Il caso Fiat visto dall'America

Perché negli Usa c'è che ritiene che la vendita alla General Motors non sia una soluzione

In America non è di moda occuparsi delle vicende politiche italiane. Non ostante le dichiarazioni di fedeltà del presidente del Consiglio, l’amministrazione americana non si fida del governo italiano. E i democratici considerano il governo Berlusconi una sorta di paradosso latino-americano nel cuore della vecchia Europa.
Ma il caso Fiat suscita insieme interesse e stupefazione.

Provo a riassumere alcune domande e considerazioni ascoltate nel corso di una recente visita negli Stati Uniti. Nessuno ignora che la battaglia per la competitività nel settore dell’auto è diventata sempre più aspra, mettendo in difficoltà anche i vecchi giganti americani, come General Motors e Ford. La capacità produttiva mondiale supera normalmente la domanda, e il divario diventa insopportabile nelle fasi di caduta della congiuntura. Fin qui le valutazioni non sono discordanti. Allora dov’è il motivo di sorpresa per il crollo della Fiat? Il paradosso, visto da oltre Atlantico, sta nel fatto che nel corso dell’ultimo decennio, dopo quello che sembrava un primato giapponese, è stata l’Europa a dettare legge sul mercato mondiale dell’auto.

In passato – dice Barry Bluestone, economista di Boston - negli Stati uniti si producevano macchine con tecnologie e organizzazione del lavoro progettate da ingegneri e tecnologi americani, con molta mano d’opera immigrata. Oggi si fabbricano macchine la cui tecnologia è progettata in Giappone e in Germania, mentre la mano d’opera è americana. Un rovesciamento della tradizionale divisione del lavoro. Oltre alla Toyota, la prima a violare i confini dell’auto come emblema americano, andando a costruire le sue macchine in California, sono entrate Mercedes, Volkswagen, BMW, Renault.

Insomma, Germania e Francia hanno resistito al processo di downzising del più classico dei settori industriali, e ne hanno fatto una piattaforma di rilancio industriale vincente. La crisi Fiat non era fatale. Non si tratta del declino inevitabile di un settore maturo che la vecchia Europa con suoi salari elevati, i sindacati e lo Stato sociale più caro del mondo lascia ai paesi di nuova industrializzazione. Non è un caso se oggi la VW, con oltre cinque milioni di auto nel 2001, è il più forte produttore di auto al mondo, superando (al netto della produzione di veicoli commerciali) General Motors, Ford e Toyota.

Ovviamente, fin qui la spiegazione dalla crisi Fiat è semplice e incontrovertibile: la Fiat ha sbagliato tutto nella sua strategia industriale. Ma la risposta dell’accordo con la General Motors appare in America priva di senso sin dall’inizio. La GM è in difficoltà sul suo stesso terreno, negli Stati uniti, sia per ragioni di mercato, sia per la colossale crisi del suo Fondo pensioni. E’ in difficoltà anche in Europa, dove la sua filiale Opel non regge la concorrenza con i produttori tedeschi. Affidare alla GM il destino di un'impresa come la Fiat era un errore in partenza. In ogni modo oggi è un’ipotesi inconsistente.

Certo, di fronte alla crisi, bisogna garantire il futuro di decine di migliaia di lavoratori. Ma la prima garanzia è il rilancio di un settore che rimane vitale dal punto di vista della ricerca, delle tecnologie, del sostegno a un vasto apparato industriale collaterale. Il discorso torna, a questo punto, sulla Volkswagen. Il problema che governo, impresa e sindacati si trovarono di fronte nel momento della sua peggiore crisi finanziaria e produttiva, all’inizio degli anni ’90, non fu quello degli ammortizzatori sociali, che in Germania garantiscono ai lavoratori un reddito decente e, in sostanza, illimitato nel tempo (si veda la scheda di Bruno Liverani). La questione fu affrontata dal punto di vista dell’interesse nazionale a salvaguardare un’industria giustamente considerata di punta. Il risultato è quello che sappiamo. La VW, che produceva otto anni fa tre milioni di auto, oggi ne produce più di cinque milioni (vedi anche: Il caso Fiat e la ricetta Volkswagen).

Invece, in Italia, come ha scritto Carlo Clericetti (vedi)su queste pagine, si è partiti da un’affermazione di principio: che lo Stato dovesse rimanere fuori dei compiti che spettano al mercato. La propaganda neoliberista è stata adottata, anche da una buona parte della sinistra, come linea di politica industriale, in un paese ormai orfano di grandi imprese industriali. Una linea che qualsiasi governo - con l’esclusione di quello della signora Thatcher - giapponese, francese, tedesco, o americano (si ricordi il salvataggio della Chrysler) avrebbe considerato masochista e priva di senso.

Oggi, di fronte alla crisi generarle del sistema imprenditoriale, produttivo, finanziario, oltre che sociale, legato all’auto, il discorso può essere ripreso daccapo. Il nuovo management, quale che sia, deve essere impegnato alla difesa e al rilancio dell’auto. Lo Stato interviene con tutti i mezzi di cui dispone per garantire la transizione. Negare che si tratti di una questione politica da affrontare alla luce del sole significa lasciare che sia amministrata negli intrighi di palazzo, dove, nell’ombra, si ridistribuiscono interessi e potere alle spalle del paese e dei lavoratori.

Lasciare che la Fiat sia fatta a pezzi in un destino di smantellamento, in nome della sovranità del mercato, al tempo della Enron, non è un’affermazione politica ragionevole, ma la sua negazione. E questo vale per tutti, ma in primo luogo per la sinistra.

Giovedì, 12. Dicembre 2002
 

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