I paradossi dell’euro e le elezioni di maggio

Secondo la propaganda europeista al prossimo voto per il Parlamento si fronteggiano uno schieramento pro-euro e uno contro, ma non ci sono partiti di qualche consistenza, nemmeno quello della Le Pen o la Lega, che abbiano in programma l’eliminazione della moneta unica. La scelta è invece tra la continuità o un radicale cambiamento delle politiche neoconservatrici che hanno causato il “decennio perduto” dell’Europa

Non sappiamo come si riconfigurerà il Parlamento europeo dopo le elezioni di fine maggio. Ma un dato è chiaro. E’ la prima volta dopo 40 anni di esistenza che il nuovo Parlamento nasce senza una maggioranza precostituita. I due partiti dominanti, conservatori e socialdemocratici o di centrosinistra, perderanno, secondo tutte le previsioni, voti e seggi. Il risultato si rifletterà particolarmente sull’eurozona. Non a caso, all’origine del millennio furono i partiti socialdemocratici protagonisti della costruzione dell’euro. Ora sono quelli che subiranno il peso maggiore della sconfitta, a cominciare dalla Francia con la sostanziale scomparsa del partito socialista di François Hollande, la marginalizzazione del Partito democratico in Italia e il pesante ridimensionamento della SPD in Germania.

Dobbiamo ricordare che l’euro fu per molti versi un’invenzione francese, opera di Mitterrand e Delors. La Germania unificata ne avrebbe fatto volentieri a meno. L’unificazione risolveva un problema storico e faceva definitivamente del marco la moneta più forte in Europa e tra le rispettate al mondo. Ma Kohl guidò senza tentennamenti la liquidazione del marco per lasciare spazio alla moneta unica, come contropartita concessa alla Francia in cambio dell’unificazione della Germania.

Alla fine del millennio l’euro nacque in un clima di grande ottimismo. Nel giro di un decennio, decretarono gli uffici della Commissione europea, la crescita avrebbe debellato la disoccupazione nell’Unione, riducendola al livello fisiologico del 2-3 per cento.

Non andò così. I primi anni furono deludenti, ma furono considerati una fase di transizione. Poi la crisi finanziaria nata in America nel 2008-2009 investì il sistema bancario europeo e, in particolare, francese e tedesco, profondamente coinvolti nella crisi immobiliare americana.

Nell’America colpita dalla crisi molti economisti avevano paventato il crollo catastrofico dell’economia. Non andò così. Gli Stati Uniti, traendo insegnamento proprio dall’ esperienza della Grande Depressione degli anni trenta, adottarono misure in grado di attaccare le radici stesse della crisi, avviandone il superamento. Il confronto con la politica nell’Unione europea è illuminante.

Come sappiamo, il primo intervento degli Stati Uniti fu il salvataggio del sistema bancario la cui crisi era culminata con la liquidazione della Lehman Brothers all’inizio dell’autunno del 2008. Ma il salvataggio delle banche si era rivelato insufficiente per avere ragione della crisi. Né si mostrò sufficiente l’abbattimento dei tassi d’interesse fino ad azzerarli per rilanciare l’economia. Il cavallo non beveva. L’economia era imprigionata nella recessione e la disoccupazione cresceva drammaticamente fino a 15 milioni di disoccupati.

Chiaramente la politica monetaria tamponava la crisi ma non ne prospettava la soluzione. Ben Bernanke che, come presidente della Federal Reserve, aveva utilizzato tutte le possibilità offerte dalla manovra monetaria, in sostanza azzerando i tassi di interesse e espandendo il credito, ne riconosceva i limiti. Bernanke aveva condotto i suoi studi accademici proprio sulla crisi degli anni trenta. Ora era convinto che la crisi in atto non poteva essere risolta col solo intervento monetario. “Come Keynes aveva per primo sostenuto negli anni trenta – scrive nel suo libro di memorie – nel corso di un grave declino dell’attività economica (“an economic slump”) la spesa pubblica può per un certo tempo rimpiazzare la spesa privata”. “ Con l’economia in caduta libera, aggiunge, e con tassi d’interesse ormai prossimi a zero, l'economia certamente necessitava di un sostegno fiscale - aumenti della spesa pubblica, taglio delle tasse per promuovere la spesa privata , o di entrambe”.(The Courage to Act, pag 387).

Bisognava, dunque, affiancare alla politica monetaria basata sulla riduzione dei tassi e la facilitazione del credito (il “quantitative easing”), una politica di bilancio segnatamente espansiva. Ma questa era una scelta che spettava al governo. E fu la scelta che fece Barack Obama appena giunto alla Casa bianca, deliberando una spesa di poco meno di 800 miliardi di dollari a carico del bilancio pubblico per rilanciare consumi e investimenti.

Era una svolta decisiva che palesemente ricordava la politica di Roosevelt al tempo della Grande Depressione e del lancio del New Deal. Una spesa pubblica di 800 miliardi di dollari equivaleva più del 5 per cento del reddito nazionale americano - come dire, l’equivalente di 80-100 miliardi di euro di spesa pubblica aggiuntiva per un’economia come quella italiana o francese.

