I tre rischi del governo Letta

Il redivivo Berlusconi non è forte come vorrebbe sembrare: il risultato elettorale ha detto che due terzi del paese è contro di lui, e se tira troppo la corda Napolitano potrebbe usare l'arma delle dimissioni, con la probabilità che al suo posto vada qualcuno meno fautore della "concordia nazionale". Letta sarà in grado di vedere il bluff? Ma c'è anche il problema dell'assenza di un'offerta politica di sinistra

Tra i giudizi critici che hanno accompagnato la nascita del governo Letta, la maggior parte riguarda il ruolo dominante che potrà esercitare il redivivo Silvio Berlusconi. In effetti, è reale il rischio che tragga vantaggio dalla situazione che si è creata, per responsabilità preminente del gruppo dirigente del Pd, caduto in una sorta onnubilamento strategico collettivo. Ad un esame più attento, tuttavia, mi sembra che il rischio più concreto di cui ci si debba preoccupare sia un altro. Senza sottovalutare le sette vite del Cav, ma senza neppure concedergli il vantaggio, una volta ancora, di esagerarne le capacità perdendo di vista le sue debolezze e i cortocircuiti in  cui va avvitandosi.

 

Il rischio maggiore è che il governo Letta, più che fornire a Berlusconi il viatico cui aspira per i suoi (personali e privati) problemi, si risolva in un ulteriore rinvio per la soluzione dei problemi del Paese. Con l'aggravante che col passare del tempo la loro drammaticità aumenta progressivamente, rendendo sempre più difficili le soluzioni e sempre più penosa la condizione della massa dei cittadini. Questo, a mio parere, il pericolo principale.

 

Non che di questo non vi sia consapevolezza. Ha anzi costituito uno dei motivi trainanti della campagna elettorale di Bersani ed anche delle sue mosse dopo le elezioni: “Un'alleanza con la formazione che ha la maggiore responsabilità del fallimento della politica nella crisi non farà il bene del Paese”. Questa affermazione tuttavia era contraddetta da quella, usata alternativamente, come fosse equivalente, che “i nostri non lo capirebbero”. Locuzione quanto meno ambigua (non a caso finita nel mirino di Renzi) potendo essere intesa come se il problema nascesse da un deficit di maturità degli elettori anziché da una loro profonda convinzione derivante da una sequenza di fatti fin troppo eloquenti e inconfutabili.

 

L'ambiguità si è infine sciolta nel peggiore dei modi. Con la formula “il paese lo vuole” (il grande abbraccio), e con il “governo di servizio” coniato da Letta. Ovvero, la “grande coalizione” in versione nostrana, quel pasticcio secondo cui le intese (frutto, certo, di compromessi) sul programma vengono dopo la ripartizione degli incarichi ed il giuramento di fedeltà alla Costituzione, non prima. All'insegna del motto “io speriamo che me la cavo”.

 

Il ricatto sull'Imu ha fatto suonare il primo campanello d'allarme, quando la fiducia era ancora pendente in uno dei due rami del Parlamento (aspettando il Senato delle Regioni e la fine del bicameralismo perfetto). Ovviamente i ministri (Pd) che, improvvidamente, si erano spinti a delineare le ipotesi di fondo di una revisione della tassa (senza attenuarne la progressività ma semmai rafforzandola, perciò senza l'abolizione anche per le grandi rendite) sono stati messi a tacere. Non si saprà nulla della soluzione che sarà adottata finché non sarà chiarita una serie molto lunga di aspetti pregiudiziali e dirimenti …

 

E' chiaro che nessuno può illudersi che il governo Letta possa evitare i contraccolpi della campagna elettorale permanente che il Cavaliere condurrà, con la consueta determinazione (fino alla ferocia) e abilità. Ma, per tornare ai cortocircuiti e alle fragilità strategiche di Berlusconi, non dovremmo dimenticare un dato della realtà che lui per primo non dimentica e che nessuno dei miracoli di cui è capace potrà modificare: due terzi degli elettori italiani non lo vogliono più tra i piedi.

 

Questo dato, che gli osservatori stranieri hanno ben presente, è sorprendentemente messo in ombra da chi più di tutti dovrebbe trarne forza (dalla sinistra, intendo). La campagna elettorale che Berlusconi ha condotto in modo arrembante all'inizio dell'anno gli ha permesso, sì, di recuperare qualche milione di voti portandolo vicino al traguardo del 30% (di coalizione, avendo rimesso in riga perfino la Lega, a costo di cedere il governo della prima regione italiana). Ma ha anche prosciugato irrimediabilmente quella “terra di mezzo”, incerta o indifferente, da cui il suo schieramento traeva la forza per governare senza avere la maggioranza degli elettori (con alle spalle, peraltro, un consenso che superava pur sempre il 40% dei voti espressi).

