La crisi greca ha rilanciato il dibattito sulla natura dell'Unione economica monetaria, la sua origine e i rischi di disintegrazione. Per alcuni commentatori si tratta di una crisi annunciata e inevitabile. L'unione monetaria è la tesi - non può funzionare senza istituzioni politiche. Oppure, traducendo la questione in termini economici: un'area valutaria è destinata al fallimento senza il verificarsi d quelle che il premio Nobel Robert Mundell descrisse, nel secolo scorso, come condizioni "ottimali", tra le quali la piena mobilità del lavoro e la flessibilità di prezzi e salari. Coloro che condividono il primo o il secondo di questi punti di vista (o entrambi) traggono dalla crisi greca e dallinsieme degli squilibri che agitano lUnione - una prognosi sfavorevole per il destino della moneta unica. In breve, l'Unione monetaria sarebbe destinata alla disintegrazione.
Leuro al tornante del secolo
Considerato il futuro incerto, quando non una crisi fatale, è giusto partire da una domanda preliminare. Era la moneta unica una costruzione utopica, priva di un reale fondamento? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo tornare al volgere del secolo scorso, quando l'euro prese corpo. Erano anni nei quali l'Unione europea stava vivendo un momento di magnificenza. Al culmine di un decennio, che era iniziato con la caduta del muro di Berlino e la riunificazione tedesca, lUnione era finalmente indirizzata su un percorso di crescita e di motivato ottimismo. È in questo quadro che, nella primavera del 2000, un vertice straordinario dei capi di Stato e di governo dellUnione si tenne a Lisbona per delineare la strategia europea per il nuovo decennio. Il vertice si concluse con laffermazione di una serie di obiettivi, tra i quali ne spiccavano reciprocamente collegati: la piena occupazione - un obiettivo a lungo rimasto fuori dallagenda politica - e, strettamente collegato al primo, lobiettivo di una crescita media del prodotto interno lordo del tre per cento all'anno.
Si trattava di obiettivi troppo ambiziosi e infondati? È un dato di fatto che essi apparivano del tutto realistici. Alla fine degli anni novanta, l'UE aveva realizzato una crescita economica appunto dellordine del tre per cento, mentre erano stati creati dieci milioni di posti di lavoro, con un tasso di crescita superiore a quello degli Stati Uniti. A conferma di questa tendenza l'anno 2000 si chiuse con una crescita media UE del 3,5 per cento. L'ottimismo per il nuovo secolo che si apriva sembrava fondato. E la Commissione europea, simulando l'agenda di Lisbona, calcolò per i quindici paesi della vecchia Europa un livello medio di disoccupazione nellordine del tre per cento entro il 2010. In breve, la moneta unica nasceva sotto i migliori auspici.
Sfortunatamente, dieci anni dopo, nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto. La crescita media nell'UE è risultata poco sopra l'1 per cento l'anno. Il tasso di disoccupazione è tornato al 10 per cento, come nei primi anni novanta. In altri termini, un decennio perduto. Cosa è successo? Cosa è andato storto?
Eurozona - PIL, Tasso di crescita medio annuo (1997-2009) | ||||||||
1997-2000 |
2000-03 |
2003-06 |
2006-09 |
2000 2009 | ||||
3.2 |
1.2 |
2.2 |
0.2 |
1.2 | ||||
Eurozona - Tasso di disoccupazione (1997-2010) | ||||||||
1997 |
2001 |
2005 |
2009 |
2010* | ||||
10.5 |
8.0 |
8.9 |
9.4 |
10.5 | ||||
*Previsione
Fonte: IMF- World Economic Outlook, aprile 2010
Tre diverse filosofie
Citerò, per cominciare, alcuni ricordi personali. Come consigliere per gli affari europei del ministro del Lavoro, ebbi in quegli anni loccasione di partecipare alle discussioni con i governi dei maggiori paesi dell'Unione europea, finalizzate alla preparazione della piattaforma di Lisbona. Nessuno dei governi si mostrava contrario agli obiettivi elaborati per il vertice di Lisbona con al centro i temi della crescita e delloccupazione. Ma vi erano differenze di accento. Il cancelliere socialdemocratico tedesco, Gerhard Schroeder, enfatizzava la necessità della stabilità monetaria, sotto il controllo della Banca centrale europea - costruita a immagine della Bundesbank - come la questione essenziale per realizzare una crescita sostenibile. D'altra parte, il governo britannico, che aveva rifiutato di aderire all'euro, metteva in primo piano le "riforme strutturali": in altre parole, le liberalizzazioni del mercato, a partire dalla deregolamentazione del mercato del lavoro. Un atteggiamento diverso caratterizzava la posizione del governo francese - assunta anche in un memorandum congiunto con il governo italiano - che sottolineava lesigenza di una politica economica attiva da parte delle istituzioni europee. Una posizione, quest'ultima, che per molti aspetti riecheggiava le posizioni di Jacques Delors e del suo Libro bianco su "Crescita, competitività e occupazione".
