I (falsi) prodigi dei mercati finanziari

La spiegazione corrente della catastrofe finanziaria è che sono mancate regole adeguate. Non è così: quanto è accaduto rispondeva in realtà a una super-regola, costruita negli ultimi due decenni e ispirata alla filosofia della sovranità dei mercati, alla loro capacità di autoregolazione, al ritiro dello Stato

Da tempo immemorabile non si sentivano invocazioni così pressanti a favore dell’intervento pubblico in economia. Ora tutti vogliono, compresa Emma Marcegaglia, che lo Stato intervenga per salvare i mercati finanziari. Sia chiaro, non si tratta di un’abiura: lo Stato deve deve intervenire per risolvere un’emergenza globale, risolta la quale si ritirerà, e il mercato tornerà ai suoi fasti. Ma da dove viene la crisi? La risposta ortodossa è che alla sua origine vi è una mancanza di regole o la loro inadeguatezza. Ma è così? L’origine del ciclone che si abbatte sulle grandi economie del pianeta è dunque così semplice da essere quasi banale? A noi non sembra. Negli ultimi due decenni i mercati finanziari non hanno agito senza regole, ma hanno imposto una loro super-regola ispirata alla filosofia della sovranità dei mercati, alla loro capacità di autoregolazione, al ritiro dello Stato. All’elaborazione della nuova filosofia hanno collaborato grandi banchieri, uomini politici di destra e di sinistra, economisti insigniti di premi Nobel, gli esperti che danno la linea sulla grande stampa.

 

Il funzionamento delle banche in America, dove è esplosa la crisi, era stato regolato negli anni Trenta, al tempo del New Deal. Erano regole che miravano ad arginare la speculazione che era all’origine del crash del '29. Ma Franklin Roosevelt, in questo caso come in tutti gli altri che riguardavano l’imposizione di regole statali, dovette fare i conti con un’opposizione dura a morire. Quando nel 1934 fu proposta la costituzione della SEC (la Commissione preposta alla vigilanza sulla Borsa) col compito di porre un freno alla speculazione, Richard Whitney, presidente della Commissione finanza del Senato, affermò senza perifrasi: “ Sostengo che questa nazione è stata costruita con la speculazione, e che ogni ulteriore progresso deve seguire questa direzione”. Settant’anni dopo dobbiamo constatare che il tempo ha infranto le speranze di Roosevelt e dato ragione alla profezia di quel combattivo senatore repubblicano.

 

La crisi che sta spazzando il pianeta non origina dai mutui subprime. Con l’avvento dell’ideologia neoliberista, i vincoli, i controlli, l’intervento pubblico sono diventati il nemico principale. La nuova ideologia non si formò in una volta, ma avanzò implacabilmente sostenuta dalla grande finanza che tornava ad operare a livello globale e, insieme, dal rovesciamento teorico che aveva mandato in soffitta quaranta anni di keynesismo  per sostituirlo con le dottrine di Milton Friedman e Friedrich Hayeck. Lentamente ma inesorabilmente si è rovesciato il rapporto fra Stato e mercato.

 

 Alan Greenspan racconta nella sua autobiografia un episodio che illumina il cambiamento del clima intellettuale e politico della fine degli anni 80. Nominato presidente della Fed, la banca centrale americana, fu colto dalla preoccupazione di dover piegare le sue radicate convinzioni neoliberiste alle esigenze di regolamentazione, tipiche di una Banca centrale. Ma, una volta presa confidenza con i banchieri della Fed, la sua preoccupazione si dissolse. “Quando entrai in carica – racconta - rimasi piacevolmente sorpreso…quello che non avevo colto era il loro orientamento al libero mercato”. La libertà dei mercati finanziari (oltre naturalmente a quella, considerata non meno fondamentale, del mercato del lavoro) era ormai un paradigma sovraordinato al sistema delle regole. O, più precisamente, era entrata in campo una nuova super- regola di carattere pervasivo, onnicomprensivo e globale. Alla base di quella che potremmo definire la “regola delle regole” troviamo la sovranità dei mercati finanziari, l’autoregolazione, il ripudio di ogni intervento pubblico.

 

In questa trionfale marcia verso l’autoregolazione dei mercati finanziari, due fatti contribuirono a modificare profondamente l’apparato di regole che in America presiedeva al controllo della speculazione. Nell’autunno del 1999, mentre si avviava a conclusione il secondo mandato di Bill Clinton, il Congresso abolì la vecchia legge del 1933 - il Glass-Steagall Act  - che impediva alle banche commerciali di operare nei territori rischiosi degli investimenti e della speculazione. Si apriva così indiscriminatamente la nuova frontiera della speculazione al mondo artefatto di strumenti finanziari sempre più complessi e fantasiosi.

 

Il secondo e definitivo passo fu compiuto nel 2004, quando le banche d’investimento ottennero che le loro filiali operanti nel campo dei derivati fossero esentate dall’obbligo di mantenere una quota prestabilita di riserve. La cosa interessante è che la richiesta fu avanzata dalle maggiori banche d’affari americani – Bear Stearns, Merrill Lynch, Lehman Brothers, Morgan Stanley e dalla Goldman Sachs, il cui presidente era Henry Paulson, l’attuale ministro del Tesoro. A titolo di esempio, la Bear Stearns, poi fallita la scorsa primavera, con tre dollari di riserva poteva assumere impegni per cento dollari. La SEC approvò la nuova normativa senza nulla eccepire. E, quanto ai controlli, si stabilì che vi avrebbero provveduto le stesse banche utilizzando i modelli matematici interni programmati per il calcolo dei rischi. A fianco del sistema bancario tradizionale si formò un sistema bancario ombra dedicato alla speculazione nel campo dei prodotti finanziari più innovativi, ormai privi di fondamenti nell’economia reale.

