Il Covid e l’altro virus che infetta la Ue

La mancanza di una capacità fiscale comune e di un coordinamento effettivo delle politiche fiscali rimangono lo scoglio insormontabile contro cui si infrangono gli sforzi di fortificare l’Unione. Da questa grave crisi o si esce con un passo avanti o si rimarrà in una palude con sabbie mobili nelle quali l’intera Europa rischia di sprofondare

La pandemia del coronavirus sta sconvolgendo violentemente la vita di tutti i popoli della Terra. L’Italia in particolare sta pagando un prezzo tra i più alti al mondo. Al 26 marzo si contano oltre 500.000 contagiati e 25.000 morti nel mondo, più di 80.000 contagiati e oltre 8.000 morti in Italia. Non ancora quantificabili le ricadute sull’economia, ma è ormai certo che il 2020 sarà anno di recessione per l’economia italiana ed europea, e quasi sicuramente anche per l’intera economia mondiale. Per quanto riguarda il nostro Paese, il Ref stima un crollo del Pil dell’8% nel primo semestre, mentre le stime di Prometeia indicano un -6,5% per l’intero anno.

Molto dipenderà dalla durata della crisi e dalla velocità della ripresa, se con un andamento a V (ripida caduta e altrettanto ripida ripresa) oppure a U (calo forte, ma graduale e altrettanto graduale risalita). Il primo andamento sarebbe preferibile perché più rapido, ma non è detto che non si possano combinare gli elementi peggiori dei due andamenti, ossia che a un crollo verticale segua una ripresa lenta e protratta nel tempo. Sarebbe questa l’ipotesi più negativa.

Per molti versi questa è una crisi più complicata del passato, perché combina drammaticamente fattori di domanda e fattori di offerta. Se la crisi del ’29 è stata una crisi da domanda, quelle petrolifere del ’73 e del ’79 due crisi da offerta e quella del 2007-2008 una crisi originata dalla finanza e poi sfociata in una recessione da domanda, nel caso del coronavirus agli effetti derivanti dall’interruzione delle catene del valore (fattore offerta) si sommano gli effetti dovuti al crollo dei viaggi e del turismo e alle restrizioni forzate della domanda, dovute alla chiusura imposta dal governo di numerose attività di produzione e di vendita (negozi non alimentari, bar, ristoranti, cinema, teatri, impianti e manifestazioni sportive, ecc.). Molti hanno giustamente sottolineato che siamo in un’economia di guerra.

E’ quindi molto difficile valutare la profondità delle lacerazioni che i settori produttivi stanno subendo e le conseguenze sull’occupazione, che già prima del coronavirus era “infetta” da un altro morbo, quello della precarietà. Gli effetti della crisi sono asimmetrici: da un lato, vi sono attività, come il turismo, gli spettacoli, i trasporti, gran parte del manifatturiero, che scontano un calo di attività molto pesante; dall’altro, comparti come il farmaceutico, l’indotto della sanità, il commercio elettronico, la grande distribuzione, che aumentano i fatturati.

A questo si aggiunga che, dopo uno choc senza precedenti come l’attuale - è da un secolo, dai tempi cioè della “spagnola” del 1918-1919, che non si sperimentava almeno in Occidente un’epidemia così estesa - i comportamenti degli operatori sono destinati a cambiare. Le famiglie non colpite da una brusca riduzione del reddito disponibile cercheranno di destinare maggiori risorse alla salute e alla previdenza, assegnando una quota maggiore del loro reddito al risparmio precauzionale. Le imprese che sopravviveranno saranno portate a ripensare alle catene di fornitura e alle reti di vendita in base alle strozzature emerse durante la crisi, riportando in certi casi le produzioni a casa. Subiranno cambiamenti anche le strategie della finanza, che dovrebbero adeguare i portafogli in senso più prudenziale, aumentando la liquidità, e forse più etico. Niente sarà più come prima.