Per alcuni economisti americani di tendenza democratica si trattava di un intervento insufficiente nella convinzione che sarebbe dovuto essere almeno una volta e mezzo, se non il doppio, più ampia.. Ma questo rimane un dibattito per gli storici. Sta di fatto che la decisione ebbe effetti positivi. Nell’estate del 2009 l’economia cominciò a risalire dopo un anno e mezzo di progressiva caduta. La possente iniezione di spesa pubblica diretta a sostenere i consumi e rilanciare gli investimenti aveva tracciato la strada della ripresa.

In Europa si è seguita la strada contraria. Le banche furono salvate a spese dello Stato accrescendo il debito pubblico fino a raddoppiarlo, come in Spagna. Ma aggiungendo sale sulla ferita della recessione e dell’esplosione della disoccupazione, le autorità europee imposero agli stati membri un programma di rientro del disavanzo aumentando le tasse sui consumi e riducendo la spesa pubblica – in sostanza, il blocco degli investimenti e la riduzione della spesa sociale, dalle pensioni alla sanità. In sostanza, per riprendere il tema evocato da Bernanke, la politica del presidente Hoover negli Stati Uniti che innescò la Grande Depressione.

Dieci anni dopo l’inizio della crisi il confronto tra l’eurozona e gli Stati Uniti, dove la crisi ebbe inizio, è istruttivo quanto impietoso. In America nell’estate del 2009, sotto l’impulso delle misure espansive adottate dalla Casa bianca, la recessione fu arrestata e l’economia riavviata. Il timore di un nuovo 1929 era stato debellato.

Da allora la crescita in America ha avuto uno sviluppo costante nel corso di un decennio, E’ il periodo più lungo di crescita della recente storia americana. E la disoccupazione è ridotta al 3,6 per cento, la più bassa degli ultimi cinquanta anni.

Nel corso dello stesso decennio l’eurozona è stata l’area con minore crescita e più alta disoccupazione nel mondo sviluppato. Nella seconda metà del 2018 sia l’Italia che la Germania hanno accusato una nuova fase recessiva. E, secondo le previsioni del Fondo monetario, il 2019 si chiuderà in Germania, l’economia trainante dell’eurozona in virtù del suo anomalo avanzo commerciale, con una crescita dello 0,5 per cento. Dieci anni dopo la crisi del 2008-09 il quadro dell’eurozona, a confronto con il resto del mondo sviluppato, non potrebbe essere più desolante.

Il Sole 24 ore, che non può essere sospettato pregiudizio anti-euro, riferendosi all’Italia, ha recentemente aperto la prima pagina con un titolo corredato da un grande grafico: “Classe media sempre più povera: perso dal 2008 il 12% del reddito” (6.5.2019). La riduzione del reddito in termini reali, cioè di potere d’acquisto, si riferisce all’ampia fascia di ceti medi con un reddito compreso fra 15 e 55 mila euro. Ma per il 44 per cento della popolazione con un reddito inferiore a 15 mila euro, Il “calo – precisa il giornale della Confindustria - è più marcato superando il 13 per cento”. Ovviamente, le medie mascherano situazioni profondamente diverse. In Lombardia, le famiglie con un reddito annuo inferiore a 15.000 euro sono il 35 per cento del totale; nel Mezzogiorno raggiungono e superano il 60 per cento.

E’questo il quadro nel quale gli elettori saranno chiamati a votare per il Parlamento europeo il 26 maggio. La propaganda delle èlite della stragrande parte della stampa europea cerca di convincere che le elezioni di fine maggio hanno come oggetto nell’eurozona l’esistenza o l’eliminazione del’euro. Si tratta di una torsione che tende a confondere le carte. Non c’ è nessun partito rilevante nell'Unione europea che ponga al centro della propria piattaforma elettorale l’eliminazione dell’euro. Non lo fa nemmeno Marine Le Pen dell'estrema destra francese o la Lega in Italia. Tanto meno l'euro è messo in gioco da sinistra come sarebbe il caso di Podemos in Spagna. I Cinque stelle, che nel passato si sono mossi su una linea ambigua si presentano con una piattaforma che ha alla base la moneta unica.

Se si diradano le nuvole della propaganda, le differenze fra un partito e l’altro si basano non sull’euro, ma sulle politiche imposte dalle autorità dell’eurozona e dai governi nazionali che se ne sono fatti schermo per le loro politiche neoconservatrici. Non è in gioco l’euro, ma le politiche che Bruxelles con la complicità dei governi nazionali ha imposto nel suo nome con i risultati che conosciamo

Quando a novembre del 2008 gli americani votarono contro il Partito repubblicano di Bush votarono contro una politica che aveva causato la più grave crisi economica dopo il 1929, non contro il dollaro, e aprirono le porte a una nuova amministrazione che, come abbiamo visto, operò una svolta nella politica economica e sociale.

Come è normale nelle democrazie, il voto ha (o dovrebbe avere) come oggetto la politica svolta dai governi e i suoi risultati. Nell’Unione europea, più precisamente, nell’eurozona, la politica affidata - con la complicità dei governi nazionali - a Bruxelles, ha dato risultati indifendibili. Tutte le votazioni che si sono svolte negli ultimi due anni hanno punito i governi che hanno seguito la politica imposta da Bruxelles.

Le elezioni di fine maggio si svolgeranno nella nuvola del grande equivoco fra la continuità o la liquidazione dell’euro oscurando il tema sul quale val la pena di votare: la continuità o un radicale cambiamento delle politiche neoconservatrici che hanno accompagnato l’euro nel passato decennio. Un decennio perduto.

Martedì, 14. Maggio 2019
 

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