 

Tralasciamo di tornare sul tasto dolente, di come sia accaduto che questa ampia maggioranza (quasi due terzi degli elettori votanti) non abbia trovato sintesi in una proposta di governo vincente. Ma non è un caso che l'incubo costante delle notti berlusconiane resti quello di ritrovarsi con un Parlamento unito contro di lui.

 

Questo pericolo lo ha scampato già una volta nel “pasticciaccio brutto” della rielezione di Napolitano. Ma una simile concomitanza di errori marchiani non può ripetersi, se non altro per  la statistica. E mettere mano al portafoglio, stavolta per comprare un centinaio di parlamentari, costerebbe davvero caro. Dunque i ricatti, pur destinati a continuare, dovranno fare i conti con la contro-mossa di Napolitano, l'arma letale. Le sue dimissioni. E' stato chiaro: non scioglimento delle Camere ma dimissioni. Ed anche i suoi massimi detrattori sanno che, per quanto ispirato da un ideale di concordia nazionale, non è certo Giorgio Napolitano disposto a passare alla storia come il docile apri-pista per l'insediamento di un personaggio come Silvio Berlusconi al vertice delle istituzioni repubblicane, con i corollari drammatici che ne deriverebbero.

 

Inoltre Berlusconi sa che le pulsioni autodistruttive che hanno animato i parlamentari Pd troveranno un freno potente nella prospettiva di un ritorno alle urne. Gli stessi 101 che hanno impallinato Prodi, convinti (a quanto sembra di capire) che ne sarebbe derivato un rischio di ingovernabilità che li avrebbe rispediti a casa, non esiterebbero un momento ad accordare la fiducia a un governo che, nominato da un presidente eletto senza i voti del Pdl, scongiurerebbe le elezioni agognate da Berlusconi costringendolo all'opposizione.

 

Dobbiamo dunque fidarci degli incubi del Cav? E' questa la conclusione da trarre? Non scherziamo. Vedo almeno tre grosse incognite nel futuro imminente.

 

La prima, più banale, è che Letta (e il Pd con lui) non sappia valutare le debolezze strategiche di Berlusconi e ne subisca i ricatti senza vedere il bluff che nascondono. Lo verificheremo presto, quando si saprà, per un verso, la composizione della Convenzione per le riforme e la sua guida, per l'altro, la destinazione della decina di miliardi che dovrebbero rappresentare il “tesoretto” auspicato.

 

Il secondo rischio deriva dal fatto che l'offerta politica che dovrebbe fare sintesi dei variegati sentimenti, interessi, aspirazioni, sogni, del multiforme popolo “a sinistra del Pdl” non è disponibile sul mercato. Né si intravede all'orizzonte alcun progetto politico solido, credibile, che si ponga quell'obiettivo. Il prossimo congresso del Pd dovrebbe servire proprio a farci capire qualcosa in questo senso. Se non a concretizzare quell'offerta, quanto meno a sciogliere il dubbio se sia quello o meno il progetto del Pd, starei per dire il compito. E se esiste una leadership (collettiva) capace di guidare questa impresa e un leader in grado di impersonarla e unificarne il volto.

 

Matteo Renzi, se qualcuno dovesse pensare a lui, si è detto convinto, finora, che il progetto  debba andare in direzione opposta, alla conquista del centro, dei moderati. Una visione inattuale e irrealistica, figlia di un modello sociale che il liberismo ha demolito. E non appare, intorno a lui, una leadership convinta del contrario. C'è perciò ancora molta strada da percorrere e il mio timore è che il macigno Berlusconi sia, sì, da rimuovere, ma rischi di fare velo e funzionare perfino da alibi per ingigantire le difficoltà del percorso.

 

Vi è infine un ultimo rischio. Preferisco limitarmi ad evocarlo senza approfondirlo. La storia ci insegna che nell'Italia del dopoguerra un intrico di forze eversive, mai definitivamente debellate, è regolarmente entrato in scena ogni qualvolta si sia posta una concreta eventualità di cambiamento in direzione di una maggiore giustizia sociale.

 

In conclusione, anche se la strada a me sembra tracciata, percorrerla fino in fondo non sarà impresa facile, come non è mai stata finora. Il tempo stringe, tuttavia, e ogni minuto perso sarà una tragedia.

Sabato, 4. Maggio 2013
 

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