Il bisturi rivoluzionario

Ha scritto Moni Ovadia: “Ci sono luoghi di rivoluzione nei posti più impensati: uno di questi luoghi è sicuramente il bisturi di Gino Strada”. Il chirurgo di guerra che definiva la sua opera come “un mestiere” ci lascia una lezione da non dimenticare

Nei giorni in cui i talebani conquistavano Kabul, Gino Strada moriva in Normandia per un attacco cardiaco. Viene spontaneo accostare i due avvenimenti, perché Gino Strada ha lavorato a lungo in Afghanistan ed è diventato un simbolo della risposta umanitaria al fragore della guerra che da tanti anni insanguina quel paese. Quasi un tragico scherzo del destino, mentre ci si preparava a una nuova catastrofe umanitaria.

E’ anche alla luce dei tragici avvenimenti afgani che non dimenticare Gino Strada diventa un dovere morale. Abbiamo visto in Afghanistan quanto poco valgano i principi di democrazia, libertà e giustizia sbandierati dagli americani e dai paesi occidentali. Principi rapidamente sacrificati sull’altare della ragion di Stato e della convenienza politica. E’ questo che rende la sconfitta degli occidentali ancor più bruciante. Andati là dopo l’11 settembre per vendicare le torri gemelle e, visto che c’erano, esportare la democrazia, gli Stati Uniti e i loro alleati se ne tornano a casa dopo vent’anni, riconsegnando il paese a quelli che c’erano prima e lasciando alle loro spalle una profonda striscia di sangue, fame, miseria, perdita dei diritti civili soprattutto da parte delle donne.

Diversamente, anche in questi momenti bui, non abdicano i principi di umanità che i singoli individui e molte organizzazioni non governative hanno incarnato e continuano a incarnare nei tanti fronti di guerra sparsi sulla Terra. Principi che sono ancora vivi, come testimonia la lezione di Gino Strada e come testimonia l’operare delle tante organizzazioni umanitarie, tra cui Emergency da lui fondata. Tanto per citare un esempio, mentre il padre moriva, Cecilia, la figlia di Gino Strada, era nel Mediterraneo con una missione di soccorso a salvare vite umane.

Per parlare di Gino Strada occorre evitare qualsiasi forma di retorica e adoperare invece quel linguaggio asciutto, privo di enfasi, che lui ha sempre usato. Per questo ci è sembrato utile andare a rileggere quello che Gino Strada ha scritto in tanti anni dai vari fronti di guerra. In particolare il suo libro del 1999, “Pappagalli verdi. Cronache di un chirurgo di guerra”, un libro che sembra scritto oggi e che merita di stare accanto ai grandi libri contro la guerra. Libri che denunciano la crudeltà, ma ancor più la pazzia, la stupidità, l’inutilità della guerra.

Pappagalli verdi è il soprannome delle mine giocattolo, studiate apposta per mutilare i bambini, lanciati come volantini dagli elicotteri russi sui villaggi dell’Afghanistan durante la guerra russo-afgana, che provocano danni irreparabili agli arti e spesso la cecità, se non la morte, in chi, incuriosito e ignaro, le maneggia. Le vittime di queste mine sono sempre i ragazzini, i principali protagonisti dei racconti di Gino Strada. Di mine antiuomo è disseminato l’intero libro. Mine progettate nei minimi particolari da valenti ingegneri e tecnici, che vivono in paesi ricchi e che magari sono anche padri di famiglia. Mine russe, mine italiane che ancora seminano la morte ai confini tra l’Iran e l’Iraq (fabbricate prima che una legge del 1997 ne proibisse la produzione nel nostro paese). Mine sparse dagli eserciti di tutto il mondo nei vari teatri di guerra e che, nel novanta per cento dei casi, colpiscono i civili. Così come civili sono le vittime dei gas lanciati dagli aerei di Saddam Hussein contro i curdi e civili sono i morti spietatamente ammazzati dai cecchini a Sarajevo durante la guerra in Bosnia. E civili – ma che stavolta combattono tra di loro – sono nel cattolicissimo Ruanda “i fedeli che, usciti dalla messa delle nove, hanno fatto a pezzi col machete quelli che si stavano recando alla messa delle undici.”

Iraq, Kurdistan, Siria, Afghanistan, Pakistan, Cambogia, Ruanda, Angola, Etiopia, Gibuti, Perù, ex-Jugoslavia: sono questi i luoghi di guerra di cui Gino Strada parla nel suo libro come testimone diretto. E come operatore diretto, nelle vesti di chirurgo di guerra. Ma perché lo fai? E’ la domanda che molti gli rivolgono, pensando che sia matto. Alla quale Gino risponde dicendo semplicemente che è un mestiere che a lui piace, che ama “accettare la sfida, misurarsi con le difficoltà.” “Dimostrare che si può fare, che si può riuscire in qualcosa di utile anche quando sembra impossibile, quando le porte sembrano tutte chiuse. … Nessuna liturgia né retorica, niente significati trascendenti e universali. Non servono, non c’entrano, possono perfino essere dannosi. Questo deve restare un mestiere, anzi deve cominciare, finalmente, a diventare un mestiere, una professione. Il chirurgo di guerra come il pompiere, il vigile, il fornaio.”

E’ con questo stile, con questo approccio minimalista che nel suo libro e in tutta la sua vita Gino Strada ci fa sembrare normali quelli che in realtà sono spesso atti di eroismo. Che tanto contrastano con il cinismo dei governi e l’ipocrisia delle organizzazioni internazionali, a cominciare dall’Onu, contro i quali Gino sempre si scaglia. Come dicevamo all’inizio, il contrasto con “i solenni principi” di cui si gonfiano il petto i politici di turno non può essere più lampante. Dice bene nella Prefazione Moni Ovadia: “I tempi delle palingenesi assolute e totalizzanti sono finiti, ma ci sono luoghi di rivoluzione nei posti più impensati: uno di questi luoghi è sicuramente il bisturi di Gino Strada.”

Giovedì, 16. Settembre 2021
 

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