eccellenza nel campo dei servizi ICT. Mentre tra l'Europa e l'Asia centro-settentrionale si rafforza il ruolo di Mosca, all'insegna di un regime che riscopre antiche vocazioni autoritarie, ma che è anche in grado di sfruttare la ricchezza di gas e petrolio che, al tempo di Eltsin, era stata destinata alla speculazione privata interna e internazionale.
 
Chi manca all'appello della nuova globalizzazione di tipo regionale? Allo stato attuale, l'Europa. Incredibile a dirsi, se solo considerano che i 25 paesi che compongono l'Unione europea hanno un reddito complessivo superiore a quello degli Stati Uniti e della Cina messi insieme, un mercato interno di 450 milioni di abitanti, una moneta unica per un numero crescente di paesi. Ma non ostante queste straordinarie potenzialità, l'Europa vive in uno stato di permanente stagnazione. E' divisa politicamente. Lacerata fra l'irresistibile vocazione filoamericana di Blair e il vecchio asse  franco-tedesco legato al modello economico e sociale continentale. Un modello culturale e politico ostile al fondamentalismo neoliberista di stampo americano e incline a una politica internazionale basata sulla capacità di mediazione più che sullo spirito di potenza.
 
Il conflitto fra queste due linee si riproduce più o meno esplicitamente all'interno di ciascun paese. La cosa incomprensibile è che il modello anglosassone e filo-atlantico, per affermare la sua superiorità,  fa appello alla globalizzazione, manifestando l'assoluta incapacità di coglierne le radicali novità. In sostanza, la differenziazione dei suoi percorsi e il neoregionalismo che delinea nuove capitali: da Shanghai a Bombay, a San Paolo, a Mosca (e forse, domani, a Johannesburg).
 
Un'Europa politicamente unita (fra quei paesi che vogliono l'unità), dotata di una politica economica, oltre lo strumento attualmente sterile della moneta, e di un modello fondato sulla cooperazione sociale, potrebbe, da un lato, occupare un posto privilegiato nello scenario della nuova fase della globalizzazione; dall'altro, proporsi come modello avanzato di sviluppo democratico. In altri termini, presentare una possibile faccia umana della globalizzazione, oggi pericolosamente oscillante fra un impero in declino e la crescita di nuovi protagonisti ambiguamente sospesi fra regimi neo-autoritari e altri che hanno bisogno di aiuto per avanzare sulla strada di uno sviluppo democratico. E che, non a caso, guardano all'Europa con la speranza di trovarvi un interlocutore e un possibile modello.
Venerdì, 30. Dicembre 2005
 

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