E’ però troppo presto per prefigurare possibili comportamenti del dopo crisi. Prima dobbiamo uscire dalla crisi sanitaria ed economica. Per farlo occorre innanzitutto che si rafforzi la cooperazione fra i Paesi e le istituzioni internazionali. Non dimentichiamo che siamo arrivati a questa crisi in un clima internazionale piuttosto teso. Prima, a causa della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, che ha coinvolto l’Europa e abbassato le prospettive di crescita dell’economia mondiale. Poi, nel bel mezzo della pandemia, è scoppiata la guerra petrolifera tra Russia e Arabia Saudita, con il rifiuto dei russi di tagliare la produzione di petrolio in modo da tenere alti i prezzi, avendo nel mirino soprattutto i produttori americani di shale oil, che Mosca vuole buttare fuori mercato come ritorsione all’embargo americano dopo la guerra di Crimea.

Come conseguenza di questo difficile clima internazionale è fin qui mancato il necessario coordinamento tra i Paesi, a partire dalla gestione dell’emergenza sanitaria. La Cina per prima ha informato il mondo con colpevole ritardo sulla diffusione del virus. I capi di governo occidentali poi, da Macron a Trump a Boris Johnson, hanno preso provvedimenti inizialmente timidi e tardivi per poi mettere in campo misure via via più coercitive senza mai coordinarsi tra di loro. Ora è chiaro che su temi come quello delle cure, della ricerca del vaccino e della apertura/chiusura delle frontiere serve la più ampia condivisione possibile.

Anche in campo monetario le banche centrali all’inizio hanno agito ognuna per proprio conto e soltanto in un secondo momento, di fronte al crollo di tutte le borse mondiali, hanno raggiunto un accordo in base al quale, a partire dal 23 marzo, la Federal Reserve fornisce, attraverso linee swap, liquidità in dollari a Bce, Banca del Giappone, Bank of England e altre banche centrali su base giornaliera, e non più settimanale come avveniva prima. Questo per consentire alle banche centrali di garantire la maggiore liquidità in dollari richiesta dal mercato, che – come sempre accade nei momenti di crisi – considera la moneta americana come un bene rifugio.

Sul piano strettamente economico i governi nazionali sono intervenuti per ultimi, con l’unica eccezione dell’Italia, che, essendo stata investita per prima in Europa in maniera violenta dal contagio, è dovuta scendere ben presto in trincea. Gli Stati Uniti hanno messo sul piatto della bilancia 2.000 miliardi di dollari, pari a circa il 10% del Pil, la Germania ha approvato un aumento del deficit di bilancio di 156 miliardi di euro (il 4,7% del Pil), la Francia ha deciso di impiegare 45 miliardi di euro, corrispondenti all’1,9% del Pil, la Spagna ha stanziato 18 miliardi, pari all’1,5% del Pil.

Il governo italiano - dopo una ventina di provvedimenti tra decreti legge, decreti del presidente del consiglio e ordinanze emessi dal 21 febbraio all’11 marzo - il 16 marzo ha messo sul piatto della bilancia 25 miliardi di euro con il decreto “Cura Italia”, che contiene importanti misure per la sanità e a favore di famiglie, lavoratori e imprese. L’ammontare di risorse approntato con il “Cura Italia” corrisponde a oltre un punto di Pil e consente di far fronte alle più immediate necessità. Nuove misure sono state preannunciate per aprile per altri 25-30 miliardi. Occorre infatti prorogare i provvedimenti presi con il “Cura Italia”, come l’estensione della cassa integrazione e il rinvio di tasse e contributi, ed ampliare le coperture economiche a favore delle fasce sociali più svantaggiate e di coloro che hanno perso il lavoro. In questi interventi probabilmente non saranno comprese nuove risorse per rilanciare gli investimenti pubblici, per le quali bisognerà attendere ulteriormente. Comunque, tra il decreto di marzo e quello di aprile in tutto il governo italiano avrà messo in campo più di 50 miliardi, corrispondenti a circa il 2,3% del Pil.

