I paradossi del Patto di Stabilità e di (non) crescita

La destra tenta di eluderlo, ma non può essere una bandiera per la sinistra
Il dibattito aperto sul Patto di stabilità può essere utile non solo per l’Italia, ma per l’Unione europea. Ma per renderlo utile deve essere liberato dall’uso tattico che ne fa il governo per mascherare il fallimento della sua politica economica, ma anche dalla ragnatela di equivoci che confonde i termini del dibattito nell’opposizione. Proviamo a stabilire alcuni punti.

1 - Il Patto di Stabilità non deve essere confuso con i criteri di convergenza fissati dal Trattato di Maastricht concordato nel 1991, come premessa per la realizzazione della moneta unica. Maastricht fissava un insieme di traguardi (tassi di inflazione, di interesse, di cambio, disavanzo e debito pubblico), lasciando ai paesi le politiche per raggiungerli. Si trattava di ridurre le distanze nei comportamenti monetari e finanziari degli Stati che intendevano fondare la moneta unica. Se errori ci furono, non dipesero dai criteri di convergenza, ma dalla rigidità dei cambi che spalancò le porte alla speculazione internazionale, dando luogo a una serie di svalutazioni.
 
2 - Il Patto di Stabilità fu stipulato nel 1997, quando i traguardi di Maastricht erano stati sostanzialmente stati realizzati. Del nuovo Patto si poteva fare a meno, salvo esigere dai paesi ad alto debito (primo fra tutti, l’Italia), la progressiva continuazione della discesa verso il limite del 60 per cento sul PIL, fissato a Maastricht. Quanto al limite del tre per cento stabilito a Maastricht per i disavanzi di bilancio, poteva essere amministrato politicamente da Ecofin - il Consiglio dei ministri finanziari - , puntando alla sua riduzione nei periodi di crescita, e lasciando operare gli stabilizzatori automatici in quelli di congiuntura sfavorevole.
 
Il Patto impose, invece, il vincolo del pareggio del bilancio e il suo raggiungimento secondo un rigido programma concordato una volta per tutte, indipendentemente dalla congiuntura mondiale e dagli andamenti dell’economia all’interno dell’Unione. Si trattò di un doppio errore: economico, perché privava l’Unione europea di uno strumento di intervento sul ciclo, anche quando questo dipendeva da un contesto esterno; politico, perché si privava non solo gli Stati membri, ma la stessa Unione europea dell’unico elemento di discrezionalità che rimaneva, una volta trasferita la sovranità monetaria alla BCE.
 
Insomma, il Patto non era il figlio legittimo di Maastricht, ma una sua edulcorazione ideologica, tendente a imporre la paralisi della politica macroeconomica sia agli Stati membri che all’Unione. Ideologica, nel senso che tutta la politica economica veniva ridotta al libero funzionamento del mercato interno, alla deregolazione del mercato del lavoro, alla riduzione dell’intervento pubblico e della spesa sociale.
 
3 - L’economia europea ha funzionato con un rilevante aumento della crescita (e dell’occupazione) per i primi due/tre anni in virtù di una forte congiuntura internazionale, sostenuta dal boom americano. Appena iniziato lo slowdown, l’Unione europea si è trovata paralizzata, senza strumenti di intervento. In teoria, di fronte all’inversione della congiuntura internazionale, si sarebbe dovuto (e potuto) sospendere e aggiornare i programmi di convergenza verso il pareggio concordati per il 2003/2004. Questo non è stato fatto.
 
Ma non basta. A rendere completo l’accecamento ideologico, c’è la BCE, che blocca i tassi, mentre Greenspan li riduce ripetutamente nel tentativo di stimolare la ripresa. La BCE giustifica la sua posizione con la necessità di controllare l’inflazione, mentre nel mondo si discute sul rischio della deflazione.
 
Si tratta di puri errori di valutazione, per così dire, tecnici? Anche se Modigliani considera i banchieri centrali europei “stupidi”, la verità è che la nascita del Patto, prima, la sua amministrazione dissennata poi, così come la politica della BCE, hanno un fondamento politico, culturale e ideologico. Le difficoltà dell’Europa (bassa crescita e alta disoccupazione) sono attribuite a due ragioni strutturali fondamentali: la rigidità del mercato del lavoro e la spesa per il welfare. Secondo questa tesi, non spetta alla politica macroeconomica europea intervenire sul ciclo, ma sono i singoli governi che debbono attuare le “riforme di struttura”, liberalizzando il mercato del lavoro e riducendo la spesa sociale (in primo luogo, pensioni e sanità).
 
4 - Nel confuso dibattito in corso vi sono incongruenze e paradossi. Il governo Berlusconi chiede l’allentamento dei vincoli del Patto, fingendo di dimenticare che l’Italia ha un debito pubblico doppio di quello dei grandi paesi concorrenti come Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna, e che ogni punto di maggiore disavanzo, aggiungendosi a un debito già fuori misura, non fa che accrescere il servizio degli interessi. Ancora più insensato è che l’accrescimento del deficit dovrebbe servire nei prossimi anni (di qui alla fine della legislatura) a ridurre le tasse…nel paese che ha il più alto debito pubblico tra tutti i paesi capitalistici avanzati.
 
Dal canto suo, il centro-sinistra difende a oltranza il Patto, oscurando il fatto che la sua amministrazione - prima ancora dei suoi obiettivi di equilibrio della finanza pubblica - è motivata da una linea neoconservatrice, il cui sbocco logico è la liquidazione non solo di uno spazio discrezionale di intervento dei singoli Stati, ma la paralisi politica delle istituzioni europee, ridotte a fare da cane da guardia delle politiche neoliberiste su cui si fonda la politica della Banca centrale europea.
 
Non meno grave è il fatto che, in questa fase di revisione delle istituzione europee, attraverso la Convenzione, si trascuri il punto decisivo, cioè la legittimazione politica dell’Unione. Vale a dire, la sua capacità di promuovere e gestire una politica di sviluppo, di innovazione e di occupazione. E questo è possibile solo recuperando quella capacità di governo economico dell’Unione che oggi è requisita nella BCE e nelle tecnocrazie che a Bruxelles hanno fatto del Patto di stabilità e di (non) crescita una gabbia che imprigiona in primo luogo l’Unione europea.
Giovedì, 12. Settembre 2002
 

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