Le differenze politiche e ideologiche tra i grandi paesi dell'UE non erano sorprendenti. Tre anni prima, nel 1997, quando era stato varato il Trattato di Amsterdam, che aggiornava quello di Maastricht, Lionel Jospin aveva ottenuto che il nuovo patto, inizialmente limitato alla "stabilità", fosse definito: "Patto di stabilità e crescita". Unaggiunta che poteva essere considerata puramente cosmetica, ma che. di fatto, rifletteva due divergenti, se non opposte, concezioni della politica economica e sociale europea. Così, il consenso sulla strategia di Lisbona risultava, fin dall'inizio, intrappolato in tre filosofie diverse sul ruolo economico e sociale delle istituzioni europee. Paradossalmente, anche se apparentemente lontani, l'ossessione tedesca per la stabilità monetaria finiva con lo sposare il fondamentalismo di mercato di origine anglosassone.
Lo slittamento di sovranità
Dodici Stati UE avevano rinunciato alla loro sovranità monetaria e del tasso di cambio per dare vita alla moneta unica, con un duplice obiettivo. Il primo era un obiettivo difensivo: utilizzare l'euro come uno scudo comune contro gli attacchi della speculazione finanziaria, come quelli che un certo numero di paesi europei aveva sperimentato all'inizio degli anni novanta. Il secondo obiettivo mirava a unire gli sforzi per facilitare una crescita sostenuta, e acquisire una maggiore competitività di fronte al processo di globalizzazione. Possiamo osservare che l'obiettivo difensivo è stato raggiunto (almeno, fino alla crisi greca). Ma, dopo aver rinunciato, sin dai primi anni del nuovo decennio a una significativa politica di sviluppo, la zona euro si è condannata a una crescente marginalizzazione all'interno della nuova mappa della globalizzazione.
La filosofia economica dell'UE, interpretata dalla Bce e dalla Commissione europea - l'asse Francoforte-Bruxelles - ha rapidamente manifestato tutta la sua inefficacia. Quando nel 2001-02 gli Stati Uniti furono colpiti dalla recessione, nata dalla scoppio della bolla finanziaria, la zona euro, con un mercato unico dello stesso ordine di grandezza di quello americano, avrebbe dovuto assumere il ruolo di locomotiva della crescita. Ma è successo il contrario. La Bce, nella convinzione che un tasso medio di inflazione pari al 2,3 per cento costituisse un'intollerabile violazione della frontiera del due per cento che (arbitrariamente) si era fissata, avviò una fase di ripetuti aumenti del tasso dinteresse, contribuendo al blocco della crescita nella stessa fase in cui la Federal Reserve reagiva alla crisi degli Stati Uniti tagliando i tassi fino a renderli negativi in termini reali.
Il risultato fu il dimezzamento del tasso di crescita della zona euro dal 3,5 nel 2000 al1,5 per cento nel 2001. Ma questo fu solo l'inizio. Nel 2002 la crescita media della zona euro scese sotto l'1 per cento, mentre la Germania, in linea di principio il principale motore dell'economia europea, entrava in recessione. La conseguenza della stagnazione fu un aumento automatico del disavanzo del bilancio pubblico, oltre la liturgica soglia di Maastricht del tre per cento, in diversi paesi europei, tra i quali la Francia e la stessa "virtuosa" Germania. E la tecnocrazia di Bruxelles non esitò a denunciarli alla Corte di giustizia europea per violazione del Patto di stabilità.
In sostanza, l'asse Francoforte-Bruxelles reinterpretava la strategia di Lisbona sulla falsariga dell '"economia dell'offerta", basata, tra le altre caratteristiche, sulla deregolamentazione del mercato del lavoro, il contenimento dei salari e la riduzione della spesa sociale. Cruciale, in questo scenario, era il patto di stabilità che Romano Prodi, presidente della Commissione europea, in un impeto di audace sincerità, definì "stupido". In altri termini, gli Stati membri che avevano ceduto pezzi importanti di sovranità, come la politica monetaria e dei tassi di cambio, scoprivano che erano stati requisiti da una oligarchia tecnocratica, ispirata alla ideologia dominante del neo-liberalismo. Con la riduzione dei principi della politica economica europea al ridimensionamento delle funzioni statali e allauto-regolamentazione dei mercati. In questo quadro, lUE è ha finito col diventare un'arena per una implicita deflazione competitiva, basata su molteplici forme di dumping fiscale e sociale, come inequivocabilmente dimostrava la politica di allargamento dell'UE verso i paesi dell'Europa centrale e orientale (si veda, A. Supiot, www.insightweb.it) .
Il primo annuncio del fallimento
E alla fine della prima metà del decennio, il fallimento degli obiettivi si era già consumato. Il fallimento non poteva essere attribuito alla mancanza di potere decisionale e di coordinamento da parte delle istituzioni europee, come spesso si afferma, ma agli o