IL BUCO NERO DI BUSH

Una vera e propria guerriglia strisciante e un dopo guerra che rischia di essere peggio della guerra. La richiesta di Francia, Germania e Russia per un governo irakeno legittimo. C’è purtroppo, con Berlusconi, una presidenza europea fuorigioco. La lezione omerica.

Gli avvenimenti che hanno segnato sanguinosamente Baghdad negli ultimi giorni gettano una nuova tragica luce sul futuro del dopo-guerra in Iraq e, più in generale, sul Medio Oriente. Le espressioni di compiacimento per i progressi compiuti, utilizzate da Bush e dal suo gabinetto, marcano la distanza tra una retorica che si sforza di essere rassicurante e una realtà non governabile con i mezzi tradizionali della guerra e dell’occupazione militare. In questo quadro, la recente risoluzione dell’Onu sull’Iraq dimostra tutta la sua fragilità. Una cosa è, infatti, considerare “legittima” la presenza della coalizione anglo-americana, un’altra prendere atto del buco nero nel quale minaccia di affondare la strategia americana del dopo-guerra.

Non basta, come ha fatto Paul Wolfowitz, dopo l’attentato all’hotel Rashid cui è miracolosamente scampato, attribuire l’intensificazione degli attentati all’azione di gruppi di criminali. Una vera e propria guerriglia strisciante vede ormai coinvolti nazionalisti, vecchi militanti del Baath, milizie shiite, esponenti di gruppi tribali, fondamentalisti che da ogni parte attraversano i confini porosi e dell’Iraq. Come la storia insegna, un esercito regolare, pur dotato della tecnologia militare più sofisticata, non è in grado di aver ragione di queste forme di resistenza che intrecciano opposizione politica, guerriglia e terrorismo. Se la guerra era sbagliata, il modo come gli Stati Uniti amministrano il dopo-guerra lo è ancora di più. Non a caso, il senatore McCain, repubblicano, pur riconoscendone ancora le differenze, intervistato da Newsweek ha cominciato a stabilire dei paralleli col Vietnam.

E’ difficile, in queste condizioni, intravedere una soluzione diversa da quella sostenuta da Francia, Germania e Russia che, pur votando la risoluzione dell’ONU, l’hanno accompagnata con l’esplicita richiesta di fissare i tempi del trasferimento della sovranità a un governo iracheno che non si presenti, come succede all’attuale Consiglio di governo nominato dagli americani, “privo – come scrive Gareth Evans sul New York Times - di legittimità, autorità e risorse per fare qualsiasi cosa in qualsiasi campo”.

Giunti a questo punto, l’Europa dovrebbe scendere in campo, uscendo dall’apatia e dalle divisioni per proporre un’iniziativa politica per l’Iraq e per il conflitto israelo-palestinese, dove il collasso del road map, le distruzioni e le perdite umane hanno dimensioni non meno disastrose. Ma è difficile immaginare che un’iniziativa possa essere assunta da governo Berlusconi che detiene la presidenza semestrale dell’Unione europea. Eppure lo spazio esisterebbe. Si consolida in Europa l’asse franco-tedesco e, al tempo stesso, si rafforza l’iniziativa congiunta con la Gran Bretagna. Lo si è visto con l’imprevisto viaggio a Teheran dei ministri degli esteri dei tre paesi. Un’iniziativa, rimasta stranamente in ombra sulla stampa italiana, portata a compimento dal trio franco-tedesco- britannico che, trovando una soluzione alla crisi annunciata con l’Iran, ha disinnescato la minaccia americana di considerare la prosecuzione del programma nucleare iraniano, sia pure a fini civili, un potenziale e ravvicinato caso di guerra. L’Europa, dunque, sia pure con difficoltà, incertezze e ritardi, si sforza di assumere una linea di iniziativa autonoma. L’Italia governata da Berlusconi rimane in un angolo e il dibattito si esercita nella speculazione, dopo la risoluzione dell’ONU, sulla legittimità dell’occupazione militare sempre più chiaramente incapace di dominare la situazione.