Con le risorse stanziate per il “Cura Italia” il rapporto fra deficit e Pil è già salito, secondo il Ref, al 4,5%, mentre il debito pubblico viaggia verso il 140%. Secondo Prometeia il 2020 si chiuderà con un deficit al 6,6% del Pil e un debito al 150%. L’Italia di fatto è uscita a metà marzo dal patto di stabilità, precedendo di pochi giorni l’annuncio ufficiale di Ursula von der Leyen, che il 20 marzo ne ha decretato la sospensione temporanea, autorizzando i governi a “pompare nell’economia tutto il denaro necessario”. E’ la ratifica di uno stato di grave necessità che colpisce tutta l’Unione.

Nel frattempo si è mossa la Bce, che - dopo la sciagurata uscita di Christine Lagarde del 12 marzo quando, dicendo “non siamo qui per chiudere gli spread”, ha fatto impennare lo spread fra i Btp e i Bund tedeschi – il 19 marzo ha disposto un nuovo programma di acquisto di titoli per 750 miliardi da qui alla fine del 2020, assicurando il sostegno incondizionato alla moneta unica. I 750 miliardi si aggiungono ai 120 già decisi il 12 marzo (oltre ai 20 miliardi che vengono acquistati regolarmente ogni mese), per un totale che corrisponde al 7,3% del Pil dell’area dell’euro. Nel nuovo programma straordinario la Bce ha deciso di non rispettare il limite del 33% per i titoli di Stato e del 50% per i titoli sovrannazionali come avvenuto finora. Ciò inizialmente ha spinto in alto le borse e ridotto considerevolmente lo spread sui titoli italiani.

L’intervento della Bce però da solo non basta per superare la crisi. Ammesso che l’Italia riesca con grande fatica a sconfiggere l’emergenza sanitaria, è altrettanto chiaro che da sola non potrà battere l’emergenza economica. Il Paese era già mal ridotto prima del coronavirus e sarà in condizioni molto peggiori quando si dovrà ripartire dopo le attuali misure restrittive. Ma anche molti altri Paesi europei, come la Spagna, il Portogallo, la Grecia, la stessa Francia, pagheranno duramente la recessione in atto.

Quello che serve davvero – e che ancora manca – è una presa d’atto condivisa da parte dei governi dell’Unione che dalla crisi si esce soltanto se si fa fronte comune, introducendo nuovi strumenti, come l’emissione di titoli garantiti dalle istituzioni europee. La sospensione del patto di stabilità fa comodo a tutti e per questo la von der Leyen ha potuto annunciarla. Ma che succederà quando l’emergenza sarà passata? La Germania e gli Stati del Nord rientreranno nei parametri (ammesso che li sfondino). L’Italia e i Paesi mediterranei no, se non a prezzo di una profonda depressione. Una situazione insostenibile. E si tornerà così a parlare dell’uscita dell’Italia dall’euro e dall’Unione, fomentata da una parte, dai falchi olandesi e tedeschi e dall’altra, dai populisti nostrani.

Purtroppo il Consiglio europeo del 26 marzo, che doveva decidere l’attivazione di strumenti concreti per far fronte all’emergenza si è concluso con un nulla di fatto a causa del rifiuto dei Paesi del Nord Europa, guidati dalla Germania, di adottare strumenti finanziari comuni, come poteva essere l’emissione di coronabond garantiti dalla Bei. Un appello in tal senso era stato rivolto al Presidente del Consiglio europeo Michel dai premier di Italia, Francia, Spagna e altri sei Paesi. L’appuntamento è rimandato di quattordici giorni, il tempo che si sono dati i capi di governo per mettere in piedi un pacchetto di misure anti-crisi.

Ma è molto difficile essere ottimisti. La mancanza di una capacità fiscale comune e di un coordinamento effettivo delle politiche fiscali rimangono lo scoglio insormontabile contro cui si infrangono gli sforzi di fortificare l’Unione. La via maestra rimane quella di creare un bilancio comune europeo e su questa base procedere all’emissione di eurobond. Da questa grave crisi o si esce con un passo avanti nella costruzione della casa comune europea o si rimarrà in una palude molto simile alle sabbie mobili. Nelle quali l’intera Europa rischia di sprofondare.

Venerdì, 3. Aprile 2020
 

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