 

La crisi dei mutui subprime nasce in questo contesto: E’ la scintilla che innesca l’incendio, ma le cause vengono da lontano, dalla fusione fra gli interessi dell’élite finanziaria, prima americana e poi globale, con l’ideologia e la politica della neutralizzazione dell’intervento pubblico. I mutui senza garanzia vennero proposti alle famiglie americane, impoverite dalle conseguenze della precedente crisi finanziaria del 2001, non per fare della beneficenza, ma perchè le banche potevano trasformarli in complessi e, per molti versi, arcani strumenti finanziari – i CDO e i CDS – in grado di trasferire il rischio ad altre istituzioni finanziarie. Fino a un certo punto ogni passaggio di mano consentiva un guadagno senza più riferimento alla consistenza reale dei debiti e dei crediti. Gli strumenti assicurativi - i CDS (Credit Default Swap) - che dovevano garantire la tenuta di questo stratosferico castello di carta nel 2000 ammontavano a meno di un miliardo di dollari; ma, dopo la liberalizzazione del 2004, si gonfiarono smisuratamente, raggiungendo nel 2008 l’ammontare fantastico di 55 mila miliardi di dollari (quattro volte il reddito nazionale americano).

 

Questo non significa che l’élite finanziaria fosse all’oscuro dei rischi. Warren Buffet, il leggendario finanziere americano, aveva ammonito che il sistema super sofisticato della nuova finanza era “una bomba a orolegeria” e nel 2003, ironicamente parafrasando Bush, aveva definito l’enorme massa di derivati che inquinava l’economia mondiale “l’arma finanziaria di distruzione di massa”. Ma Buffet, per quanto riconosciuta fosse la sua esperienza nel campo finanziario e gigantesca la ricchezza accumulata, fu considerato un eccentrico. E, ancora nel 2005, all’antivigilia della crisi, i capi di Lehman Brothers, di Citigroup e di Goldman Sachs (sempre con alla testa Henry Paulson), riuniti in un “Gruppo per le politiche di controllo dei rischi”, annunciavano che i mercati finanziari erano “più stabili che in passato”.

 

Ora la crisi ha scavalcato l’Atlantico e imperversa sull’Europa che si riteneva potesse rimanere relativamente indenne, ma certamente non innocente. I liberisti europei hanno sempre guardato con invidia ai mercati finanziari americani. Ora si cerca la causa della crisi nella mancanza di un regolatore europeo unificato, ma si dimentica che in America i regolatori sono federali, senza che questo abbia impedito la crisi. La verità è che in Europa non c’è nemmeno la scorciatoia esplicativa dei mutui subprime. Più semplicemente, l’Europa col suo asse Francoforte-Bruxelles ha introiettato l’ideologia e la politica della liberalizzazione dei mercati finanziari. E ha fatto anche di più favorendo la costruzione di un sistema oligopolistico transnazionale, nel quale la dimensione delle banche travalica la capacità di intervento e controllo di uno Stato o addirittura di un gruppo di Stati come nel caso della banca Fortis, per il cui salvataggio sono dovuti intervenire insieme Olanda, Belgio, Lussemburgo e Francia.

 

Nella corsa alla liberalizzazione l’Unione europea è stata per alcuni aspetti all’avanguardia. Quando nel 1999 e poi nel 2004 si decise in America di liquidare le vecchie regole prudenziali che distinguevano le banche a seconda della loro funzione, e prevedevano un rapporto più stringente fra prestiti e depositi, la ragione addotta dai fautori della deregolazione fu che bisognava adeguarsi alle forme di liberalizzazione vigenti in Europa per non rendere meno efficiente il sistema finanziario americano. Una testimonianza di come la super- regola della liberalizzazione dei mercati e del ritiro dello Stato dalle sue funzioni di indirizzo e controllo sia diventata nell’ultimo quarto di secolo una fede di carattere universale con chiari connotati fondamentalisti.

 

Ora si cerca di correre ai ripari in modo confuso, azzardando ipotesi più o meno vaghe sulle origini della crisi. Una ricerca utile se può servire a individuare possibili rimedi meno effimeri di quelli finora sperimentati. Ma, per favore, non dite che la crisi è nata da una svista, da qualche regola mancante, dai tassi d’interesse mantenuti troppo bassi dal Maestro Greenspan, o dall’ingordigia delle famiglie americane che  si sarebbero caricati di mutui troppo alti. Anche perché, in questo ultimo caso, è vero semmai il contrario. Molte famiglie erano in difficoltà per l’aumento della disoccupazione e la stagnazione dei redditi, dopo la crisi finanziaria dell’inizio del decennio, ed erano le banche e le loro agenzie a spingere con ogni espediente verso l’assunzione di mutui senza garanzie, sui quali imbastirono, fino allo scoppio della bolla immobiliare, i loro traffici speculativi.

Mercoledì, 8. Ottobre 2008
 

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