Secondo un recente sondaggio, citato dall’Observer di Londra, per i due terzi degli iracheni, la presenza delle forze anglo-americane è considerata alla stregua di un’occupazione militare, e solo per il 15 per cento (presumibilmente, curdi) si tratta d forze di liberazione. E l’amministratore americano, Paul Bremer, abbandonando i toni enfatici di un’invasione liberatrice, ammette: “Non è mai divertente essere occupati”.

Ma ciò che più conta è che anche negli Stati Uniti lo scenario va rapidamente cambiando, dopo il lungo silenzio che ha accompagnato la scelta della guerra. Mentre compaiono le prime manifestazioni che reclamano la fine dell’occupazione e il rientro dei marines, le critiche si fanno sempre più serrate. Thomas Friedman, che non è stato contrario alla guerra, analizzando quelli che considera gli errori dell’Amministrazione impietosamente scrive: ”I repubblicani pensano di non dover pensare quando si occupano dell’Iraq. A loro basta applaudire il presidente…e criticare la stampa che non porta buone notizie”.

Ma la critica si spinge oltre le disavventure della guerra, per attaccare l’ideologia stessa che preside alla politica dell’Amministrazione Bush. Scrive Clyde Prestowitz, un’analista di tradizione conservatrice, a suo tempo membro dell’amministrazione Reagan: “Il progetto imperiale dei cosiddetti neo-conservatori non è per nulla conservatorismo, ma radicalismo, egocentrismo e avventurismo, mascherato dalla retorica del patriottismo tradizionale. I veri conservatori non sono mai stati messianici e dottrinari…(Quello attuale) non è né conservatorismo, né liberalismo, ma semplice irresponsabilità “(citato dalla New York Review of Books, 9 ottobre 2003).

Nelle ultime settimane, il dubbio ha cominciato a farsi strada nei ranghi dei più convinti assertori della guerra come strumento privilegiato di lotta al terrorismo, come ha dimostrato la vicenda del memorandum, che doveva rimanere riservato, di Rumsfeld. Nicholas Kristof, autorevole commentatore del New York Times, paragona caricaturalmente il comportamento dell’attuale Amministrazione americana a quello dei greci nella guerra di Troia. Achille era certamente il più potente degli eroi, ma anche il più arrogante: “è un unilateralista...rifiuta di consultarsi con gli alleati; nega gli ammonimenti degli aruspici (l’intelligence) sulla propria vulnerabilità; non legge i giornali” (…..). Ma alla fine, Omero lo redime: la morte dell’amico Patroclo e la vendetta tratta dall’uccisione di Ettore gli daranno “il senso dei propri limiti, una nuova compassione, una nuova moderazione e una nuova saggezza”. La lezione omerica, conclude Kristof, è che anche gli antichi eroi commettevano errori, ma la loro grandezza stava nel saperli correggere.

In questo quadro, il tentativo di deviare il dibattito sul futuro dell’Iraq e del Medio Oriente dai problemi veri al tema stantio e pretestuoso dell’antiamericanismo, per definire i confini fra i veri “riformisti” e i “radicali” del centro-sinistra, è indice di una visione parrocchiale che contribuisce a separare l’Italia da ciò che in Europa e negli stessi Stati Uniti si muove. Giuliano Zincone, riferendosi ai dubbi seri e crescenti che solleva la strategia americana della guerra in Iraq, ha scritto sul Corriere della Sera del 27 ottobre: “In Italia l’uomo della strada vorrebbe ragionare liberamente, senza sentirsi obbligato a difendersi dalle diverse accuse di filoamericanismo o antiamericanismo, ogni volta che guarda il mondo cercando di usare la propria testa”. Vorremmo solo aggiungere che la stessa regola di buon senso dovrebbe valere per gli uomini politici di tutti gli schieramenti politici, compreso il centro-sinistra, e non solo per l’uomo della strada.

Lunedì, 3. Novembre 2003
 

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